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i bagni pubblici

natalia soloviova

Quell’inverno a Mosca il tempo fu estremamente rigido. Le colonnine dei pozzi poste agli incroci delle strade del sobborgo erano tutte gelate, e mio padre doveva prendere i secchi dell’acqua potabile per gli usi domestici e portarli sul mio slittino dall’unica e lontana colonnina funzionante del quartiere.
A casa si faceva una stretta economia d’acqua: la si usava solo per bere, cucinare e lavarsi i denti e il viso. Il bagno settimanale mia madre lo faceva all’ospedale dove lavorava, e mio padre nelle docce della fabbrica.
Io restavo l’unico membro della famiglia che aveva bisogno di lavarsi, e così una mia zia Valentina, sorella maggiore di papà, propose a mia madre di portarmi ai bagni pubblici, che lei frequentava abitualmente perché, come diceva, il vapore la faceva stare bene e la ringiovaniva.
Avevo sei anni e non ero mai stata ai bagni pubblici, poiché fino ad allora mia madre mi aveva fatto fare il bagno sempre in una grande tinozza nella nostra cucina, riscaldata dalla stufa a legna. La mamma si preoccupava degli spifferi ed era sempre attenta che la temperatura dell’acqua fosse quella giusta, mentre il sudore le gocciolava dalla fronte. Alla proposta di zia Valentina pensai che i bagni pubblici fossero un luogo molto bello, perché la zia non era mai stanca e preoccupata, ma sempre sorridente e piena di energia. Si decise così che sarei andata con la zia.
Quel sabato pomeriggio giunse a casa nostra con una grande borsa gonfia come la gobba di un cammello che avesse appena bevuto, come avevo visto in un libro illustrato che andai subito a prendere per mostrarglielo.
“Ci porti dentro l’acqua per lavarti ai bagni?” le chiesi mostrando l’immagine dell’animale.
La zia rise e mi permise di ispezionare la sua borsa: dentro c’erano un grande asciugamano di spugna a righe rosa e azzurre, una lunga spugna di fibre di corteccia e le frasche di betulla essiccate, legate insieme come una scopa; in fondo c’era la biancheria per il cambio, ma la zia mi proibì di toccarla.
“Quando saremo nella sauna mi farai il massaggio con le frasche di betulla” disse allegramente.
Anche mia madre mi preparò una borsa con tutto l’occorrente, nella quale mise per ultimo il mio papero con il quale facevo sempre il bagno a casa.
Gli stivali di feltro li sapevo invece mettere da sola: bisognava sedersi per terra, infilare il piede e tirare su lo stivale; la cosa più difficile era quella di non confondere quello destro con il sinistro perché si assomigliavano moltissimo. Mia madre aveva attaccato un filo rosso a quello destro e un filo blu a quello sinistro; bastava stare attenti e la cosa era fatta. Dopo avermi fatto indossare gli stivali, la mamma mi mise al collo un elastico con i guanti cuciti alle due estremità e sopra la pelliccia di montone con il cappuccio; una sciarpa legata dietro, che mi copriva il viso fino agli occhi, completava il mio abbigliamento.
La zia aveva un cappotto imbottito di ovatta, calzava come me gli stivali di feltro e sulla testa aveva uno scialle di lana che le copriva tutta la fronte.
“Pronte per la spedizione ai bagni pubblici?” chiese papà sorridente, mentre, seduto sul divano, era intento a leggere il giornale.
Fuori dalla porta di casa l’aria era gelida, ma all’inizio il corpo caldo non avvertì il freddo. Mettemmo le nostre borse sul mio slittino e, tirandolo in due, ci incamminammo per le viuzze del sobborgo.
Erano le tre del pomeriggio e attorno a noi un regno bianco silenziosamente contemplava se stesso. Nel cielo sbiadito una palla arancione, distaccata e indifferente, non emanava alcun calore. Quella mattina era caduta tanta neve da ricoprire le strade, i tetti delle case, gli alberi e tutte le superfici sulle quali si poteva posare. La sua luce si diffondeva tutt’intorno. Come una fata bianca aveva sepolto la sporcizia, cancellato le imperfezioni e, accarezzando case vecchie e grigie, sembrava avesse restituito loro la primitiva purezza e giovinezza.
Lo scricchiolio dello slittino sulla neve battuta non disturbava la serenità del paesaggio, ma era in armonia con il bianco silenzioso che regnava intorno.
Ogni tanto incontravamo altre persone con gli slittini, sui quali erano seduti dei bambini che tenevano in grembo delle bacinelle di latta o smaltate: “Tornano dai bagni, le loro mamme sono schizzinose - disse la zia - e non si fidano delle bacinelle comunali”.
A due di loro la zia rivolse la stessa domanda: “C’è tanta gente ai bagni? Quanto tempo avete aspettato?”.
Le rispondevano con un entusiasmo da vincitori, perché avevano oramai superato la grande fatica della coda: “Quando siamo usciti c’era più gente di quando siamo entrati, e noi abbiamo dovuto aspettare più di un’ora”.
La zia mi guardava preoccupata: “Dovremo aspettare parecchio, Natalia, tu cosa ne dici?”
La zia Valentina mi chiamava sempre con il mio nome per intero invece del solito diminutivo, Natasha, e con lei mi sentivo più grande e più responsabile.
“Aspetteremo, zietta, non sono mica stanca. Ma mi porterai con te in sauna?”
“Sì, e sarà allora che mi frusterai con le frasche di betulla”.
Dicendo “frustare” la zia, anche se sorrideva, mi provocava una certa inquietudine, ma pensavo che scherzasse.
Finalmente arrivammo. Avevo capito che in quel lungo edificio a tre piani si trovavano i bagni pubblici, perché fuori c’era una lunga fila di gente che aspettava.
“Chi è l’ultimo?” chiese la zia, facendo la solita domanda dell’ultimo arrivato.
“Sono io” rispose un piccolo uomo con il colbacco d’agnello grigio sulla testa e un giaccone trapunto, che aveva anch’egli le frasche di betulla essicate legate sotto il braccio.
“Devo frustare anche lui?” chiesi all’orecchio della zia indicando con il dito le sue frasche.
La zia scoppiò in una sonora risata.
“Magari, piccola, a lui piacerebbe pure, ma gli uomini vanno da una parte e le donne dall’altra.”
Nonostante il mio bisbiglio l’uomo aveva sentito le mie parole e battendo le mani nei grossi guanti aveva confermato benevolmente:
“Noi andiamo al terzo piano e voi al secondo, però poi tutti al primo piano al buffet a bere la birra”, e strizzandomi un occhio aggiunse: “O una limonata”.
“È vero, zietta, che mi comprerai una limonata?” Era infatti il sogno della mia infanzia bere una limonata in un buffet; il figlio dei nostri vicini, Boria, aveva solo due anni più di me, e già l’aveva bevuta due volte con suo padre e, per questo, aveva conquistato l’ammirazione dei bambini del quartiere.
Dopo il tempo dell’attesa, volato via velocemente perché avevo trovato sulla strada una striscia di ghiaccio su cui scivolare correndo avanti e indietro, la zia mi chiamò.
Entrammo nell’atrio spazioso dagli alti soffitti. C’era una coda anche al guardaroba, ma non così lunga come quella fuori. Quando arrivammo al banco, la zia cominciò a togliermi la pelliccia, poi si levò il cappotto e lo passò insieme con il mio slittino.
In cambio di questo la guardarobiera, una donna anziana che sembrava molto indaffarata e dava segni di insofferenza, ci diede i due gettoni per il ritiro, che la zia mise accuratamente nel suo portafoglio.
Facemmo poi un’altra fila alla cassa, ma molto più breve.
“Un adulto e un bambino” disse la zia alla cassiera.
“Quanti anni ha la bambina?
“Sei”, rispose la zia.
“È alta per la sua età. Dopo gli otto si paga il biglietto intero. Vieni qua che ti misuro l’altezza.”
Alla parete vicino alla cassa era attaccato un grosso regolo di legno con il quale misuravano i bambini. Cercai di piegare le ginocchia e mi avvicinai. Mancavano due centimetri al metro e la cassiera ci permise di pagare la tariffa ridotta.
La zia mise i biglietti nel portafoglio, come i gettoni.
“Stacci attenta: che non me lo rubino o lo perda, altrimenti rimarremo senza i cappotti e con questo gelo...” mi disse sotto voce, mentre ci incamminavamo verso la scala.
Questa portava al secondo piano, dove, sopra la porta finestra, stava scritto a grandi lettere “DONNE”: sapevo ormai leggere le insegne dei negozi.
“Ci siamo quasi Natalia,” disse la zia, reggendo le due borse. Io avevo tirato fuori il mio papero e dicevo anche a lui di stare attento al portafoglio della zia.
Finalmente entrammo nello spogliatoio delle donne. C’erano tante panche di legno con un cassetto per le scarpe e sopra gli armadietti per i vestiti. Dopo che la bagnina aveva riordinato un posto appena liberato, la zia e io cominciammo a spogliarci. Ero estremamente incuriosita dalla novità dell’ambiente, dalle donne che si vestivano o si spogliavano, dai bambini che piangevano facendo i capricci. Guardavo in particolare le signore nude che, con le loro spugne sotto il braccio, nascondendo i seni con le mani, si indirizzavano verso una porta misteriosa da cui ne uscivano altre, con i corpi rossi, quasi fumanti, e con i capelli bagnati. Una di queste si era seduta sulla panca vicino a noi e respirava a fatica.
“È caldo dentro?”, chiese la zia.
“Sono stata troppo nella sauna” sorrise la donna, come se si sentisse in colpa.
“Doveva fare la doccia fredda dopo” le rispose la zia.
“Non ho più la forza per muovermi, ora mi riposo... passerà”.
La zia annuì. Intanto si era già spogliata e mi aiutava a togliere la maglietta.
Ora ero nuda anch’io, mi vergognavo e cercavo di nascondermi dietro al mio papero. La zia prese le nostre spugne e la saponetta e tenendomi per una mano ci avviammo. Prima di entrare attraverso la porta misteriosa si mise su una bilancia e si pesò.
“Speriamo di uscire con un chilo di meno” , esclamò.
Entrammo finalmente. Il mondo davanti a me era talmente diverso da quello che avevamo appena lasciato alle spalle, che mi aggrappai spaventata alla zia. All’inizio mi era sembrato che lì dentro fosse buio completo, ma dopo pochi istanti cominciai a intravedere le lampade accese, che rischiaravano con una debole luce una grande sala, densa di vapore e di acqua, con bassi sedili di granito.
In quella nebbia grigia e fumosa si muovevano strane figure nude, poco nitide per la scarsa illuminazione. Con le bacinelle in mano andavano a prendere l’acqua ai rubinetti e poi tornavano a sedersi ai loro posti per lavarsi.
Passò qualche istante prima che capissi che erano le donne viste prima nello spogliatoio, ma come erano diverse!
In quell’ambiente caldo e umido, mi pareva avessero perso le loro normali sembianze, i corpi sembravano dilatate dal vapore, le loro forme nude assomigliavano nella penombra irreale alla gomma del mio papero.
Ero rimasta talmente sorpresa di trovarmi in quel mondo buio, caldo e umido, che mi avevo fatto la pipì, benché nessuno l’avesse notato, mentre, aggrappata alla mano della zia, avanzavo lentamente.
Con occhio esperto la zia aveva individuato un posto libero e mi aveva detto di aspettarla lì affinchè non ce lo occupassero.
“Stai qui e non spostarti; vado a cercare delle bacinelle per me e per te”, disse e svelta svelta sparì nel vapore. Rimasi impalata e un po’ impaurita a guardare attorno. La mia vicina di destra aveva lunghi capelli, che stava pettinando, seduta sul sedile di granito, vicino alla sua bacinella. Quella di sinistra si sfregava il corpo come se volesse togliersi la pelle; aveva le tette grosse e la pancia come un’anguria, però la faccia era carina e mi sorrideva allegramente.
“Mi fai un favore?” - mi chiese con una voce melodica che non mi era familiare - io mi abbasso e tu mi strofini la schiena”.
Annuii. Lei mi diede in mano la sua spugna di crine insaponata, si abbassò carponi e, mentre in piedi le sfregavo la schiena con tutte le mie forze, mi diceva: “Più a destra. Adesso in centro. Vai in basso a sinistra”.
Ero quasi stanca, quando finalmente arrivò la zia tenendo nelle mani due bacinelle di latta.
“Siamo fortunate, Natalia: ho trovato subito le bacinelle, non è cosa da poco”.
“È vero” - disse la nostra vicina, che stava risciacquandosi - Oggi c’è tanta gente, i bagni sono rimasti chiusi per tre giorni consecutivi per la manutenzione, e quelli che avrebbero dovuto venire in quei giorni si sono precipitati qui tutti insieme”.
La conversazione si allargò, e presto sconfinò dall’ambito dei bagni agli scandali e alle miserie della vita quotidiana del quartiere.
A quel tempo la cronaca nera non esisteva nella stampa russa, e le notizie giravano di bocca in bocca, spesso distorte ed esagerate.
Dopo la disinfezione della bacinella con la soluzione di polvere di manganesio, che la zia aveva previdentemente portato con sé, vi misi dentro il mio papero e cominciai a lavarlo; intanto la zia si insaponava vicino a me.
Mentre giocavo sentii le nostre vicine discutere su un fatto clamoroso accaduto nel quartiere: un uomo aveva ucciso la moglie, l’aveva tagliata e poi mangiata.
Ebbe una gran paura e un particolare mi fece rabbrividire: la polizia aveva trovato un pezzo della gamba della donna nella minestra.
Da quel giorno cominciò la mia riluttanza a mangiare le minestre col brodo di carne. Non le sopporto ancora oggi.
La zia intanto aveva finito di lavarsi e cominciò a insaponarmi i capelli. Non mi piaceva lavarmeli: con mia madre facevo sempre i capricci, ma visto che ero nei bagni pubblici mi vergognai di piangere, e mi limitai a chiudere stretti gli occhi. Per l’ultimo risciacquo la zia portò la bacinella dell’acqua pulita e me la versò sul capo. Sentii una cascata d’acqua scendere giù per il corpo, ma dopo aver superato il bruciore per il sapone negli occhi niente mi faceva più impressione, e risi allegramente.
“Andiamo nella sauna”, disse allora la zia prendendomi per mano, e attraversammo la sala da bagno.
In fondo a questa c’era una piccola porta di ferro pesante; la zia la aprì ed entrammo in quelli che credetti fossero le viscere della terra. Allora non potevo definire a parole quello che provavo, ma la sensazione era quella.
Un vapore caldo e asciutto mi investì prima il viso e i capelli e poi tutto il corpo. Il cambiamento di temperatura era stato improvviso, e il corpo per alcuni istanti era rimasto indeciso se accettarlo o no. Poi qualcosa si mosse dentro di me e cominciai a sentire un piacevole calore dappertutto: i muscoli si rilassarono e il respiro si allungò. Avevo voglia di stirarmi il più possibile e tirai fuori la lingua.
“Sembri un cagnolino quando ha caldo”, sorrise la zia, e mi portò verso una panchina libera, vi si sdraiò sopra e mi mise nelle mani le frasche di betulla.
“Ora fai un bel lavoro: frustami più forte che puoi”.
Per un momento rimasi incredula, poi intravvidi sulla panchina vicina la sagoma di una donna seduta che frustava se stessa con frasche come le nostre. Faceva tanta fatica per arrivare fino alla schiena, e allora compresi le parole della zia.
Il suo corpo stava prono davanti a me: ero all’altezza delle sue spalle, vedevo la schiena liscia e le natiche rotonde, mentre le gambe sparivano nella nebbia del vapore. Piano piano cominciai a frustarle la schiena, aspettando ogni volta il suo lamento, ma la zia era zitta, respirava profondamente e mi sussurrava: “Più forte, Natalia, più forte”.
Cominciai a imitare il ritmo dei movimenti della donna vicina, prendendo gusto per quel gioco; immaginai che il corpo della zia fosse il bianco d’uovo che mia madre sbatteva con il frustino insieme con lo zucchero, e poi metteva nel forno, dal quale dopo alcuni minuti tirava fuori gli spumoni dolci e profumati, delizia della mia infanzia. Frustai il corpo della zia dalle spalle fino alle piante dei piedi e poi da sotto in sù, come lei mi sussurrava di fare fra un respiro e l’altro.
Poi la zia si mise seduta sulla panchina. Mi abbracciò e mi baciò sulle guance. Il suo corpo, più rilassato, mi ricordava il grosso violoncello che avevo sentito suonare da una nostra vicina che studiava al conservatorio.
La zia-violoncello si alzò dalla panchina e insieme uscimmo dalla sauna. Una doccia fresca nella sala dei bagni ed eravamo fuori, vicino al guardaroba.
Dopo le emozioni violente del bagno, la sala del guardaroba mi sembrava una dimora riposante piena di comfort.
La zia mi avvolse in un grande asciugamano e mi mise a sedere sulla panchina.
Stavo immobile, appoggiata allo schienale, assaporando la quiete e il silenzio della sala. Le inservienti offrivano le bevande e la zia ordinò per me una limonata. Lavata a dovere e asciugata dal vapore, mi sentivo leggera come una piuma. L’arrivo della limonata aveva portato al culmine la mia felicità. La zia prese la bottiglia e ne versò il contenuto in due bicchieri. Anche lei, avvolta nel suo asciugamano, seduta vicino a me, sorseggiava la sua bevanda. Eravamo contente tutte e due.
Finita la limonata, la zia cominciò a vestirsi canticchiando una canzone che era allora di moda, mentre anch’io tentavo di seguirla. La inserviente che era venuta a ritirare i bicchieri vuoti ci guardava con il sorriso sulla bocca raggrinzita, poi pronunciò l’abituale saluto e augurio russo rivolto a quelli che hanno fatto un bel bagno: “Che il vapore vi dia leggerezza”.
“Grazie”, rispose la zia. Era contenta, e la sua allegria traspariva dallo sguardo.
Dovevamo tornare nel mondo di sempre, e la zia cominciò a vestirmi. La maglietta intima e le mutandine di cotone, una maglietta di lana, ancora dei mutandoni di lana, collant e pantaloni pesanti e infine, un golf. Eravamo arrivati agli stivali. La zia aprì il cassettone dove aveva messo i suoi e i miei e tirò fuori due grossi stivali di feltro e uno piccolo.
“E l’altro stivaletto dov’è?” chiese a voce bassa.
Mise la mano dentro il cassettone cercando di afferrare lo stivale, ma del secondo stivaletto non c’era traccia.
“Non è possibile” - disse la zia - “te ne hanno rubato uno solo”.
Cominciai a piangere. Le emozioni di quel giorno avevano trovato una ragione per uscire fuori. Dopo l’intensa felicità avevo sentito il furto dello stivale come qualcosa di ingiusto e frustrante.
“Mi hanno rubato un solo stivale, neanche due, uno solo” continuavo a ripetere dentro di me. La perdita sembrava ancora più grande per l’incomprensibilità dell’evento, per la cattiva, inspiegabile volontà di qualcuno di lasciare una bimba senza uno stivale nel gelo dell’inverno moscovita.
Quello fu il mio primo doloroso impatto cosciente con la realtà del mondo. Avevo intuito in qualche modo che tutto in questa vita deve essere pagato, e mi ero sentita particolarmente fragile e indifesa: qualcuno avevo rubato il mio stivale di feltro, qualcuno cercava di infrangere la mia gioia.
Piansi disperatamente per alcuni minuti.
“È uno scherzo di pessimo gusto”, disse la zia sbuffando. Anche la sua serenità era stata cancellata e anche lei per un attimo si era sentita presa in giro.
Le donne attorno a noi si erano avvicinate, sentendo il mio pianto disperato.
“Hanno rubato lo stivale alla bambina”, le parole volavano in giro.
Arrivò la stessa inserviente con la bocca raggrinzita, ma adesso la sua bocca non sorrideva più: era stretta in segno di sdegno, gli occhi azzurri slavati erano diventati come di metallo. Con movimenti bruschi aveva cominciato ad aprire tutti i cassettoni vicini per cercare lo stivaletto rubato.
I cassettoni e gli sportelli del guardaroba erano stati aperti, ma niente da fare, non lo trovarono da nessuna parte.
“Che razza di gente c’è in giro”, borbottava la nostra vicina di destra.
“Sciacalli - disse quella di sinistra - lasciare la bimba senza stivale con questo gelo, che cuore d’acciaio bisogna avere”.
E tutte quante esprimevano con una parola o un’altra il loro rammarico.
Ricevendo tanta attenzione mi ero subito calmata. Dalle parole, intanto, le donne erano passate ai fatti. Una aveva portato alla zia un suo fazzoletto di lana per avvolgere il mio piede, permettendomi cosi di arrivare fino a casa. Ogni donna portava qualcosa di caldo per aiutarci a superare l’incidente.
Mi sentivo protagonista, e il mio cuore si gonfiava sempre di più di orgoglio. Passavo davanti ai guardaroba, e ogni donna mi faceva una carezza sui capelli o sulle guance.
Raccogliendo tutto ciò che di caldo era stato offerto dalle donne, la zia mi aveva avvolto la gamba con le bende che ci avevano dato le inservienti, e anche con una sciarpa di lana.
Per ultimo mi avevano messo una caloscia dell’inserviente, che la usava per pulire l’interno dei bagni.
“Me la riporterà appena le sarà possibile” disse alla zia che annuì, legando l’ultima benda attorno al mio piede.
Con una gamba che sembrava ingessata scesì così al piano terreno dove c’erano i cappotti. Altre inservienti già sapevano del fatto avvenuto, e aiutarono la zia a vestirmi .
L’elastico con i guanti, la pelliccia, la cuffia, il fazzoletto per coprire il naso, la sciarpa: finalmente eravamo pronte per uscire dall'edificio.
Verso sera la temperatura era ancora scesa: sentivo l’aria gelata intorno a me. La zia mi sistemò sullo slittino mettendomi ai piedi le due borse, prese la corda e ci avviammo verso casa.
Era una sera stellata. Sopra di me vedevo la scura volta del cielo piena di stelle luminose come le caramelle bianco-trasparenti esposte sul piatto di vetro scuro nella vetrina della pasticceria vicino a casa.
Ogni tanto mi addormentavo pensando alle caramelle, e la zia mi svegliava toccandomi le mani e i piedi. “Hai freddo, Natalia? Non dormire: fra un po’ saremo a casa”.
Io annuivo, ma poi mi riaddormentavo. Non avevo freddo, le mani e i piedi erano caldi, ma ero così stanca, e le palperbe erano così pesanti che non riuscivo a tenere gli occhi aperti.
Mi svegliò la voce di mio padre, che mi prese tra le braccia e mi portò in casa. Mi mise sul divano, e la mamma cominciò a togliermi la pelliccia. Sentivo, lontano lontano, la voce della zia che raccontava la storia dello stivale, e il riso di mio padre. La mia testa diventava sempre più pesante, la volta del cielo era scesa giù, e io sentivo in bocca il dolce gusto delle caramelle, finché precipitai in un sonno profondo.

La mattina dopo, come al solito, mi svegliò mio padre perché mia madre usciva presto da casa per recarsi al lavoro. Preparai la cartella, dopo la colazione dovevo andare all’asilo. Poi, all’improvviso, il ricordo dello stivale rubato. Guardai nell’angolo dove di solito li tenevo, e li vidi tutti e due al loro posto. Aprii la bocca, talmente stupefatta che papà cominciò a ridere.
Mi disse che aveva sentito, alcuni giorni prima, che al nostro vicino, un bambino di nome Boria, avevano rubato uno stivale nei bagni pubblici. Stamattina, mentre dormivo, papà era andato a chiedere alla madre di Boria di fargli vedere lo stivale. Era sinistro e a me era rimasto quello destro. Papà li aveva misurati: erano pressoché uguali. Aveva chiesto allora alla donna di vendergli lo stivale, ma la mamma di Boria glielo aveva dato senza volere soldi, perché a Boria ne avevano già comprato un altro paio nuovo e l’unico stivale che rimaneva era solo d’impiccio. Io però non fui proprio contenta, perché mettendolo sentii che lo stivale di Boria era meno comodo del mio.
Fortunatamente un mese dopo i miei genitori mi comprarono un paio di stivali di cuoio, perché i miei piedi erano cresciuti e la neve si era sciolta: non si poteva più camminare con gli stivali di feltro, che andavano bene solamente con la neve asciutta e il grande gelo.
La zia Valentina mi portò altre due o tre volte nei bagni pubblici, finché non ci trasferimmo in un appartamento con la vasca e la doccia, e dei bagni pubblici mi dimenticai.
Una volta, ormai grande, passandoci vicino, mi era venuta voglia di entrarci. La sala del guardaroba mi era sembrata più stretta e più bassa, e la sala dei bagni ordinata e per niente buia. La sauna era un piccolo locale con la stufa arroventata: due donne stavano sedute sulle panchine, e non vedevo frasche di betulla. C’era poco vapore, poca gente, delle code nessuna traccia. La cassiera mi aveva detto che i bagni pubblici di lì a poco sarebbero stati chiusi, perché ora a Mosca tutti gli appartamenti avevano il bagno, e la gente si lavava comodamente a casa propria.
Anche il tempo dei grandi geli è finito. L’inverno è diventato mite e piovoso.
“I tempi cambiano e tutto passa”, dicono i saggi. Nella profondità della mia memoria però rimase impressa la felicità della bimba davanti al bicchiere di limonata dopo il bagno caldo e l’esperienza di una piccola sofferenza condivisa con altri.

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Anno 4, Numero 17
September 2007

 

 

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