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il ritorno

olga plyaskina

Era così tranquillo che anche il mare era calmo. A quell’ora in tutto il mondo non c’era niente più dolce della musica del silenzio. Il giorno era appena nato e la freschezza del primo mattino trafiggeva. Scalza, ho varcato la soglia e sono tornata nella stanza. Il foglio del calendario strappato con negligenza denudava due cifre in neretto: 1 e 0. Era il 10 settembre, esattamente un anno che stavo in Italia. Il dieci settembre dell’anno scorso l’aereo Alitalia, volo diretto da Mosca a Roma, si chinava un po’ di lato e attingeva con l’ala destra il buio che addensava. Come un cacciatore di perle, prima di un salto difficile, si preparava a tuffarsi nelle onde appena appena tremolanti delle luci di Fiumicino. Da quel giorno dovevo ricostruire la mia vita in Italia. Un’altra pagina è stata voltata.

È venuto di nuovo il dieci settembre. Di questo giorno mi ricordo tutto, fino ai dettagli più piccoli. Era pieno e succoso come una mela matura. Talmente matura che trasparivano i semi. Quando avevo appena cominciato a studiare italiano, mi inventavo delle associazioni per ricordarmi meglio le parole. “Sfruttare” era “raccogliere il frutto”. Solo dopo mi sono accorta che non mi era venuta casualmente. Ogni giorno è una tentazione. Comincia dalla mattina e ci canzona ora dopo ora. La tentazione è viverlo come vogliamo per capire perchè siamo qui. Ma lo capiamo e mangiamo di quel frutto? Non diventa il frutto proibito solo a causa della nostra paura e pigrizia? Ci sembra che il peccato antico ci guardi da dentro e solo pochi sanno che il peccato vero è non vivere la propria vita. Abbiamo paura di quello che ci rivelerà, che non saremo in grado di sopportarlo, essere conformi a quello. Voltiamo le spalle alla mela facendo una smorfia finta come fosse aspra o bacata dall’inizio. Calmandoci con questo percorriamo la nostra solita strada verso nessun luogo.

Quel primo anno, appena dopo il mio arrivo in Italia, eravamo ospiti in Sardegna dai genitori di mio marito. L’autunno italiano è ancora caldo. Il sole bacia la terra con calore e i rami degli alberi da frutta si chinano per il peso dei doni d’estate, promettendo le ricompense generose della fatica. Ma a venticinque anni la vita è un giardino: sembra che l’estate durerà per sempre e i successi che cadono ai piedi si possano calciare via come la frutta troppo matura. Non sapevo allora che presto mi sarebbe sembrato che tutte le vittorie del passato scivolassero come sabbia fra le dita e avrei dovuto rivincere me stessa da frustrazione e dubbi. Che la destinazione sulla mappa del viaggio si sarebbe dissolta nelle fredde piogge di tardo autunno.

Mio marito e io ci siamo conosciuti in America e abbiamo deciso di convivere prima del matrimonio. Le prove generali della felicità erano filate tutte lisce. La vita incorniciata da regole rigide, coperte dall’illusione della libertà, era facile e comprensibile. Le autostrade e le linee internet ad alta velocità scorrevano giù vertiginosamente e la vita era un po’ uno show. Mettere insieme le mie prime impressione sull’Italia era difficile. A me non piace basarmi solo sulle emozioni, voglio arrivare alla sostanza, capire il senso delle cose che mi circondano. Ma allora parlavo poche parole d’italiano.
In russo esiste una frase colloquiale e volgare: “Vuole, ma non può”; ma è triste se applicata agli stranieri. Di cosa è capace una persona che non sa esprimersi? Penso perciò esisto. Ma esisto per gli altri se non conoscono la lingua dei miei pensieri? E se la risposta fosse comunque sì, sarebbe ancora più spaventoso supporre che si tratti di esistenza vegetale...
Quando mi volto indietro, i primi mesi mi sembrano avvolti dalla nebbiolina dove si muovevano le “silhouette” delle perone: i visi indistinguibili si rivolgevano a me, ma le realtà come frammenti di un sogno intricato non riuscivano a mettersi insieme in un unico soggetto.
Cercavo disperatamente il mio posto in un mondo nuovo. Ma esso erigeva un muro di suoni sonori di una lingua straniera e mi respingeva spietatamente. Tutto perdeva di senso. Mi dimenticavo del matrimonio felice, delle vittorie nel passato e scivolavo sugli specchi. Non sapevo chi mi guardasse da dentro. Chi fossi e in quale lingua cercare la risposta?
Cos’è Italia per me? Il mio mondo nuovo, questo piccolo stivaletto. Avendolo indossato, mi alzerò un giorno come Cenerentola al ballo? Ahimè, non credevo alle favole. Forse a una, quella che a buon diritto consideravo la mia.

Crescevo, bambina timida e paurosa. Questo preoccupava i genitori, allora la nonna mi scrisse una favola. In un paese lontano era nata la principessa che era predestinata a diventare una regina forte e gentile. Lo indicavano tutte le stelle e le profezie dei libri antichi. Il tempo passava, la principessa cresceva, ma era una grande fifona. Di notte, nella luce lunare, le ombre dei boccioli di rosa crescevano smisuratamente. I petali dondolati dal vento caldo e affettuoso si aprivano come le bocche di mostri strani pronti a inghiottire una coppia di innamorati appartati. Le gocce delle fontane slanciate del palazzo si spezzavano sugli specchi d’acqua con suono sospettoso e la luce lunare era acuta come la lama di un pugnale d’acciaio. La principessa aveva paura di tutto nel mondo, ma aveva paura soprattutto di diventare una regina cattiva e indegna. Tutti i giorni lei stava nel suo castello guardando la città da dietro un muro alto, irto di merli. Erano passati gli anni e il popolo stanco elesse un’altra regina. Quella non era una principessa di sangue, non credeva nelle profezie e non leggeva neanche gli oroscopi.
Quest’invenzione pedagogica è stata battezzata “una favola triste” dalla nostra famiglia. Gli adulti sinceramente speravano che questo destino mi oltrepassasse. Ed ecco, sono cresciuta e ho imparato a credere in me stessa. Ma uno di quei giorni, per me stessa inaspettatamente, ho notato che qualcosa dentro di me era cambiato. Avevo paura che il mio castello costruito dai sogni e desideri del passato si sciogliesse un giorno senza una traccia. Perché è difficile sognare quando non sai chi sei.
Ho una bella collana di perle, uno dei regali di mio marito. Il filo d’oro su cui sono infilate è fine, ma rigido. Le restringe e le blocca da entrambi i lati, così che esse non possano muoversi. A volte mi sembrava di essere una delle perline, ma il tempo nel mio mondo si è fermato ed è tornato sui propri passi lentamente, ritrasformandomi in sabbia. Non quella sabbia di cui i bambini costruiscono i castelli sulla riva del mare e quando arrivano le onde le loro torri ancora guardano il cielo orgogliosamente, con la schiuma a coronarli come una torta da festa; ma la sabbia che nei paesi caldi è rotolata dal vento sulla terra assetata senza arrivare mai alla casa o a un rifugio. Mio marito mi affiancava sempre nei miei sforzi, ma questo ballo era per me sola e io imparavo passo per passo.

Un giorno grigio, piovoso, quando la paura dell’ignoto raggomitolata come un cagnolino domestico dormiva di fronte al cancello del castello, sono salita sulla sua torre più alta e ho messo fuori la bandiera bianca. Ero pronta per fuggire. Era così ovvio che mio marito l’ha notato appena attraversata la porta di casa. Mi ha preso in grembo e ha cominciato a tranquillizzarmi come una bambina. Parlava. Stavo guardando come si muovevano le sue labbra. I suoni avvolgevano la fragile, tremolante carne del senso mentre generavano le parole. Davvero ci servono sempre le parole? Abbiamo disimparato a guardare negli occhi, leggere i sorrisi?
I miei, o meglio dire i nostri problemi non erano irrisolubili. Avevo permesso loro di diventare così. O era un altro sbaglio? La vita ha le sue leggi, cui dobbiamo obbedire e siamo ingenui se non lo comprendiamo? È difficile dire dove ho fatto il passo falso. Importa solo quello che ho permesso che succedesse. Quella sera fare le valigie ci ha liberato dalle spiegazioni inutili.
Andavamo in Sardegna varie volte l’anno. Ogni volta questo posto era diverso, anche se il mare era altrettanto infinito e passeri spudorati raccoglievano le briciole dei biscotti sotto i nostri piedi. Qualcosa cambiava in noi stessi. Venivamo qui per capire questo, per scrollarci dal superfluo e vedere il vero. Nel mio primo soggiorno al Mare Nostrum ho comprato un telo. Era grande, blu con vive vene geometriche di verde. Non lo lasciavo mai. Adesso, come un ricordo d’estate, era appeso di fronte a me sotto il basso cielo d’autunno. Il telo era scolorito dal sole e il sale usciva dalla spugna. Il vento lo agitava e poco a poco spazzava il sale, ma il colore non tornava più, come brizzolato dalle preoccupazioni. Mi sembrava che insieme a questi grani di sale ci lasciasse qualcosa di caro e importante.
Sedevo sulla riva, lasciando passare la sabbia fra le dita. Le onde leccavano la ghiaia, smussando gli angoli affilati e solo la superficie delle conchiglie rimaneva deliziosamente intatte. Nell’infanzia, quando il mondo mi appariva ostile, mi immaginavo come una di queste conchiglie. Mettevo avanti una corazza ferma e solida, che rompeva tutto il vano, e aspettavo la bonaccia.
Le tempeste – come tutto il resto, nel mondo – non durano per sempre. Il prezzo della pace è la pazienza. Il mare emaciato non si arrendeva subito, ma già nel frangersi delle ultime onde stanche si sentiva il respiro dei cambiamenti. Per molte cose nella vita noi paghiamo con il tempo. E quest’autunno mi ha ricordato di nuovo che anche per me l’opportunità stessa della mia nascita è stata sulla bilancia ed è stata pagata con sette anni lunghi di attesa. Poi finalmente il piatto della bilancia si è chinata dal lato della vita. Sono comparsa nel mondo in gennaio e nata in settembre. E dovevo nascere in ottobre, quando l’autunno anche russo è ancora tenero e dorato. Ma qualche molla nel meccanismo fragile della vita ha vibrato e l’orologio si è affrettato un po’. La mia vita è cominciata sotto il segno della Bilancia. Così, forse per aver sfuggito l’influsso dello Scorpione, sono diventata meno velenosa.
Fin dalla mia nascita, il mio segno mi ha insegnato rigorosamente che tutto nella vita ha il suo peso e il proprio prezzo. Esso richiedeva ossessivamente che i piatti della bilancia non fossero mai vuoti. Dalla prima infanzia ci mettevo tutto che avevo: sogni, aspirazioni, interessi. Fortunatamente, nella maggioranza dei casi ero sempre riuscita a raggiungere l’equilibrio. Ma che cosa ha un peso, in una vita nuova? Di nuovo devo cambiare il punto di riferimento? Alla ricerca di una costante mi sono rivolta a me stessa. Mi servivano le parole. Appoggiandomi su di loro io, come un navigatore, potevo determinare il mio posto nel mondo. Loro attribuivano il colore, l’odore e il gusto alle cose. Le parole, come le persone, erano diverse: allegre e tristi, snelle e grasse. Alcune sparavano dalla lingua con la velocità delle comete che esplodono nello spazio, altre si trascinavano lentamente senza voler prendere forma. Le mie parole affrontavano un viaggio che le strapazzava. Come il popolo di Mosè, sceso in Egitto, migravano da una lingua all’altra.
La mia passione per le traduzioni è cominciata a scuola. Non essendo chiacchierona di natura, credevo che il silenzio fosse d’oro e adoravo il “Silentium” di Tiutshev. Ma le traduzioni erano un’altra cosa: il senso già proferito si nascondeva timidamente sotto il velo della lingua; con cura e precisione dovevi togliere quel velo senza danneggiare il tesoro e subito, con un movimento netto, ricoprirlo con il velo di un’altra lingua così che il diamante del senso brillasse lo stesso, da dentro. Ecco cosa mi sembrava la vera arte. Tradurre… Ma tradurre te stessa, pensare in un’altra lingua, è conoscere se stesso di nuovo. Riscoprire una persona che è sempre stata dentro, ma di cui non ti sei mai accorta. Levare i veli dalla propria anima, come una donna indiana si toglie i molti strati del suo sari, rimanendo sempre la stessa donna.
Nella carta che toccava la penna c’era qualcosa di strano, quasi magico. Sul foglio bianco io vedevo qualcosa che non riuscivo a spiegare. Qualcosa cui non attribuivo importanza, ma che non spariva con il tempo. Anzi, cresceva e riempiva la coscienza. Solo dopo mi sono accorta che niente avveniva senza scopo. Semplicemente, a volte occupiamo troppo della routine per vedere i segni. Ma non è che forse tutto questo non esiste, e aveva ragione Kafka, vivendo nella sua follia, unico tra noi con il coraggio di affrontarla? Ma non è che i segni sono creati da noi stessi, quando in essi indoviniamo i contorni mossi del futuro e, grazie alla nostra fantasia, prendono la forma dei nostri desideri? Come distinguere il vero in tutto questo? La vita è troppo breve per non essere sè stessi.
Lo sviluppo è nel movimento continuo. Ma non è solo il discorso a scegliere un percorso e seguirlo rigorosamente. A volte è difficile accettare che la traiettoria cambi continuamente, come cambiamo noi e il mondo intorno a noi. Dove e perchè girare per evitare domani la delusione inutile dell’aver quasi raggiunto gli obiettivi di ieri?
Allora non sapevo rispondere a me stessa. Semplicemente camminavo tastoni e al tempo dei miei passi i minuti schioccavano sul pavè romano.
Le leggi del tempo sono uguali per tutte le sue misure – un giorno, un mese, un anno. Come all’inizio dell’ora, quando i minuti si trascinano con lentezza irritante, sembra che i primi mesi dell’anno dureranno per sempre. E il mattino di lunedì non vuole diventare ora di pranzo. Ma da qualche parte c’è un punto, superato il quale il gomitolo del tempo comincia a disfarsi sempre più in fretta. Non è possibile fermarlo: subito dopo la Pasqua vengono l’estate e l’autunno e il tempo per decorare un albero di Natale. Non c’è la nascita senza la morte.
L’anno nuovo è cominciato di colpo, come è finito l’anno precedente, senza lasciare l’opportunità di notarne i confini. Ma il confine esiste davvero? Il foglio di un calendario strappato è una della cicatrici artificiali sul corpo del tempo, che la gente crea per semplificarsi la vita, accorciando i concetti che non entrano nella cornice della propria semplice comprensione umana. I secondi gocciolano intorno valicando questo confine e si riuniscono con l’infinito.
Ai turisti che guardano la città dalle finestre dei pullman bilivelli, sembrava probabilmente che le vacanze romane durassero per sempre. Come su una giostra infinita, invece dei cavallini grigi le strade giravano sempre: palazzi innumerevoli, fontane, monumenti... Ma per quelli che venivano inghiottiti di mattina dalla metro, i giorni feriali romani non erano diversi dagli altri. Per me, indifferente al gusto del caffé, il suo profumo che usciva dai piccoli bar significava l’inizio di una settimana nuova.

C’erano giorni in cui la nebbia fuori delle finestre faceva la schiuma come nella tazza di cappuccino, riassorbendosi solo un paio di ore prima del pranzo. Mi mancava l’inverno russo. Il suo omonimo italiano era incommensurabilmente più perfido. “Ma in Italia non c’è inverno?” ha chiesto una volta una mia conoscente in un modo quasi confermativo. C’è inverno in Italia. Non quello a cui noi russi siamo abituati, ma comunque c’è. A parte giorni di sole, quando guardando fuori dalla finestra uno poteva pensare di essere a fine aprile, per le nostre misure nordiche, c’erano giorni in cui il cielo si chinava giù quasi a toccare le cupole delle chiese e si copriva di foschia. Pioveva a catinelle per ore e i panorami di cui di solito godono i turisti si dissolvevano nella nebbia fitta. Nei giorni così, quando neanche a casa era possibile nascondersi dall’umidità, con tristezza ricordavo i tonici meno 15 e la neve pulita e brillante. Mi chiudevo nella stanza e con la tenacia di un pazzo e l’ingordigia di un collezionista raccoglievo le parole. Segnavo tutto, impregnavo ogni parola come il deserto coglie le rare gocce di pioggia. Non ci sono parole inutili. La lingua è fatta di tutte, come il deserto di granelli di sabbia. Togliete miliardi di granelli e questo miracolo sparirà dal volto della terra. Le raccoglievo come le stelle in costellazioni dove ognuna ha il suo posto in un girotondo, e senza di loro è pallida anche la luce più chiara di luna. E il seminato ha cominciato a generare. Ho capito che stavo guarendo molto prima di primavera. I sogni hanno ritrovato il colore. Le tonalità hanno smesso di confluire in un unico nero e i contorni sorgevano facilmente. Erano i colori della vita. Allora la luce si è accesa dentro la conchiglia. Per la prima volta in molti giorni, mi è venuta la voglia di vedere il mondo, di dipingerlo da sola.
Il febbraio arrivato con pigrizia ancora minacciava notti fredde, ma c’erano sere in cui l’inverno si ammorbidiva e il suo sorriso raggelante cominciava a squagliarsi...
Le gocce lentamente trascinavano giù la faccia. La pioggia era tenera, quasi calda. Ho smesso di ingiuriare me stessa per aver dimenticato l’ombrello al mattino e ho fatto un passo avanti incontro alla primavera. Era sera tardi, e la favola della notte stava appena sbocciando in grandi fiori. Tutto era come sempre. Stavo tornando a casa dal corso di fotografia. I corsi formativi serali per adulti non sono un’impresa per i deboli. Dodici limoni spremuti durante il giorno lavorativo cercano di usare il cervello. La maggioranza riesce a farlo anche bene. Ognuno ha una sua ragione. Alcuni vogliono conoscere l’armonia dell’aver domato il tripudio di colori, altri sognano i loro nomi sulle copertine glamour delle riviste, o sfuggono dalla solitudine delle loro sere. E risulta che il docente non è un osservatore estraneo. Partecipa in pieno al loro destino e la sua parte deve essere perfetta. Luisa non insegnava, semplicemente ci aiutava a camminare. Voleva che noi come lei diventassimo liberi. Mi piacevano questi incontri, ma sere come questa mi facevano tornare all’essenza. C’era solo la pioggia che lavava il mondo. En passant, liberandomi dal trucco mi deludevo nella freschezza. Tutto diventava un’unica foto in bianco e nero. Camera oscura. Ho pensato: “Ogni cosa nel mondo, specialmente quella che noi scegliamo di fotografare, ha il suo senso, lo scopo per cui esiste. Il colore, pur essendo festa per gli occhi, spesso ci distrae da questo senso. Togliendo il colore, lasciando solo la luce e l’ombra, estorciamo al senso il primo piano. Niente di extra, solo l’essenziale come all’inizio della creazione del mondo. E l’argilla è ancora fresca nelle mani di Dio”.
Il mondo restava immobile all’arrivo della notte. Un altro giorno è passato. Un altro libro non è stato scritto e questo mi dispiaceva. Mi ha coperto l’onda del passato e ha portato sulla riva tutto ciò che mi sembrava affogato da lungo tempo. Ho cominciato a scrivere a dieci anni. Erano piccoli schizzi senza grandi pretese. Poi è cominciata l’infatuazione seria per il genere epistolare. Le amiche dicevano di leggere le mie lettere come libri. E le mettevano nei cassetti. Nei cassetti finivano i miei saggi casuali, riga per riga si nascondevano i pensieri dalla paura di essere visti. Dalla paura di sembrare ridicoli, di essere intempestivi. Le ginocchia si indebolivano per la paura e le ali erano piegate dietro la schiena. Se c’erano ali, allora.
Può darsi che alcuni dei libri non scritti siano già morti. So che i manoscritti non bruciano, ma troppi di loro sono predestinati a non diventare libri; come i bruchi, che per ironia del destino non voleranno mai. Mi serviva di far crescere le ali. A ogni costo. Mi sembrava che, rianimandosi la primavera, tutto intorno sarebbero usciti anche loro. Come le gemme turgide sugli alberi gettano via le foglie, le ali si spiegheranno un giorno, lasciando fini rivoletti di sangue sulla schiena. Ma quello non sarà più importante. Affrettavo i miei passi verso la primavera dimenticandomi che non avrei potuto accostare le labbra alla corteccia per il dolce succo di betulla. Mi mancava la primavera russa. La primavera del sud era eccentrica. Arrivava quasi all’improvviso cambiando tutto nel giro di una notte. La nostra primavera era diversa. Ancora a fine febbraio tirava da qualche parte, da lontano. Il suo odore delicato e quasi impercettibile dava una stretta al cuore e tutti sapevano che avrebbe nevicato ancora in marzo e può darsi in aprile. Ma la primavera stava arrivando, conquistando la sua strada passo dopo passo, avvicinandosi a noi con ogni crepa di ghiaccio, ogni gemma di salice. La primavera del sud non rallegrava così, almeno non me. Era troppo facile, quasi regalata, non era “sofferta”. Ma per amore di giustizia ammettiamo anche che era bella. Il cielo alto sopra il mondo dava al sole la chance di illuminarlo bene. La mia prima primavera romana aveva l’odore del verde e un po’ di benzina. Già da marzo, quella mattina dell’anno stava sbocciando la vita nuova. E gli aranci sulle strade sembravano un po’ fuori luogo a fianco alle acacie in fiore. I loro frutti impolverati erano come le vecchie decorazioni sugli alberi di Natale, tenute fino a Pasqua per sbaglio. Quello faceva un po’ tristezza, ma i colori del giorno nuovo cancellavano i dispiaceri di ieri. Luccicanti parole in italiano già acquisivano un senso nella mia mente e le arie delle opere italiane mi riempivano di gioia di esistere. I torbidi passavano. I giorni nascevano dal sole e dalla pioggia. La vita non si fermava per un minuto. Un giorno ho capito tutto questo e sono salita sul predellino del tram numero 8 e mi sono messa a rincorrerla. Le strade e le piazze scorrevano fuori. La mia storia è sfarfallata dalla finestra. Si è diluita nell’aria romana, per mischiarsi con milioni di altre. Roma stava germinando dentro di me.
Il vento spingeva alla schiena, ma per decollare dovevo di nuovo imbarcarmi sull’aereo. Il mare giù si stava calmando, ancora incredulo nella lunga attesa e nell’accaduta beatitudine solare. Le spiagge di Cagliari si preparavano alla festa, ma in montagna, dove vivono i parenti di mio marito, era ancora molto diverso.
I suoi compaesani mi hanno sorpreso con i loro comportamenti. Tra chiacchiere lente attorno ad un bicchiere di birra parlavano della vita con la sicurezza di esperti che hanno girato il mondo. E questo a dispetto del fatto che molti di loro, specialmente della generazione più anziana, non sono stati “in Italia” e mai all’estero. Dove si nascondeva il segreto del loro approccio? Solo dopo aver parlato con loro ho scoperto che per essi il mondo era la Sardegna, che conoscevano e capivano alla perfezione. Sapevano accogliere i doni della loro madre terra e di questo mi sono assicurata molto presto.
La primavera del continente era in ritardo. Il suono delle campane di Pasqua di una piccola chiesa del paese si diffondeva nell’aria non scaldata ancora, rompendola come ghiaccio fragile. I frantumi del ghiaccio non riuscivano a cadere sulla terra schiacciandosi sotto le luci brillanti del sole e riempivano tutto intorno dalla freschezza della giovane primavera. Le nuvole, ricce come pecore, si aggrappavano sulle montagne con la lana spettinata e i pensieri erano confusi nella mia testa. Il vento disperdeva i branchi nel cielo rivelando al posto loro l’azzurro sfolgorante spalancato, così consono al mio stato presente. Anche per me, abituata alla slava acqua di fuoco, il succo della vigna sarda è stato troppo forte. Il vino e i libri sono due dei molti piaceri della vita. L’incarnazione di un inizio, carnale e spirituale. Come una vite, maturando sotto il sole caldo, le idee e le parole maturano lentamente e senza fretta. L’inizio del loro percorso è lontano dal buio, sia esso delle cantine del vino e dei mobili chiusi dalle biblioteche. Entrambi custodiscono tesori. Sono il concentrato del tempo. Viviamo in una società in cui la gente, a caccia della gioventù, perde entrambi molto di vista; una società dove il liscio delle riviste patinate a volte è preferito alla saggezza dei secoli dei manoscritti impolverati. E la verità si rivela solo ai pochi prescelti. Dal legno, con le insite memorie, d'estate sono nati gli scaffali e i barili. Scricchiolano orgogliosamente sotto il peso del fardello e portano il carico con dignità.
Più il vino è vecchio, più è prezioso. Non so se è sempre vero per i libri. Ma i libri che hanno sopravvissuto ai secoli sono capaci di raccontare molto. Apprezzare e capire il vino come i libri si impara col tempo. Ma una bottiglia vecchia non sarà mai riempita dallo stesso vino. Ahimè! tutto è perituro, tutto passa. Tornare allo stesso libro si può, innumerevole volte. È uno specchio dove vediamo noi stessi, i nostri sogni, desideri e speranze, forse anche quelli che sono già sfioriti. In un modo o nell’altro il vino torna nella terra da cui è nata la vite. I libri un giorno diventeranno polvere come i loro creatori. Ma non siamo nati per morire, siamo nati per vivere e la nostra vita non sarebbe piena senza questi due compagni.
Il giorno successivo i pensieri si mettevano sulla carta sia in russo che in italiano. Le idee finalmente cristallizzate e pulite come mai prima fiorivano nella mia coscienza. Le ali dell’aereo brillavano come l’ultima neve sulle montagne. Già dopo l’atterraggio ho messo il punto nell’ultima frase e ho dato uno sguardo interrogativo a mio marito. “E se succederà come nella favole triste?” gli ho chiesto, e lui con un sorriso furbo, dopo uno sguardo veloce al cirillico illeggibile, ha risposto: ”Non avere paura. La riscriveremo insieme in italiano”.

La chiave è girata nella serratura e siamo entrati nel salone ancora poco ammobiliato. Il sole aveva già cominciato a tramontare dietro le colline e le lingue del fuoco arrossavano tutta la casa. Anche il camino, non acceso neanche una volta d’inverno, sembrava essere fonte di calore. Sui suoi lati di mattone il sole ha lavorato con fatica particolare. Sono nata e cresciuta in pianura. Il sole piatto come una crèpe lentamente rotolava sopra la terra ugualmente piatta, per nascondersi prudenzialmente sotto il suo angolo di sera. I giorni estivi non passavano mai e il sole faceva lo straordinario, d’inverno invece andava in letargo. Il cielo italiano è stato una scoperta per me. Il suo azzurro tenero era ancora lucido anche se il sole era già completamente sceso dietro le montagne. Poi veniva l’ora in cui la seta azzurra diventava velluto blu. Per la prima volta durante tutto il periodo ho avuto l’impressione di tornare a casa. In questa casa il nostro bambino farà i suoi primi passi. Per un attimo ho visto con chiarezza come sul terrazzo affogato di rose scoprirà il pianeta della gente. All’inizio le rose e le pecore del vicino, che pascolano sulle colline, poi- aprirà anche quel libro. Almeno mi piacerebbe crederci. No man is an island... che sanno capire che noi definiamo non solo il nostro destino, ma anche il destino dei nostri discendenti. Solo adesso mi rendo conto che la perseveranza della mia mamma, che ha lasciato un piccolo paese siberiano per poter frequentare l’università, ha aperto a me il mondo. Che il suo percorso cominciato molti anni fa mi ha portato a Roma. In che cosa crederanno i miei figli? Saranno le loro ricerche di sè meno dolorose solo perchè non sono immigrati?
Il nono giorno dopo Pasqua i russi ortodossi ricordano i loro morti. I parenti e i vicini che non vedranno mai più, ma che rimarranno sempre al loro fianco. Quest’anno alle mie candele se ne è aggiunta una nuova. Recentemente ho scoperto che mio padre è morto. Questa notizia è venuta all’improvviso e da lontano. Anzi, è stata una notizia solo per me. Non so esattamente dove e quando sia successo. Non l’ho mai conosciuto. I miei genitori avevano divorziato prima della mia nascita. Ho cercato mio padre per tutta la vita e il suo posto nel mio cuore è stato vacante. Ma può darsi che lui in vita non fosse la persona che stavo cercando. Questo per qualche ragione non mi alleggeriva il cuore, adesso che il filo era rotto per sempre. La coscienza che non ci non ci saremmo mai conosciuti tagliava acutamente. Allora in Russia faceva ancora freddo. Mi sembrava di vedere come la neve stava coprendo il suo nome. La neve bianca ci purificava dalle parole mai dette. Adesso siamo condivisi da altre frontiere. E per qualche ragione strana perdonare i morti ci sembra sempre più facile che perdonare i vivi. Il giorno pulito primaverile si rifletteva nelle gocce trasparenti della cera...

Poi è venuta l’estate. La colonnina di mercurio raggiungeva limiti quasi osceni. Cercavo di nascondermi all’ombra dei parchi con la speranza di leggere. Ma anche i libri si ribellavano. Le lettere si univano plasmate dal caldo e scivolavano giù sulla pagina, come volessero diventare piombo di nuovo.
Mi sembrava che un gelato appena mangiato fosse una pallina di neve lanciata nell’inferno di un vulcano. Gli uomini credevano sinceramente che i vulcani avessero paura della birra fredda. In agosto, quando la tribolazione del caldo era diventata insopportabile anche di notte, siamo sfuggiti al buio anche se le coste azzurre della Sardegna ci sembravano ancora un miraggio irraggiungibile.
Lì, sulla riva del mare, senza fretta si poteva succhiare goccia a goccia con una cannuccia sottilissima la fragranza dell’estate e il sole del sud e l’azzurro infinito dell’acqua e la durezza della terra. E quando il cocktail sarebbe finito, bastava semplicemente chiudere gli occhi per far straripare nelle vene l’azzurro, raggiungere il cuore. Per farlo fermare per un momento e coprirsi di onde per battere con forza nuova al tempo del mare.
Agosto si spegneva nei tramonti scarlatti e i giorni felici, come tutte le famiglie felici secondo Tolstoy, assomigliavano l’un l’altro come due gocce d’acqua.
Dopo l’estate è venuto l’autunno e il 10 settembre è tornato. È passato un anno e il tempo ha chiuso il cerchio. Il cerchio è una figura autosufficiente. Mi teneva a galla fermamente e ho ritrovato l’armonia.

C’e un tempo per accettare i doni e un tempo per restituirli. Entrambi i percorsi sono difficili. Non tutti sanno accettare i doni con dignità, ma è ancora più complicato capire che cosa puoi regalare tu e chi ha bisogno del tuo dono. Non va bene sprecare il talento, ma ne ho? Non sono io a giudicare. L’unica cosa che so è che sulla carta vivo un’altra vita. Che sulla carta posso regalare vita agli altri.

Quel giorno stava finendo. Si accendevano le luci dentro le case. Ognuna di esse aveva una storia che forse aspettava la sua ora per essere raccontata. Dopotutto, è così importante in quale lingua la si racconta?

C’è un tempo per accettare i doni e un tempo per restituirli. Questo tempo è venuto. Il racconto è cresciuto con me. Nascendo da pensieri slegati su brani di carta la mia storia ha finalmente ottenuto anima e corpo. Da oggi in poi ognuno di noi percorrerà la propria strada. Io la mia, e lui? Vediamo che strada farà.

La mela è stata mangiata completamente. Non è rimasto neanche il torsolo e solo i semi germoglieranno un giorno come le memorie. Ma allora non ci stavo pensando. Io vedevo i sogni. Stavo sognando di essere scivolata giù dal filo d’oro e, lentamente, frusciando sulla sabbia, stavo tornando a casa. Nel mare.

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Anno 4, Numero 19
March 2008

 

 

 

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