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canzone

pablo urquiza

 
Devo scrivere l’appassita canzone
Mangiare con te al ristorante dalle belle tende e i fiori
mia tristezza,
la ronda degli uccelli senza cielo.
Quale deserto, quale altra schiuma, quale preghiera inutile dei suonatori di organetto
Dovrebbe trasformare i giorni in canzone?
Dovevo nominarti,
dovevo scrivere l’appassita canzone,
sapere che in essa il mare,
il mare ferito in quell’ora in cui tutto si perde,
il mare mi cercherebbe come un amico morto nelle fotografie.
Calda, molto calda trascinando cipressi,
entrava la notte a Cuernavaca.
Nel paese dagli occhi chiari e dal letto disfatto
gettava ancora radici,
il letto sotto la luce della lampada dalle lenzuola rosa suo tuo corpo.
Gettava ancora radici,
paese dagli occhi chiari.

(Nascondimi, sbrigati, 
distrai la mia ragione di gufo.
Non sopporterebbe il mio cuore un altro autunno tra questa gente)

Adesso parte il metro, sbrigati,
Fino alla prossima stazione se ne andrà il ricordo.
Per non addormentarsi – la notte apre le sue piaghe, 
accenderà la sua radio, comprerà “ovaciones”  fisserà la vista fantasma
•	un salto di cervo – sulla donna dal maglione giallo, 
sugli abissi ritardati dal suo giorno,
sugli altri i suoi altri sciamani sui binari.
Fisserà l’ora.
Va’, affretta l’appassita canzone, non trattenerla.
Il vento febbricitante delle finestrelle nei tuoi vestiti, i piedi umidi, il revolver che affonda il suo occhio di ciclope fino in fondo alla tasca.
(Finirà la notte con le sue piaghe sulla tavola della formica,
nell’occhiuta sentenza dei vegetali)
Quale altro colore fuggiva dal riparo?

(Finirà la notte ammansita sul cielo spento delle stazioni.
Quattro uniformi azzurre scenderanno il suo corpo)
L’aria è insopportabile.
Un Chac Mool  ci vede passare. Sorride. Sta seduto.

La polizia, come un dio, ci vuole morti.

Nascondimi, sbrigati.
Tra le unghie cresciute va lo spirito sconosciuto da me.

Macuba alle otto.
Aprono le porte dell’asfissia.
Alcuni interrogano abiti desaparecidos.
Come questo mare occulto si aggrappano infiniti a questa vita,
come questo mare della canzone appassita altri scambiano le facce 
di morti amiche.

Catch me. Prendimi.
Un’altra stazione. 
Un torrente oscuro abbatte un porto di fate.
Il fidanzato vigila sulle gonne della sua regina.
Scrivo sulla testa di un’india la mia  poesia e.
Cuitlhuac.
Nascondimi. Sbrigati,
annuncia il mio ritiro, 
non sopporterebbe un altro autunno il mio cuore.
La cena nella Casa degli Scarabei, ricordati.
La silenziosa missione di parlare tutto solo e a bassa voce nei quaderni.
Ricordati.
A volte piove sulla monotonia degli angeli.

Dovevo scrivere, mangiare con te,
tentare la sorte sulla tela cerata con gli antichi strumenti,
con lo sguardo della cornacchia che cerca la sua strada.

Via, andiamo.
La città che redime aspetta lassù.
Via, andiamo.
Questa è l’ultima uscita.
Ancora un brivido. La donna dal maglione giallo.
Il violino nelle mani distrutte.
Non mi resta che questa carta per nominarti.


Ricordati,
la donna che va a infrangersi a fiumi sulle pietre dello Zocalo
sarà cieca chitarra dell’ambra scordata.
Tra una lenta lettera che non si completa
e il brindisi degli specchi scoperti,
il messaggio ferito.

Ricordati, 
a volte piove sulla monotonia degli angeli.
Basta la minaccia degli elementi perché ciò sia possibile!
Basta la minaccia degli elementi, paese dagli occhi chiari
perché sia possibile la canzone,
la canzone appassita che ti dovevo.

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Anno 4, Numero 18
December 2007

 

 

 

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