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la letteratura caraibica francofona e l'italia

paola ghinelli

Ancora oggi persiste una grande incertezza a proposito delle prime fasi della cosiddetta "scoperta dell'America". È certo infatti che il primo contatto tra Cristoforo Colombo e il continente che lo ha reso celebre è avvenuto su un'isola dell'attuale mar dei Caraibi, ma gli storici esitano a designarne precisamente una. Oltre ad essere avvolto nel mistero, quel primo incontro aveva anche un carattere profondamente letterario, poiché gli scritti che ci rimangono di Colombo devono gran parte del loro stile e del loro contenuto alla precedente letteratura di viaggio in italiano e in latino, e in particolare al Milione di Marco Polo. Anche le rappresentazioni caraibiche dell'Italia sono spesso avvolte da un alone di incertezza: "Un vecchio bianco, chiamato Cristoforo Colombo, venendo da non so dove, alla testa di una banda di spagnoli, si scagliò contro quei poverini e rubò tutto l'oro, nei fiumi e sottoterra" (Félix Morisseau-Leroy, "Torrente dei diavoli", da L'Isola d'acqua, Feltrinelli, 2005). La sintesi ironica ed espressiva di questa frase di Morisseau Leroy, tradotta dal creolo, non deve far pensare a una rappresentazione letteraria semplicistica del rapporto tra l'Italia e i Caraibi, al contrario: la mancanza di limpidezza l'ha caratterizzata sin dall'inizio.
Édouard Glissant fu il primo intellettuale caraibico a fare dell'opacità un punto nodale della rete concettuale che sottende la sua riflessione filosofica ed estetica e, lungi dall'essere considerata un'inutile complicazione, l'opacità è interpretata, da questo scrittore filosofo, come una risorsa, come una possibilità proficua di convivenza rispettosa tra culture e individui diversi. Contrariamente a quanto avviene per i paesi europei che hanno avuto colonie in quella zona, la scarsa conoscenza e in certi casi la mitizzazione reciproca potrebbero dunque costituire un punto di partenza per un rapporto privilegiato tra Italia e Caraibi, rapporto che è già stato immaginato in ambito letterario.
Lo stesso Édouard Glissant, che considera il luogo "inevitabile" e nella cui poetica il paesaggio delle Antille riveste un ruolo decisivo, cita con dovizia di particolari il paesaggio ligure, quasi fosse possibile, a secoli di distanza "ricambiare la visita" di quel primo ligure che giunse alle Antille. Altri scrittori come ad esempio Roland Brival, rilevano analogie tra il "carattere" antillano e quello italiano, forti al punto da spingerlo ad ambientare a Venezia il suo romanzo En eaux troubles. Venezia per Brival è un'isola, ed è quindi l'insularità che influisce, a suo avviso, sul carattere passionale e atipico degli abitanti di alcune regioni italiane, e di quelli di Martinica, Guadalupa e Haiti. Interessante notare che il carattere insulare di Venezia è stato sottolineato anche dallo scrittore veneziano Tiziano Scarpa, che trae a sua volta ispirazione da questa particolarità in alcuni suoi testi. Da un punto di vista italiano, l'evocazione di Genova e di Venezia non può non portare la mente alle repubbliche marinare. Certo è che i richiami a questa parte del paesaggio e della cultura italiani hanno basi storiche.
Le somiglianze fisiche rilevate dagli scrittori tra le Antille e alcune zone d'Italia, in particolare quelle a vocazione marittima o le isole, portano a prendere in considerazione analogie più profonde e radicate. Non pare un caso che si sia potuto instaurare un dialogo letterario proficuo tra Sergio Atzeni e Patrick Chamoiseau. Sergio Atzeni era un romanziere sardo, ed è stato il traduttore italiano del romanzo Texaco, che è valso il premio Goncourt allo scrittore Patrick Chamoiseau. In questo caso tuttavia, "l'insularità" di entrambi gli artisti costituisce forse un elemento secondario nel contesto dei vasti rapporti possibili tra le loro opere. Entrambi sono scrittori bilingui che vivono in modo straziante la dominazione culturale e linguistica vissuta storicamente dalla loro isola, ed entrambi gli scrittori insistono sul concetto di una memoria da riscoprire attraverso tracce ignorate dai più esprimendolo secondo modalità letterarie analoghe.
Tra i modelli letterari annoverati più frequentemente da un altro scrittore martinicano, Raphaël Confiant, compaiono Carlo Emilio Gadda e Marcello Fois. Entrambi si avvicinano a Confiant attraverso strutture narrative composite e agglutinanti. Entrambi lasciano fluire nei loro romanzi, come fa Confiant, le voci inascoltate degli sconfitti o degli invisibili, che sanno evocare efficacemente senza mai perdere un sorriso amaro. Spesso si tratta di voci lontane nel tempo, di cui le opere devono riprendere l'eco prima che il loro insegnamento si perda per sempre. Confiant deve inoltre a questi due scrittori, senza dubbio, i suoi rari excursus nel genere poliziesco.
Il parallelismo tra Confiant e Gadda impone un'analisi del linguaggio letterario, tanto suggestivo nei due casi, da essere considerato esemplare e unico nei paesi rispettivi. In realtà, i metodi di costruzione linguistica dei due scrittori presentano analogie ben più profonde rispetto all'impressione di anarchico garbuglio che suscitano nel lettore. Entrambi gli scrittori sono attenti creatori di lingua, entrambi considerano le lingue locali come una miniera inesauribile di trovate lessicali che, malgrado la loro apparente spontaneità e immediatezza, sono l'artificiale frutto di ricerche erudite. Se in Confiant questo aspetto è particolarmente evidente, molti altri scrittori caraibici hanno un rapporto creativo con la realtà multilingue nella quale vivono, e in questo si avvicinano in particolare agli scrittori italiani contemporanei che tentano di negoziare una lingua letteraria che abbracci tutte le microlingue presenti nell'Italia di oggi. L'invenzione della lingua regala alla nozione di "insularità" citata più sopra una dimensione più problematica. Infatti, malgrado la diversità dei percorsi storici che hanno portato alle due situazioni, i contatti letterari ci permettono di istituire un parallelo tra l'isolamento linguistico dei dipartimenti d'oltremare (la Martinica in particolare) e la frammentazione linguistica italiana. Sebbene oggi la situazione sia per molti versi cambiata, fino al primo dopoguerra il bilinguismo delle Antille francofone aveva implicazioni sociali, politiche e culturali molto simili a quelle del rapporto tra l'italiano e i diversi dialetti. Al di là di questi macroscopici elementi comuni, rafforzati spesso da contatti umani tra scrittori, esistono naturalmente rapporti letterari più sottili, ma egualmente importanti tra la letteratura italiana e quella caraibica contemporanee. Citiamo ad esempio il caso di Louis-Philippe Dalembert, scrittore haitiano che ha vissuto in Italia che si rifà spesso al poeta Giorgio Caproni e ad altri intellettuali italiani legati all'idea del vagabondaggio e della lontananza.
Infine, esistono analogie che forse non afferiscono al dominio dell'intertestualità, ma che vale la pena citare. Ad esempio, un filo rosso lega il lavoro di raccolta e riscrittura messo in atto da Confiant per la stesura dei Contes créoles des Amériques e da Calvino per le Fiabe Italiane. La struttura di base e la metodologia di queste raccolte di fiabe costituiscono certamente l'aspetto comune più evidente tra le due opere. Il lavoro letterario di raccolta e riscrittura messo in atto da questi due autori presenta analogie interessanti, soprattutto dal punto di vista linguistico. Tuttavia, l'analogia, e forse l'identità tra i personaggi ricorrenti di Ti-Jean nelle fiabe americane e di Giufà nelle fiabe italiane meriterebbe uno studio approfondito. Ti-Jean è uno dei personaggi chiave del folklore antillano, e come tale è stato approfonditamente studiato nel corso degli ultimi vent'anni. Alcune ricerche hanno evidenziato che le sue avventure sono presenti in tutta la tradizione orale caraibica, e anche nel folklore americano francofono. In effetti, sebbene il nome del protagonista possa cambiare, le stesse fiabe si possono ritrovare dal Canada alla Martinica alla Luisiana. Ciò che è strano è che vicende molto simili a quelle di Ti-Jean capitano al Giufà della tradizione italiana.
Lo studio dell'intertestualità tra letteratura italiana e letteratura caraibica contemporanee può certamente aprire percorsi di ricerca innovativi, soprattutto perché non si esaurisce ai casi citati qui a titolo esemplificativo. In particolare, siccome l'associazione tra una letteratura di norma catalogata criticamente come "postcoloniale" e una letteratura europea di lingua diversa è inusuale in ambito critico, lo studio dell'intertestualità tra le letterature in questione potrebbe aprire percorsi ancora inesplorati nel contesto della francofonia e dell'italianistica. I raffronti possibili delineati brevemente qui devono però costituire una possibilità di studio e non un'occasione di riduzione a sé. Se si evita la subordinazione di un autore all'altro a vantaggio dei parallelismi possibili, sarà più facile notare che l'espressione letteraria è un'espressione umana, e che l'efficacia di un'opera non dipende tanto dalle condizioni materiali che l'hanno ispirata, né dalla cultura o dal paese che l'ha prodotta, quanto dalla coerenza stilistica con la quale è narrata. In modo più immediato, uno studio delle aree possibili di intersezione tra la letteratura caraibica e quella italiana potrebbe ispirare un nuovo approccio alle traduzioni italiane (ancora piuttosto rare) di opere letterarie caraibiche.

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Anno 4, Numero 16
June 2007

 

 

 

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