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somalia : passato, presente e futuro. intervista con la scrittrice shirin ramzanali fazel

rebecca hopkins

Tredici anni dopo l’uscita del suo romanzo Lontano da Mogadiscio (Roma: Datanews, 1994), uno tra i primi libri scritti direttamente in italiano da uno scrittore migrante in Italia, la scrittrice Shirin Ramzanali Fazel, nata in Somalia ed immigrata in Italia nel 1971, ci racconta la sua Somalia, un paese tragicamente di nuovo al centro delle notizie internazionali in questi mesi con gli scontri sempre più ostili fra le Corti islamiche e le offensive degli etiopici, dei somali ribelli e degli americani. Shirin Ramzanali Fazel ci racconta una Somalia coloniale italiana, una Somalia della prima repubblica, della diaspora e della guerra civile, ma anche una Somalia che non è solo guerra e morte, ma culla di una grande civiltà, paese di una cultura nomade complessa ed una tradizione orale molto ricca. Inoltre, nei suoi racconti, siamo testimoni della vita di una donna migrante in Italia, una nuova specie di “nomade” trasportata questa volta in un paese europeo. Le sue parole sagge e sobrie, ma anche piene di passione, esprimono la maniera difficile in cui tale vita si plasma attraverso un difficile negoziato fra culture e storie multiple, e, in parte, condivise con l’Italia. Malgrado questo difficile percorso, lei offre la sua visione ottimista per il futuro di ambedue i paesi, sia una Somalia di pace che un’Italia aperta al dialogo interculturale .
Al momento, Shirin Ramzanali Fazel sta scrivendo un nuovo romanzo che parlerà fra le altre cose del meticcio, una figura centrale nel contesto storico coloniale dell’Africa Orientale, ma anche in quello contemporaneo della nostra Italia interculturale di immigrazione. Dunque parliamo con Shirin (la quale subito mi ha chiesto di darle del “tu”).

Nel tuo libro Lontano da Mogadiscio parli della tua partenza da Mogadiscio nel ’71, due anni dopo il colpo di stato del ’69, e durante il regime militare di Siad Barre. Descrivi il tuo arrivo in Italia come un “sogno”, ma non un sogno di una persona che parte per un “Eldorado”, piuttosto di una persona che soffre lasciando il proprio paese per trovarsi in un paese occidentale con il quale il primo impatto è un “disastro”. Un quadro abbastanza ironico dato che avevi appena lasciato alle tue spalle un paese in una situazione politica molto difficile negli anni della dittatura. Il libro descrive l’ironia triste e anche scioccante di una persona che credeva di “conoscere” l’Italia, essendo cresciuta in una delle sue ex-colonie (Somalia), avendo frequentato le scuole italiane, avendo guardato tutti i film italiani, ma che invece appena mette piede in Italia si sente comunque estranea. Potresti raccontarci quel periodo?

Quando ho lasciato la Somalia le cose non andavano bene: c’era il regime, il nazionalismo, la città stessa era proprio cambiata, vedevi cartelloni, altoparlanti dappertutto, la città non era quella che era, non era un bel clima. La città non ti offriva più un futuro. Poi essendo italiano, anche se nato in Somalia, mio marito doveva obbligatoriamente avere un permesso di soggiorno, e dunque abbiamo deciso nel ‘71 di lasciare la Somalia e da allora non sono più tornata.

In Somalia hai frequentato le scuole pubbliche fino alle superiori. Dunque l’istruzione era impartita in italiano, giusto? Il programma includeva tutte materie italiane: la letteratura e la storia italiana? Il curriculum prevedeva anche la cultura e la storia somala, o nulla sui temi locali?

Ho iniziato le scuole elementari quasi contemporaneamente alla fine del periodo dell’Amministrazione Fiduciaria Italiana in Somalia (AFIS) [le scuole in Somalia hanno cambiato il curriculum italiano solo nel 1976]. Era una scuola elementare privata gestita da religiose cattoliche (Scuola Regina Elena). Poi sono passata alle scuole medie e al liceo (sempre private) che erano però gestite direttamente da Roma dal Ministero della Pubblica Istruzione, con professori e programmi ministeriali ufficiali, al pari di una qualsiasi scuola pubblica operante in territorio italiano. Quindi Dante, Manzoni, Pascoli e Carducci hanno accompagnato la mia adolescenza. Della cultura e dei temi locali purtroppo non se ne parlava, anzi sembrava quasi non esistessero, ed anche in geografia sapevo tutto sulle regioni italiane e nulla del paese in cui ero nata e nel quale vivevo! Era come vivere sotto la classica “campana di vetro”.

Quando vivevi in Somalia, ancor prima di venire in Italia, ti identificavi con la cultura italiana (oltre ovviamente alla cultura somala)? Data la forte influenza della cultura italiana (il cinema, i libri, la lingua, le scuole), ti sentivi in parte anche “italiana”? Oppure le divisioni culturali e razziali erano troppo forti per potersi sentire “italiana”?

Io sono nata durante l’Amministrazione Fiduciaria Italiana quindi non ho vissuto il colonialismo e quando ho iniziato ad andare a scuola la Somalia era ormai ad un passo dall’indipendenza. Un’epoca storica molto particolare, si respirava aria di libertà; la gente aveva un sacco di speranze per il futuro. Si può dire che ero una privilegiata nata in una famiglia benestante, da padre pakistano. Figlia unica, mio padre era un uomo colto che mi ha dato un’educazione europea, ma entrambi i miei genitori mi hanno cresciuto e mantenuto nei valori morali spirituali e del vivere quotidiano dell’Islam. Sapevo di non essere italiana e portavo la mia identità con orgoglio. Non era una questione di divisione culturale e razziale ma una questione di stare bene con la propria famiglia di origine. Più che sentirmi italiana ... io pensavo di conoscere l’Italia e che l’Italia conoscesse me. Quando dico “me” pensavo che in Italia la gente sapesse di noi somali. Gli italiani per me erano compagni di scuola, professori, amici di famiglia, negozianti, ristoratori, gente che ho sempre visto nel corso della mia vita. Come teenager mi piacevano le canzoni italiane, i film, la pizza, insomma l’Italia era come una mamma adottiva per me. I romanzi americani, i film di Hollywood, il Rhythm & Blues, mi piacevano tantissimo ma in realtà l’America non la sentivo mia ... invece l’Italia sì. Tanto per capirci l’America era estranea, mentre l’Italia era più familiare (anche se non ci ero mai stata).

Hai detto durante un’intervista risalente a 12 anni fa che non hai modelli letterari.1 Ancora lo sostieni? Ma comunque immagino che allora leggevi opere somale ed italiane, e di altri paesi.. Credi che ti abbiano influenzato, anche in parte? Leggi libri scritti da altre donne migranti, donne che vivono fra diversi paesi, psicologicamente o geograficamente come te?

Dopo tanti anni ribadisco ancora che non ho nessun modello letterario, sono una che quando scrive, scrive di getto. Seguo i miei pensieri e i miei sentimenti con spontaneità. Di opere somale non ne ho mai lette, anche perchè quando ho lasciato la Somalia non c’era ancora la scrittura somala, che è nata nel 1972. Ho letto alcuni libri di Nuruddin Farah, uno scrittore che mi coinvolge molto. Mi piace leggere libri di donne; le scelgo sul momento in libreria, dipende dalla trama. Non amo nessuna in particolare. Ultimamente ho letto Matrimonio combinato di Chitra Banerjee Divakaruni e mi è piaciuto molto.

Trovo molto interessante quest’idea di un’autrice che vuole ricrearsi la voce artistica quasi da zero. È davvero possibile secondo te per una persona ricrearsi da zero, “rinascere” completamente, inventando se stessa fuori dalle definizioni culturali e nazionali? O è piuttosto un sogno utopico? Altre scrittrici immigrate in Italia, ad esempio Ribka Sibhatu e Rosana Crispim da Costa, accennano ad un’idea simile.

Io penso proprio di sì.

Diresti che le tue opere sono influenzate dalla tradizione orale somala?

Molto probabilmente sì. A noi somali piace raccontarci e sappiamo anche ascoltare .... si può dire che sia qualcosa insito nel nostro DNA. Purtroppo ho notato che in Italia la gente non sa ascoltare, anche nei mass media e talk show nessuno ascolta. TUTTI parlano ... il più delle volte urlano ... è terribile!

Cosa significa per te questa ricca tradizione orale Somala? In Lontano da Mogadiscio associ la tradizione orale somala sia alla figura femminile che alla tradizione del nomade. È una tradizione fortemente femminile o è una tua trasformazione della tradizione? In che modo si incontra in te la tradizione orale somala con una voce letteraria occidentale, se si incontrano ?

Non è una tradizione esclusivamente femminile, ma io la associo alla figura femminile in quanto mia madre e la mia tata che per me è stata una nonna, e varie zie sono quelle che mi hanno sempre raccontato, ed educato con la “voce”. Per me è difficile che si incontrino, la tradizione orale somala usa un ritmo e una dialettica e la mimica del viso che non si possono tradurre senza perderne il valore. Però è indubbio che convivono in me elementi derivanti dalla cultura orale somala e che io usi la lingua italiana (ma potrebbe essere qualsiasi altra lingua) soltanto come strumento di comunicazione con il mondo che mi circonda.
La figura del nomade è il volto dei miei nonni materni. L’ho vissuta attraverso i racconti di mia madre quando mi parlava della sua infanzia. E poi dai brevi soggiorni di questa mia zia che veniva a trovarci in città. Mi faceva ridere quando inorridiva alla visione del pesce fresco, che non ha mai voluto assaggiare. I nomadi si cibano di latte, carne, polenta, burro e yogurt. I nomadi cammellieri facevano parte integrante del paesaggio somalo durante le nostre gite fuori da Mogadiscio. C’è una netta divisione fra la vita dell’uomo di città ... e l’uomo della “baadiyo” (savana/boscaglia). In Europa non esistono quasi più queste divisioni tra la vita contadina e quella delle metropoli. In Africa queste sproporzionate divisioni sono ancora una realtà. Il bello però è che il nomade conosce la città, ci fa visita per vendere le sue mercanzie, per rifornirsi delle cose necessarie, ma non ne viene attirato... Sceglie consciamente di mantenere questa sua libertà.
Quasi ogni famiglia cittadina ha un parente nomade e i legami di parentela sono molto forti. Mia madre da piccola rimase orfana e venne portata in città presso una zia. Sua sorella che era molto più grande rimase alla vita nomade e si sposò. Io me la ricordo una donna felice.
Per me sono alla pari sia la donna nomade, con il suo ruolo ben preciso e importante, che l’uomo nomade. Sono complementari, insieme si fondono e creano i fondamenti per quel tipo di società. I nomadi sono i fieri popoli somali che non si sono mai fatti imbrigliare dalla vita facile di città e non hanno vissuto “la colonizzazione”.
I nomadi sono la nostra biblioteca storica, il nostro patrimonio artistico, giuridico, sociologico, genealogico e conservatori di quelle consuetudini e di quella cultura orale che va scomparendo, la vera forza dell’uomo che vive ogni giorno con la sua intelligenza un territorio vasto dove la natura molte volte è arida e non si lascia domare. Il nomade ha una grande integrità, sa adattarsi alla natura rispettandola e sa vivere con gli altri uomini collaborando con essi, per i suoi sani principi morali.
Il valore dell’ospitalità è sacro e la parola data va mantenuta. Anche nei momenti di guerre fra clan non si rifiuta al nemico di far abbeverare gli animali ai pozzi. Con i matrimoni si intrecciano alleanze, affinché si rafforzi la pace. Ai bambini viene dedicata grande cura nell’educazione e non sono solo responsabili i genitori ... ma intervengono i nonni, gli zii, il maestro della scuola Coranica. Imparano a memoria la ricostruzione genealogica della propria famiglia (“rer” in somalo) e le relazioni tra queste con le altre “rer” su scala nazionale e storico-temporale. Imparano a memorizzare e leggere il Corano ... vengono insegnate loro le regole e i divieti. Presto vengono responsabilizzati ad affrontare quel vasto “habitat” dove l’uomo e la natura diventano alleati se vogliono sopravvivere. La memoria per il nomade è lo strumento essenziale e vitale. Non si porta dietro calcolatori, “notebooks”, bussole, libri, carte, penne, cellulari e le altre diavolerie tecnologiche dell’era nella quale viviamo. Per me questo modo di vivere incute un rispetto e una riconoscenza che molte volte viene sottovalutata e minimizzata.
Per queste popolazioni nomadi non è facile ed automatico ottenere questa autonomia di vivere, ma richiede un lavoro straordinario di concentrazione di dati e di informazioni ricevute dai propri insegnanti. Un’osservazione continua del proprio ambiente, ed esami quotidiani sulle decisioni da prendere non solo per la propria sopravvivenza, ma per il proprio gregge, la propria famiglia e gli altri clan.

Dunque la tradizione orale somala è molto legata alla figura del nomade, una figura rilevante nel tuo libro?

Sono intimamente legati. La tradizione orale è “nata” con il nomade.

Nel tuo libro parli della poesia orale somala come strategia di resistenza durante gli anni del regime militare. L’oralità veniva anche usata come arma di resistenza durante il colonialismo italiano in Somalia?

Sì, anche.

Come sai benissimo, nonostante la brutale storia del regime coloniale in Africa, il ricordo del colonialismo italiano in Africa è per la maggior parte rimosso in Italia oggi, o non compreso accuratamente, o semplicemente non conosciuto pienamente dal pubblico italiano.2 Come ti fa sentire questa mancanza di riconoscimento? I tuoi genitori e i nonni ti hanno raccontato gli orrori di quei tempi? Potresti raccontarci qualcosa di quei ricordi, familiari o collettivi? Secondo te il ricordo dell’Italia coloniale è ancora un ricordo forte che pesa sulla generazione d’oggi in Somalia?

Mi sento profondamente tradita per la mancanza di questo riconoscimento, e mi sembra di averlo fatto capire nel mio libro Lontano da Mogadiscio. A parte una nicchia di persone come docenti universitari e storici che per motivi di studi sono al corrente dei fatti di quei tempi, l’uomo comune della strada non sa nulla. Quei pochi anziani che credono di sapere qualcosa vengono fuori con battute del tipo ... “vi abbiamo costruito strade ponti e scuole” ...Il ricordo dell’Italia coloniale in Somalia era forte quando ero bambina nei racconti di quei soldati somali che hanno combattuto la guerra per gli italiani... Dopo una lunga trattativa molti veterani mutilati di guerra percepivano una pensione da fame dal governo italiano ... nei loro racconti c’era una profonda delusione. Ma dall’altra parte, non si parlava troppo spesso del passato coloniale, anche se tutti sapevano di questo passato, forse a causa del bisogno di dimenticare..
Ora ti parlo dei ricordi collettivi dei primi anni delle colonie. Io ho la mamma somala e non ho conosciuto i miei nonni materni in quanto defunti. Ci veniva raccontato che le popolazioni che vivevano sulle sponde dei fiumi Giuba e Scebeli hanno subito le atrocità maggiori. Lavoravano come bestie e venivano frustati [vedi il sopracitato volume di Del Boca per questo tema degli “schiavi” dell’Uebi Scebeli]. Se un italiano voleva prendersi una giovane somala, lo faceva con la forza. Tutto apparteneva ai bianchi. Quando arrivava la nave con i passeggeri, le donne con i tacchi alti per non bagnarsi i piedi camminavano sulla schiena piegata degli autoctoni che fungeva da ponte umano...Le persone che hanno vissuto quei tempi ormai sono morti, ma sicuramente i loro racconti vivono nella memoria di qualche familiare. Non sono molto a contatto con la generazione che vive oggi in Somalia, ma penso che stanno vivendo drammi quotidiani tremendi e manca il tempo per raccontarsi il “passato”.

Parlando del colonialismo in Somalia, mi sembra che il tuo libro risponda, consciamente o no, ad un discorso utopico italiano coloniale sulla Somalia come un paradiso o “terra promessa,”il quale si crea attorno allo stereotipo di un’Africa da “rinnovare,” “civilizzare” e “riempire” data la cosiddetta “mancanza” di cultura locale? Mi sembra che suggerisci come questo mito d’Africa venga rovesciato nel mito d’Italia d’oggi come il “Bel Paese” o come un “Eldorado” per gli immigrati che arrivano in Italia adesso. Sei molto critica verso questo mito, giustamente. Invece il vero “paese dei balocchi” secondo te, non è l’Italia ma la Somalia; certamente una Somalia molto diversa dal mito italiano coloniale.

Quando dico “paese dei balocchi” prendo quest’idea dal discorso culturale comune. Se ho ben capito, alla prima parte della domanda mi sembra di aver dato risposta con il brano “Capo Guardafui” in Lontano da Mogadiscio. Per quanto riguarda la seconda parte della domanda e cioè se gli immigrati vedono l’Italia come un Eldorado, la mia risposta è certo che sì (almeno nella maggioranza dei casi di coloro che cercano lavoro). E mi spiego: non è nel mio caso; io ho lasciato la Somalia per motivi politici, e quando sono arrivata in Italia ero già cittadina italiana (ho acquisito la cittadinanza tramite mio marito). Per quanto riguarda l’immigrazione somala in Italia, i primi a venire sono stati studenti universitari della prima Repubblica; negli anni della dittatura di Siad Barre si è verificata l’ondata di lavoratrici somale presso famiglie italiane (come badanti e colf). Negli ultimi anni di guerra civile fino ai giorni nostri, purtroppo, l’Italia non è riuscita ad accogliere gli esuli somali attraverso una politica corretta. Altri paesi come gli USA, Canada, Germania, Olanda, Svizzera, Svezia, Norvegia, Regno Unito, Danimarca, e Australia sono riusciti ad ospitare decine di migliaia di famiglie, donne con bambini, creare dei ponti di ricongiunzioni familiari di straordinaria umanità. Poi ci sono i vari paesi africani stessi dove i somali si sono stabiliti creando delle comunità prospere e vitali (Kenya, Etiopia, Sudafrica, Zambia). I paesi arabi del Golfo dove i somali hanno prestato servizio e commerciato negli ultimi 30 anni, hanno capito la tragedia e si sono mossi. Purtroppo ci sono anche intere comunità che vivono in una specie di “campi di concentramento” in mezzo al deserto di vari paesi di frontiera e dello Yemen, in balia della fame, con mancanza di servizi sanitari, scuole e rispetto per i diritti basilari dell’essere umano. Altri muoiono in mare portati da contrabbandieri senza scrupoli dopo un lauto pagamento. Dal mare i loro corpi senza vita vengono consegnati alle spiagge dei paesi cosiddetti ricchi per dare una testimonianza silenziosa delle ingiustizie e del mondo ipocrita nel quale viviamo. Altri vengono abbandonati nei deserti del nord Africa, le loro ossa saranno coperte dalla sabbia ma non saranno dimenticati dai loro cari e dalle nostre coscienze. Piogge torrenziali, epidemie e disastri naturali mietono le loro vittime. In questo momento che sto scrivendo, 13 maggio 2007, Mogadiscio è ancora sotto ai bombardamenti, la gente fugge dalle città, le frontiere sono chiuse.. è difficile portare aiuto di ogni genere e ancora una VOLTA il mondo volge lo sguardo da un’altra parte.
È triste che dopo quasi 16 anni non si è riusciti a raggiungere la vera pace. Ma ci si contende il potere per interessi geo-politici. Il popolo somalo come tutti i popoli del mondo che soffrono, ha diritto ad avere una dignità, ha diritto alla speranza e al ritorno alla loro bella terra, ha dritto a ricostruire questa terra, ed a crescere i propri figli ed educarli qua ed essere di nuovo fieri di vedere sventolare nell’immenso cielo azzurro quella bandiera del colore del cielo con la stella bianca a 5 punte. Quando nel vari giochi olimpici vedo le varie nazioni partecipare, mi prende una tristezza, per me manca quella bandiera. Io sogno e ho speranza per il futuro della Somalia. In somalo per dire arrivederci si dice: “nabad ghelio” ... che la pace ti segua. Quindi la PACE è nei sentimenti, nei cuori e nell’educazione dei somali. È in quella terra che il mio senso di ospitalità e di rispetto per le persone e per le diversità si è formato, e me ne vanto.

Nella cultura somala, cioè nella letteratura scritta, nelle favole e nella poesia orale, esistono modi di parlare di paesi, mondi, o società ideali? Per esempio in altre culture ci sono miti come Eldorado, Eden, Il Paese della Cuccagna o Arcadia. Ti chiedo questo perchè vorrei sapere se in Lontano di Mogadiscio, oltre ai luoghi comuni italiani (del “paese dei balocchi”, per esempio, o dell’utopia coloniale italiano) stai anche pensando in particolare ad un luogo comune somalo? Usi anche una forma molto particolare per raccontare questo paese delle favole: “C’era...C’erano...” È una forma usata spesso nella tradizione orale somala?

Nella cultura orale somala delle favole non è che esistano società ideali, anche perchè si racconta molto del mondo della boscaglia, degli animali ... etc. Si fa ricorso alla furbizia tipo le favole di Esopo. In città i racconti iniziano con “C’era una volta un Sultano...”. Io quando uso “C’era” e “C’erano una volta” per poter parlare di mio paese, voglio enfatizzare che quel mondo idilliaco non c’è più. La guerra ha distrutto il sorriso dei bambini. È un grido di dolore, una perdita infinita di un mondo che si è lacerato. Le immagini di guerra vissute attraverso la televisione, mi hanno ricordato che io ho veramente vissuto nel mondo dei Balocchi ... ho usato questa parola per un discorso culturale comune. Vivendo in giro per il mondo mi rendo sempre più conto che i bambini oggigiorno non vivono una vita “da bambini”. La televisione la pubblicità, i telegiornali, i giornali, la moda, le grandi città, inquinano le loro menti. Questi bambini non vivono la natura, non hanno gli spazi, non sanno guardare il cielo, non sentono il profumo della natura.

In Lontano da Mogadiscio il tuo “paese dei balocchi” somalo dà molta importanza all’umanità, al dialogo interpersonale, alla comprensione, al calore umano, alla comunità, e soprattutto alla diversità culturale e razziale.

La diversità è un pregio per tutti noi. Proviamo a pensare ad un giardino dove i fiori sono TUTTI uguali. Che noia sarebbe! Purtroppo oggi generalmente si vuole portare tutti a poter pensare, parlare, mangiare, vestirsi, divertirsi allo stesso modo; ad ascoltare la stessa musica e ad assomigliarsi anche fisicamente. È triste. Ci si vuole omologare in una maniera da creare quella pigrizia mentale dove si etichettano le persone e le si chiude nei cassetti. Conoscere l’altro richiede umiltà, rispetto, pazienza, amore, sentimenti, cose per le quali il mondo oggi non ha tempo. Oggi si viaggia di più che in ogni altro secolo del passato ... milioni di persone si muovono ... ma NON si conoscono.

Come è cambiata oggi, 13 anni dopo la pubblicazione di Lontano di Mogadiscio, la tua visione piena di speranza (ma anche molto pragmatica) di una società interculturale in Italia basata sul dialogo e sulla reciproca conoscenza? La situazione è peggiorata o migliorata secondo te? Quali sono gli ostacoli ad un dialogo interculturale? Secondo te è veramente possibile uno scambio interculturale in Italia? Come si dovrebbe svolgere?

Sono rientrata in Italia da un paio di anni dopo un lungo periodo trascorso all’estero. Sicuramente ho trovato il paese con una cospicua presenza di persone provenienti da diverse nazioni .. tante famiglie, bambini nati qui, altri cresciuti in Italia. In sostanza però ho visto che la mentalità di base della società italiana non à cambiata verso queste persone che vivono e che hanno fatto dell’Italia il loro paese. Si parla di loro come forza lavoro, di quei mestieri che gli italiani non vogliono più svolgere. C’è sempre la sensazione di sentirsi precari per i vari permessi di soggiorno ... non è che dopo un breve periodo di tempo che uno vive e lavora e non ha commesso reati gli si permette di votare almeno nei comuni di residenza. Uno che lavora e paga le tasse si sentirebbe integrato se facesse pienamente parte di quel territorio. Recentemente mi ricordo che alla proposta che dopo 5 anni di residenza gli stranieri possano fare domanda di cittadinanza italiana è successo un putiferio. Che poi non significava che la cittadinanza era garantita. Queste tematiche sono il vero termometro di un paese. I mass-media sicuramente giocano un ruolo molto importante per essere quel ponte di avvicinamento, invece purtroppo nella realtà alimentano stereotipi e creano delle spaccature tra la popolazione.

Parli molto di donne nel tuo libro: di amicizia fra donne, di reti femminili in Somalia ma anche in Italia. Che ruolo speciale ha secondo te la donna nel dialogo interculturale in un paese di immigrazione, sia per le donne immigrate che per le donne nate in Italia?

Il mondo femminile è il cosmo che contiene la dolcezza e la forza dell’universo. Sono le donne che mantengono il filo che tiene uniti i vari intrecci di parentele e amicizie, sono loro che accudiscono i vecchi e i bambini. Sono loro che mantengono le tradizioni, i ricordi, il sapore dei cibi, che sanno raccontarsi e non hanno paura di piangere per poi tornare a sorridere. Le donne sono l’anello di congiunzione tra il passato, presente e futuro.

In Lontano da Mogadiscio scrivi dell’ “arcobaleno” come metafora del dialogo interculturale. In che modo si svolge un dialogo di modello “arcobaleno”?

L’arcobaleno per me è armonia e bellezza insieme, colori diversi che stanno bene insieme. Noi siamo popoli provenienti da diversi paesi che dobbiamo imparare a vivere in armonia. La parola chiave per me è rispetto per se stessi ... e dell’altro. Sì all’integrazione per chi viene in un paese ma non ci si deve annullare e cercare di diventare l’altro. Prendere quello che c’è di buono e regalare all’altro quello che noi portiamo di prezioso. Per il paese che ospita, imparare ad accogliere senza denigrare, sfruttare e sentirsi superiore all’altro.

E la tua visione per una “nuova Africa”? Adesso come ti sembra la possibilità per una nuova Somalia? Che ne pensi degli interventi degli Americani o che parte gli italiani dovrebbero fare (o non fare)?

La mia visone per una “nuova Africa” è positiva. Nonostante prevalgano immagini negative nei mass-media, nella realtà l’Africa si rinnova ogni giorno ... milioni di persone portano avanti dei progetti positivi, fanno sentire la loro voce e creano un’energia positiva. Politicamente si sta già lavorando per una futura Unione Africana, naturalmente ci vorrà del tempo ed enormi risorse finanziarie; non dimentichiamoci però che anche il percorso dell’Unione Europea è iniziato negli anni ’50. Io non sono più tornata al mio paese di origine, ma seguo con attenzione tutto ciò che lo riguarda.
Questa attuale amministrazione americana purtroppo ha creato imbarazzo per lo stesso popolo statunitense.
Più che l’Italia, penso che dovrebbe essere l’Unione Europea ad avere una politica più costruttiva verso l’Africa, anche perchè tutte le ex-potenze coloniali ormai fanno parte di un unico organismo.

L’ultima parola la lascio a te. Di cosa vorresti parlare a chi ti ascolta? Secondo te qual'è un tema che si dovrebbe approfondire di più, fra i temi della migrazione, dell’esilio, della guerra, o di altri ancora?

Il business più redditizio del mondo è la vendita di armamenti...Le guerre creano migrazioni, orrori, morti, e tutte le atrocità. Chi sono i paesi che producono le armi? Ironicamente quelli che predicano la pace e la democrazia...Allora smettiamola con le IPOCRISIE.

1 Graziella Parati. “Intervista di Graziella Parati a Shirin Ramzanali Fazel.” Studi d’Italianistica nell’Africa Australe/ Italian Studies in Southern Africa. 1995: 8 (2)108-114.
2 Vedi Angelo Del Boca Gli italiani, brava gente? (Vicenza: Neri Pozza, 2005) per ulteriori informazioni.

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Anno 4, Numero 18
December 2007

 

 

 

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