Nota biografica | Versione lettura |
Non chiamati, non spinti partimmo di là ed era per te déjà-vu: già avevi lasciato terra e famiglia per amore o incidente di percorso, non una ma due volte straniero. Ricominciasti daccapo e più in basso quando eri già stanco e tra un male e l’altro ripartivi alla condanna del mare con tuo ed altrui sollievo. In questo momento non c’è bisturi amico che scruti la tua carne per indagare torti ma non duole più la lingua coltello del geloso matriarcato che giorno dopo giorno ti recise sangue e speranza. Mezza vita hai faticato in idioma che mai volesti del tutto imparare e nello stesso altre hai slabbrato anelando tranquillità. Sopportare hai sopportato e il lezzo che il tuo corpo sta emanando non offende come offesero te nei gusci di ferro tra i motori o nell’astio quotidiano di chi assai più ti odiava perché il suo odio l’avevi perdonato. E se la terra prima da cui partisti aveva a te chiesto troppo, il troppo che desti alla terra che non avevi chiesto ti si ritorse in poco e meno ancora. E mentre il ferro ti smembra e scava forse viaggi lontano su nuovo mare e ti culla la tersa onda lavandoti da ogni affronto, papà.
Se penso quanto mi sembravi grande quando ero piccolo io e mi tenevi per mano, tu giovane adulto, davanti a gomene e altissime chiglie, e quanto sono piccolo io, ed eri diventato tu, ora che io sono più vecchio del tu di quel ricordo; non trovo che morte e vita siano così diverse come capisti tu alla Maison Blanche. Non ho giocato a Dungeons & Dragons, mi ci portavi tu nel ventre delle navi tra profonde scale unte d’olio nell’assordante rombo dei motori nel ticchettio dei generatori fin dove l’asse s’inghiottiva nella cubìa dell’elica, ed era mare. Della vita in mare non osavi, e non volevi parlare: tacevi di porti e avventure e alla tua vita lontano non era dato accedere a sentimento di verità. Oggi ti scrivo e inscrivo nella mente di chi non ti conobbe (o poco, o troppo), e del groviglio di miti e catrame, del verde marino delle tue cabine, dello sporco di cargo abitato d’uomini, vorrei restasse non il dubbio e l’esitazione, né il chiasmo di voci feroci e indulgenti, ma la stessa intima vena che ci portò e porta, giovani, all’entusiasmo: come scorre ora la parola e scorse l’atto scorra per te l’onda che bagnò e bagna Budva di pietre bianche, e riposi tu in pace nell’acqua salata, salata che lava e indìa ogni affronto.
Forse ora la tua anima svolazza come cucciolo d’ape o respira con il ritmo delle cicale. Se ora il tuo corpo non teme l’affronto di una giustizia che non ti riguarda più e solo in naso freddo spunta ancora dal lenzuolo, perdonerai a noi che non abbiamo capito che ci lasciavi. E se morendo hai aperto porte che in vita ti furono chiuse, le porte che tu in vita hai chiuso o aperto ti siano leggere, e non turbi il tuo sonno un destino che ti sei cercato e non hai mai voluto. Requiesce in pace come poi chiedevi dopo l’ultimo sbarco della tua vita. Ciò che non scordasti ti sia reso e l’attimo eterno abbia il colore del riposo del mare: sereno.