El Ghibli - rivista online di letteratura della migrazione

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come a casa

adam zameenzad

«A casa, casa era casa. Qui... ci sono solo quattro mura. Mattoni e legno e finestre. Con le tapparelle. Che parola orribile, tapparelle. Orribili da guardare. Orribili per guardare fuori. Non si vede nulla. Nessuno. Soltanto una macchia. Una macchia grigia. Non sembra per nulla di essere a casa.»
«Ohhh, è solo che ti ci devi abituare, Razia. Ecco perché ti senti così. Qualche altro mese, e anche questa ti sembrerà casa. Aspetta e vedrai. Sarà proprio come a casa.»

Questo era accaduto sei mesi prima quando Razia, quasi al termine della gravidanza, era arrivata in Inghilterra con le figlie: Nima di sette anni e Naila di cinque, per stare insieme al marito Jamil, padre delle bambine.
A Nima era tornato in mente quel dialogo fra i genitori mentre cercava riparo dietro la madre dal rigido vento di ottobre. «Non possiamo andare a casa ammi? Ho freddo.» Non era sicura a quale casa volesse tornare. Per certi versi le piaceva stare qui, in Inghilterra. Le piaceva la sua scuola, le piaceva la sua...
«Dovevi metterti la maglia pesante come ti avevo detto!» Razia interruppe i suoi pensieri. «Non mi dài mai retta, vero? Poi ti lamenti. Guarda Naila. Ha messo il maglione di lana e la giacca a vento. E non ha freddo.»
«La giacca a vento ce l’ho anch’io,» borbottò Nima, «Naila non ha freddo perché è grassa! E brutta».
«Zitta, birbante. Naila è carina, è la bambina più carina di tutto il villaggio, di tutta la città... di tutto il mondo. Come te. Ed è un bene avere un po’ di ciccia addosso. Mi sembri uno scheletro. Non mangi quasi niente. Non ti piace nulla di quello che ti faccio. Qui non puoi avere tutti i giorni le polpette della nonna e i saag parathas(1), come quando eravamo a casa, capito?» Rivolse a Nima uno sguardo accusatorio, come se fosse colpa sua se in Inghilterra non potevano mangiare ogni giorno le polpette della nonna e i saag parathas, poi aggiunse: «Ci credo che hai freddo».
Nima fece la linguaccia a Naila, ma non disse niente.
«Andiamo al parco, Ammi. Voglio dare da mangiare alle anatre» Naila tirò la dupatta(2) della madre mentre allo stesso tempo cercava di spingere via Nima.
«Non la spingere in quel modo,» Razia agitò un dito verso Naila. «Mi abbraccia perché ha freddo».
«Non voglio andare al parco,» si lamentò Nima. A dire il vero le piaceva molto andare al parco, dare da mangiare alle anatre, correre; ma non se Naila l’aveva suggerito per prima. Allora lei si sentiva in dovere di opporsi all’idea.
A quel punto, le bambine cominciarono a darsele. All’inizio furono pizzicotti, poi uno schiaffo a Naila portò a un violento strattone alla treccia di Nima, mentre Naila lanciava urla spaccatimpani. Per non essere da meno, la sorella si unì con grida ancor più alte di dolore fasullo e genuina offesa.
Razia aveva il suo bel daffare a cercare di essere imparziale con le due bambine. Non facevano che spintonarsi per guadagnare la sua attenzione, alle spese l’una dell’altra. Se solo Jamil collaborasse un po’, pensò. Se passasse un po’ più tempo con le bambine, allora, forse, loro non litigherebbero così per il mio tempo, tutto il tempo. E adesso con la piccola... stava diventando troppo. Lasciò che la lite si esaurisse da sola. Era troppo stanca per preoccuparsene. Anche loro si stancheranno prima o poi. Magari!
Se fosse stata a casa l’avrebbe aiutata sua madre. E le sue sorelle. Per non parlare dei vicini. Inoltre c’era Badi Bee che passava ogni pomeriggio per lavare i piatti e spazzare le stanze.
Razia emise un lungo sospiro, spingendo la carrozzina con la piccola Seema, per fortuna ancora addormentata, sdraiata accanto a due sporte della Tesco piene fino a scoppiare. Un’altra borsa dondolava appesa alla meglio al manico della carrozzina. Razia ne portava altre due: una nella mano sinistra, l’altra a tracolla sulla spalla destra. A casa sua avrebbe dovuto soltanto attraversare la strada fino al chiosco più vicino per qualsiasi bisogno in ogni momento. O ancora meglio, avrebbe mandato Salloo della porta accanto di corsa a prenderlo per lei.
«Voglio andare al parco. A dare da mangiare alle anatre,» urlò Naila, questa volta decisa a farsi valere e pestando i piedi.
«Io non voglio andare al parco. Io voglio andare a casa,» Nima strillò con tutta la sua voce, strattonando il dietro del kameez(3) di Razia e puntando il dito verso casa.
Seema scelse proprio quel momento per svegliarsi e cominciare a ridacchiare.
«Guardate cosa avete combinato, adesso. Tutte e due. Svegliare la vostra sorellina. Non so proprio che devo fare con voi due! Allah toba(4). Voi bambine mi manderete sotto terra prima del tempo. Poi potrete piangere quanto vi pare, voglio proprio vedere chi verrà quando ne avete bisogno, figuriamoci poi per soddisfare i vostri capricci.»
«Va bene, allora,» singhiozzò Nima, stropicciandosi gli occhi con i pugni, «andiamo pure al parco. Le ha sempre tutte vinte, Naila!»
Il parco si trovava più avanti sulla High Street, in una traversa sulla destra. Una camminata piuttosto lunga, ma all’incirca in direzione di casa, solo una breve deviazione lungo la via. Farà contente le bambine pensò Razia e io ho davvero voglia di sedermi.
Alla fine, ecco il parco. Le bambine scorrazzavano di qua e di là; Nima rideva da sola vedendo l’andatura dondolante delle anatre, rincorrendole lungo il bordo del laghetto, e come al solito divertendosi più rumorosamente di Naila.
Razia mise giù le borse e si sedette a rilassarsi su una panchina al sole. Gli alberi erano ancora verdi, e i loro rami carichi di foglie creavano ombre a scacchi che giocavano a nascondino con le ombre delle bambine, adesso mano nella mano, in armonia l’una con l’altra e con la natura. Da destra si udiva una colomba tubare solitaria, mentre sopra le loro teste le allodole cantavano e i balestrucci intonavano un incessante coro di gioia. In qualche modo il canto e lo sbatter d’ali degli uccelli sembravano intensificare o addirittura creare una sensazione di silenzio, di calma, piuttosto che soffocarla o spazzarla via.
Chiudendo gli occhi, Razia allungò le gambe il più possibile, e si abbandonò all’estatica tranquillità del momento.
Non si stava poi così male qui. Jamil aveva ragione, cominciava a sentirsi a casa. C’erano alcune difficoltà, certo; ma anche diversi vantaggi. Per esempio, molte cose fra cui scegliere; tante varietà di cibo, anche pakistano e indiano. Ed era incontaminato, puro. Non c’erano, come a casa, il peperoncino mischiato con la polvere di mattoni, il latte annacquato, il ghee(5) allungato con l’olio vegetale ... per non parlare degli escrementi di vacca con... allungò le braccia sopra la testa e decise di non pensare alle impurità del cibo di casa di cui si lamentava sempre. O a qualsiasi... altro... problema di casa. Problemi che aveva rimosso. Meglio concentrarsi su tutte le cose belle che c’erano qui. Alcune troppo belle per essere vere, troppo belle per durare... ma no. Non ci doveva pensare. Anche se questa era la parte migliore del vivere lì... le commesse sono carine e gentili, di solito; le bianche sono meglio di quelle come noi. Anche la gente è amichevole, la maggior parte, anche se... ma no. Oggi si sarebbe tenuta alla larga dai pensieri negativi. Era arrivato il momento di essere positiva. Questa sarebbe diventata la sua casa, e doveva fare buon viso a cattivo gioco. Vedere il lato positivo. Apprezzare quello che aveva.
Le piaceva andare al grande centro commerciale fuori città. E le gioiellerie di Londra avevano i gioielli più favolosi che avesse mai visto, anche se l’oro non era pregiato come quello di casa. Non a 24 carati, come quello che suo padre aveva comprato per il suo matrimonio, spendendo i risparmi di una vita. Ma i diamanti... sì i diamanti qui erano assolutamente favolosi. E pure qualcuno dei vestiti... anche se non avrebbe mai potuto indossarli. Non avrebbe osato. E si potevano trovare i video di tutti i film indiani più belli e recenti. Perfino l’estate era stata bella malgrado ciò che ne dicevano gli inglesi. Non le era mai piaciuto il caldo opprimente di casa, le seccava la pelle, la faceva diventare troppo scura. Qui c’erano delicate creme per la pelle, anche se non poteva permettersi di comprare le migliori. Ma forse, un giorno... e poi le sarebbe piaciuto andare in Scozia. Era bello lassù, tra le montagne. Meglio di Simla, aveva detto una vicina, una ragazza Sikh, ma comunque molto gentile, anche se a Jamil non piaceva che le stesse troppo intorno. Studiava da avvocato. Ci sono così tante opportunità qui per studiare, anche per le ragazze. Era una bella cosa. Le sarebbe piaciuto finire l’università, ma aveva dovuto abbandonarla quando le avevano combinato il matrimonio. Jamil era solo una matricola e non sarebbe stato giusto... appropriato essere più istruita di lui. Ma lui era bravo negli affari, intelligente... portava a casa abbastanza soldi, ed era questo l’importante. Avrebbe voluto vedere Nima prendere una buona laurea, diventare avvocato, come Kuldeep, o medico. Ma forse delle due era Naila la più adatta a fare il medico. Sapeva come badare alla sua salute. Nima discuteva sempre, sarebbe diventata un’ottimo avvocato. E Seema, be’, c’era solo da aspettare e vedere. Era così graziosa. Come una modella. Ma Jamil non glielo avrebbe mai permesso.
Un grido interruppe le sue fantasticherie. Sembrava Nima. Era Nima. Saltò in piedi e guardò per vedere dove fosse. Era soltanto caduta. Niente di grave.
«Naila mi ha fatto lo sgambetto,» gridò.
«No, non è vero, non è vero, non è vero,» rispose urlando Naila.
«Adesso andiamo a casa,» disse Razia. «Non ho tempo per star dietro ai vostri capricci. La piccola deve mangiare, e devo tornare per scaldarle il latte. Su, forza, sbrigatevi, tutte e due, prima che perda la pazienza. E che ve lo dia io un buon motivo per piangere, a tutte e due. Su, forza, andiamo».
Erano quasi a casa quando Razia esclamò: «Mer...». Le era quasi scappata la parola e arrossì. Jamil aveva ragione. Doveva stare molto attenta qui. L’occidente può corromperti prima di quanto tu creda!
«Ho dimenticato di prendere la schiuma da barba e i rasoi per il vostro abbu,» disse, in parte a se stessa, in parte alle bambine. «Dobbiamo tornare indietro fino a Boots. Mi ha detto di comprarli da Boots, anche se c’è un negozio più vicino... va bene. Se dobbiamo tornare indietro, tanto vale camminare un po’ di più. Non moriremo mica, no?» La domanda non era diretta tanto alle bambine quanto a calmare i suoi dubbi.
Il sole era quasi tramontato quando arrivarono a casa, dopo che Razia aveva comprato la schiuma da barba e i rasoi per il marito, da Boots. Era così stanca che avrebbe potuto stendersi sul divano e dormire per giorni interi. Stava pensando a questa prospettiva irrealizzabile mentre frugava nelle borse per trovare le chiavi, quando la porta si aprì.
Jamil era già a casa. Si fece da parte per farla entrare, mentre lei vacillava tra le sporte e la carrozzina.
«Sei tornato a casa presto,» cominciò Razia, mentre si dirigeva in cucina, «stavo pensando di cucinare un po’ di korma(6) e dei...»
«Ma dove sei stata tutto questo tempo?» Jamil avanzò verso di lei. «Sono stato qui per un’eternità a chiedermi che fine avessi fatto, razza di sgualdrina». La colpì con tutta la sua forza sulla guancia con il dorso della mano destra. Mentre lei cercava a fatica di mantenere l’equilibrio, la colpì con la sinistra, «Farai diventare delle sgualdrine anche queste qui. Ecco perché hai solo femmine. Così puoi avere altre sgualdrine a tenerti compagnia. Non so neanche di chi sono. La mia famiglia ha sempre avuto maschi. Speravo che almeno quest’ultimo... ma no. No. Non da te». Un altro manrovescio, «Mi sono sforzato a controllarmi. Ci ho provato sul serio. Fino a oggi. Me l’ero ripromesso. Non qui. Non in Inghilterra, dove quelle stronze ficcanaso delle assistenti sociali ti stanno tra i piedi per un nulla, solo perché sei un uomo. Ma c’è un limite a quello che un uomo può sopportare». Lo disse con un’altra botta, che alla fine mandò Razia a sbattere la testa contro il bordo d’acciaio del fornello, stesa sul pavimento della cucina.
Nima si rannicchiò con la schiena contro il muro opposto, stringendo Naila in un abbraccio protettivo.
Il suo abbu aveva ragione. Adesso era come a casa anche qui. Dopo solo pochi mesi. Proprio come aveva detto. Aveva sempre ragione, lui. Proprio come aveva sempre detto.

(1) Il parathas è un pane friabile di farina integrale fritto sulla griglia, mentre saag è la parola urdu per spinaci.

(2) La grande stola tradizionale che le donne sud asiatiche indossano sulle spalle o come mantello sopra la testa.

(3) Veste tradizionale composta da tunica e pantaloni.

(4) Espressione che significa Allah mi perdoni.

(5) Burro chiarificato.

(6) Ricco piatto speziato a base di carne o verdure stufate.

traduzione di Maria Grazia Donati

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Anno 4, Numero 17
September 2007

 

 

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