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Odio avere un accento. Lo odio quando la gente mi chiede di ripetere le cose e li sento ridere dentro perché non sono americana. Ormai rispondo in inglese all'igbo di papà. Lo farei anche con mamma, ma non credo che gradirebbe.
Quando la gente mi chiede di dove sono, mamma vuole che risponda Nigeria. La prima volta che ho risposto Philadelphia, ha detto: «Di Nigeria». La seconda volta mi ha dato uno scapaccione sulla nuca e mi ha chiesto, in igbo: «Cos'hai che non va, nella testa?».
Allora avevo cominciato la scuola e le ho detto che non è così che funziona in America. Qui sei del posto in cui sei nato, o in cui vivi, o in cui intendi vivere a lungo. Prendiamo Cathy per esempio. È di Chicago perché è nata lì. Suo fratello è di qui, di Philadelphia, perché è nato al Jefferson Hospital. Ma il padre, che è nato ad Atlanta, adesso è di Philadelphia perché vive qui.
Gli americani se ne fregano di certe stupidaggini, tipo essere del villaggio degli antenati, dove gli avi possedevano la terra, da dove puoi risalire alle origini indietro nei secoli. Ok, risali alle origini e allora?
Dico ancora che sono di Philadelphia quando mamma non c'è. (Dico Nigeria solo quando qualcuno fa dei commenti sul mio accento e poi aggiungo sempre: «Ma vivo a Philadelphia con la mia famiglia».)
Allo stesso modo, mi faccio chiamare Lin quando mamma non c'è. Le piace tirarla per le lunghe, che bel nome igbo è Ralindu, quanto è importante per lei quel nome, scegli la vita, per via di quello che ha passato, dei miei fratelli morti che erano ancora neonati. E mi dispiace, non fraintendetemi, ma un nome come Ralindu con in più un accento, be' è troppo per me al momento, specialmente adesso che sto con Matt.
Quando chiamano i miei amici, mamma per un attimo fa: «Lin?», come se non sapesse chi sia. Non si direbbe che è qui da tre anni interi (a volte, alla gente dico sei anni) stando a come si comporta.
Le piace ancora concludere i suoi commenti esclamando 'America!'. Come al ristorante. «Guarda che spreco di cibo, America!». O nei negozi. «Guarda come sono calati i prezzi dalla settimana scorsa, America!».
Però va già molto meglio. Non si fa più il segno della croce, tremando, quando il tg manda il servizio su un omicidio. Non scruta più le indicazioni scritte da papà mentre guida per andare all’alimentari o al centro commerciale. Ma tiene ancora le indicazioni scritte dalla mano precisa di papà nel vano portaoggetti. Tiene ancora stretto il volante e sbircia nello specchietto retrovisore per adocchiare le auto della polizia. E io mi sono messa a dirle: «Mamma, la polizia americana non ti ferma senza motivo. Devi aver fatto un'infrazione, tipo superare i limiti di velocità».
Lo ammetto, anch'io ero in soggezione quando siamo arrivati. Guardavo la casa e capivo perché papà non aveva voluto farci venire subito dopo aver terminato l'internato, perché aveva scelto di lavorare per tre anni, un lavoro in regola e un altro in nero. Mi piaceva andare fuori e rimanere a fissare la casa, l'eleganza dell'esterno in pietra, il modo in cui il prato la circondava come una coperta color mango acerbo. E dentro, mi piaceva la scala a chiocciola nell'atrio, la ringhiera splendente, il caratteristico camino di marmo che mi faceva sentire come sul set di un film straniero. Mi piaceva anche il clamp clamp clamp che faceva il pavimento di legno duro quando ci camminavo sopra con le scarpe, così diverso dai pavimenti silenziosi di cemento dell'altra casa.
Adesso il rumore del pavimento di legno mi irrita, quando papà invita alcuni colleghi dell'ospedale e io sono nel seminterrato. Papà non chiede più a mamma di preparare qualcosa per i suoi ospiti, c'è gente che consegna a domicilio vassoi di formaggio e frutta. Litigavano sempre per quello, papà le diceva che ai bianchi non interessavano il moi-moi e il chin-chin, le cose che lei voleva preparare, e mamma gli rispondeva, in igbo, che doveva essere orgoglioso di essere quello che era e doveva prima farglieli assaggiare e vedere se non gli sarebbero piaciuti. Adesso litigano per come si comporta mamma durante le riunioni.
«Devi parlare di più con loro», dice papà. «Devi farli sentire a loro agio, i benvenuti. Smettila di parlarmi in igbo quando ci sono loro».
E mamma strilla: «Quindi non posso parlare la mia lingua in casa mia? Dimmi, quando vai da loro si comportano diversamente?».
Non sono vere e proprie liti, non come quelle tra i genitori di Cathy che finiscono con bicchieri in frantumi che Cathy ripulisce prima di andare a scuola in modo che la sorellina non li veda. Mamma continua ad alzarsi presto per stendere la camicia di papà sul letto, per preparargli la colazione, mettergli il pranzo in un contenitore. Papà sapeva cucinare quando stava da solo – ha vissuto da solo in America per quasi sette anni – ma ora, all'improvviso, non è più capace. Non sa neppure mettere il coperchio a una pentola, no, non sa neppure servirsi da mangiare da solo da una pentola. Mamma va nel panico quando lui si avvicina ai fornelli.
«Hai cucinato bene, Chika», dice papà in igbo, dopo ogni pasto. Mamma sorride e io so che sta già macchinando, pensando a quale zuppa preparerà la prossima volta, a quale nuova verdura proverà.
I suoi pasti hanno tutti una base nigeriana, ma le piace sperimentare e ha imparato a improvvisare per le cose che non si trovano al negozio africano. Patate al forno per l'ede. Spinaci per l'ugu. È perfino riuscita a capire come trattare la farina di cereali in modo che abbia la consistenza del fufu, prima che papà le insegnasse la strada per il negozio africano dove hanno la farina di cassava. Non si rifiuta più di comprare pizza e patatine surgelate, ma brontola ancora quando le mangio, continua a dire che succhia il sangue, quel pessimo cibo. Ogni volta che cucina una nuova zuppa, cioè praticamente ogni giorno, me la fa mangiare. Mi guarda mentre modello il fufu in polpette riluttanti e le intingo nella zuppa coi pezzettoni, mi guarda perfino la gola mentre inghiotto, come per controllare che le polpette scendano giù e rimangano lì.
Penso sia contenta quando vengono quelli che chiamo ospiti fortuiti, perché sono super entusiasti della sua cucina. Sono sempre nigeriani, sempre appena arrivati in America. Scorrono i nomi sull'elenco del telefono alla ricerca di nigeriani. Gli igbo dicono a papà quanto sia stato piacevole vedere Eze, un nome igbo, dopo torrenti di Adebisis e Ademolas, nomi yoruba. Ma ovviamente, aggiungono mentre divorano famelici i plantani fritti di mamma, in America ogni nigeriano è un fratello.
Quando mamma mi chiama perché vada a salutarli, al loro igbo rispondo in inglese, pensando che non dovrebbero essere lì, che sono lì solo perché per un caso fortuito siamo nigeriani. Solitamente si fermano solo per qualche giorno, finché non capiscono cosa fare, papà è categorico su quel punto. E finché non se ne vanno, non gli parlo mai in igbo.
A Cathy piace venire a conoscerli. Ne è affascinata. Parla con loro, gli chiede della vita in Nigeria. Quelli amano parlare della loro condizione di vittime – di quanto hanno sofferto nelle mani di soldati, capi, mariti, parenti acquisiti. Cathy è troppo empatica a mio avviso, una volta ha perfino dato un curriculum a sua madre che l'ha dato a qualcun altro che ha assunto il nigeriano. Cathy è straordinaria. È l'unica persona con la quale posso davvero a parlare, ma a volte penso che non dovrebbe passare tanto tempo con i nostri ospiti fortuiti perché inizia a somigliare alla mamma, ma senza il suo tono di rimprovero, quando dice cose come: «Dovresti andare fiera del tuo accento e del tuo Paese». Le dico che sì, sono fiera dell'America. Sono americana anche se ancora ho solo una green card.
Dice lo stesso di Matt. Che non dovrei sforzarmi troppo di essere americana per lui perché, se fosse vero, gli piacerei comunque (questo perché la costringevo a ripetere le parole per esercitarmi e prendere le giuste inflessioni americane. Vorrei tanto che la Nigeria non fosse stata una colonia britannica, è così difficile perdere quel loro modo di accentare le parole sulle sillabe sbagliate). Per carità. Ho visto Matt ridere del ragazzo indiano col nome che nessuno riesce a pronunciare. Il poveraccio ha un accento così marcato che non è nemmeno capace di dire il suo nome in modo comprensibile – almeno c'è qualcuno che sta messo peggio di me. Matt non sa neanche che mi chiamo Ralindu. Sa che i miei genitori sono africani e pensa che l'Africa sia un Paese e questo è quanto. È stato l'orecchino scintillante che ha al lobo sinistro a colpirmi, all'inizio. Adesso è tutto, anche il modo in cui cammina, gettando le gambe davanti al corpo.
Ci ho messo un po' a farmi notare. Cathy mi ha aiutata, gli si è avvicinata spavalda e gli ha chiesto di sedersi a pranzare con noi. Un giorno gli ha chiesto: «Lin è sexy, vero?», e lui ha risposto di sì. Non le piace tanto. Ma a me e Cathy non piacciono le stesse cose, è per questo che la nostra amicizia è così vera.
Mamma ci andava cauta con Cathy. Diceva: «Ngwa, non stare troppo a casa loro. E non mangiarci. Potrebbero pensare che ci manca il cibo». Credeva davvero che gli americani avessero le stesse stupide fissazioni che ha la gente da noi. Non si fa continuamente visita agli estranei a meno che non ricambino, diversamente si passerebbe per scortesi. Non si mangia varie volte a casa d'altri se loro non hanno mangiato a casa nostra. Per carità.
Mi ha anche fatto smettere di andarci per un mese o giù di lì, circa due anni fa. Era la nostra prima estate qui. La mia scuola aveva organizzato un barbecue per le famiglie. Papà era reperibile, quindi mamma e io siamo andate da sole. Chissà se mamma usava i globi neri che ha in faccia e che chiama occhi, non vedeva che in estate le americane indossavano short e t-shirt? Portava un abito severo, azzurro con enormi risvolti bianchi. Stava con le altre madri, tutte stilose coi loro short e le loro t-shirt, e faceva la figura della donna fuori dal mondo che si agghinda per il barbecue. L'ho evitata per quasi tutto il tempo. C'erano parecchie madri nere, perciò ognuna di loro sarebbe potuta essere mia madre.
La sera a cena le ho detto: «La mamma di Cathy mi ha chiesto di chiamarla Miriam». Ha alzato lo sguardo, con aria interrogativa. «Miriam è il suo nome di battesimo», ho aggiunto. Poi mi sono lanciata: «Penso che Cathy dovrebbe chiamarti Chika». Mamma continuava a masticare un pezzo di carne dalla zuppa, in silenzio. Poi ha alzato lo sguardo. I suoi occhi scuri si sono accesi, un'esplosione di parole igbo. «Vuoi che ti faccia cadere i denti? Da quand'è che i figli chiamano per nome gli anziani?». Ho chiesto scusa e ho abbassato lo sguardo per modellare il mio fufu con estrema attenzione. Di solito, guardandola negli occhi la si spronava a mettere in atto le minacce.
Dopo di che non sono potuta andare a casa di Cathy per un mese, ma mamma lasciava che Cathy venisse da noi. Cathy stava in cucina con me e mamma, e a volte lei e mamma parlavano per ore senza di me. Adesso Cathy non dice 'Ciao' alla mamma, le dice 'Buon pomeriggio' o 'Buongiorno' perché mamma le ha detto che è così che i ragazzi nigeriani salutano gli adulti. Però non chiama più la mamma signora Eze, la chiama zia.
Pensa che mia madre sia fenomenale in tante cose. Tipo nel modo di camminare. Regale. O nel modo di parlare. Melodioso. (Mamma non si sforza neanche di pronunciare le parole con la giusta inflessione. Dice ancora bàule anziché baùle, per l'amor di Dio.)
O di come mamma mi ha abbracciata quando ho avuto il primo ciclo. Che gesto affettuoso. Sua madre si è limitata a dire 'Oh' e sono uscite per comprare assorbenti e mutandine. Ma quando mamma mi ha abbracciata, due anni fa, stringendomi forte a sé come se avessi vinto una gara importante, non ho pensato affatto che fosse un gesto affettuoso. Volevo respingerla, sapeva di acido, come la zuppa di onugbu.
Ha detto che era una benedizione, che un giorno avrei partorito dei figli, che dovevo tenere le gambe chiuse per non gettarle addosso la vergogna. Sapevo che avrebbe chiamato in Nigeria e lo avrebbe detto alle zie e a Mama Nnukwu e poi avrebbero parlato dei figli robusti che un giorno avrei partorito, del bravo marito che avrei trovato.
* * *
Oggi viene Matt, dobbiamo scrivere insieme una relazione. Mamma continua ad andare su e giù per casa. In Nigeria le ragazze hanno amiche femmine e i ragazzi hanno amici maschi. Tra un ragazzo e una ragazza non c'è solo amicizia, c'è qualcosa di più. Dico a mamma che in America è diverso e risponde che lo sa. Mette un piatto di chin-chin fresco di frittura sul tavolo da pranzo, dove studieremo io e Matt. Quando torna di sopra, porto il chin-chin in cucina. Immagino la faccia di Matt mentre dice: «Che cavolo è?». Spunta mamma e rimette a posto il chin-chin. «È per il tuo ospite», dice.
Squilla il telefono e prego che ne abbia per molto. Suonano al campanello, ed ecco Matt, con tanto di orecchino scintillante e raccoglitore.
Matt e io studiamo per un po'. Entra la mamma e quando le dice 'Ciao', lo fissa, fa silenzio e poi dice: «Come va?». Chiede se stiamo per finire, in igbo, e prima di rispondere di sì, resto zitta per un pezzo in modo che Matt non pensi che capisco l'igbo così facilmente. Mamma sale di sopra e chiude la porta.
«Andiamo ad ascoltare un CD in camera tua», dice Matt, dopo un po'. «La mia stanza è un casino», dico anziché 'Mia madre non mi farebbe mai e poi portare un ragazzo in camera'. «Allora andiamo sul divano. Sono stanco». Ci sediamo sul divano e mi infila una mano sotto la maglietta. Lo blocco. «Solo sopra la maglietta».
«Dai», dice. Il suo respiro è insistente come la sua voce. Lo lascio fare e la sua mano si insinua sotto la maglietta, cinge un seno inguainato in un reggiseno di nylon. Poi, velocemente, si fa strada verso la mia schiena e mi sgancia il reggiseno. Matt è bravo, nemmeno io riesco a sganciarmi il reggiseno così velocemente con una mano sola. La sua mano torna all'attacco e cinge il seno nudo. Gemo, perché è piacevole e perché so che è questo che si aspetta che faccia. Nei film, le donne vanno in estasi a questo punto.
Adesso è frenetico, come se avesse la febbre malarica. Mi allontana, mi solleva la maglietta che mi si arrotola intorno al collo, mi toglie il reggiseno. Ho un'improvvisa sensazione di freddo alla parte superiore del corpo scoperta. Sudore caldo e appiccicoso sul seno. Una volta ho letto un libro dove un uomo succhiava il seno della moglie così forte che non rimase niente per il bimbo. Matt succhia come quell'uomo.
Poi sento una porta che si apre. Afferro Matt per la testa e mi rimetto la maglietta nel giro di un secondo. Il mio reggiseno, che risplende bianco contro il mobile di pelle marrone, mi fa l'occhiolino. Lo spingo dietro il sofà proprio mentre entra mamma.
«Non è ora che il tuo ospite se ne vada?», mi chiede in igbo.
Ho paura di guardare Matt, ho paura che possa avere del latte sulle labbra. «Se ne stava proprio andando», dico, in inglese. Mamma resta lì. Dico a Matt: «È meglio che vai». Si alza, raccoglie dei fogli dal tavolo. «Sì, buonanotte».
Mamma è immobile, ci guarda entrambi.
«Parlava con te, mamma. Ha detto buonanotte».Annuisce, le braccia incrociate, mi fissa. All'improvviso, un'eruzione di parole igbo. Ero pazza a far restare un ragazzo così a lungo? Pensava che avessi buon senso! Quand'è che ci eravamo spostati dal tavolo da pranzo al divano? Perché stavamo così vicini?
Matt si trascina verso la porta mentre lei parla. I lacci delle scarpe da ginnastica si sono sciolti e sbattono mentre cammina. «Ci vediamo», dice quand'è sulla porta.
Mamma trova il reggiseno sotto il divano quasi subito. Lo fissa a lungo prima di mandarmi in camera mia. Arriva un attimo dopo. Serra le labbra.
«Yipu efe gi», dice. Spogliati. La guardo, allibita, ma mi svesto lentamente. «Tutto», dice quando vede che indosso ancora gli slip. «Siediti sul letto, apri le gambe».
Sento il cuore che batte all'impazzata. Mi metto sul letto, a gambe divaricate. Si avvicina, si inginocchia davanti a me, e vedo cos'ha in mano. Ose Nsukka, il peperoncino piccante che Mama Nnukwu manda dalla Nigeria, in recipienti dove all'origine c'era il curry o il timo. «Mamma! No!».
«Vedi questo peperoncino?», chiede. «Lo vedi? È questo che si fa alle ragazze promiscue, è questo che si fa alle ragazze che non pensano con quello che hanno in testa, ma con quello che hanno in mezzo le gambe».
Avvicina tanto il peperoncino che mi faccio la pipì addosso, e sento il materasso caldo e umido. Ma non lo infila.
Urla in igbo. La guardo, le lacrime luccicano nei suoi occhi di carbone, e vorrei essere Cathy. La mamma di Cathy si scusa dopo averla punita. Manda Cathy in camera, la fa stare chiusa lì per qualche ora o un giorno al massimo.
L'indomani, Matt dice, ridendo: «Tua mamma mi ha fatto flippare ieri sera. È una stupida africana pazza!».
Ho le labbra troppo rigide per ridere. Mentre parliamo, guarda già un'altra.