El Ghibli - rivista online di letteratura della migrazione

Versione Originale | Nota biografica | Versione lettura |

sotto il mango

hugh aaron

Sembravamo due eroi che tornano dalla guerra. “Americanos, Americanos” urlavano i bambini nudi, zigzagando euforici intorno a noi come clown al circo, mentre io e Palla-da-biliardo camminavamo fianco a fianco lungo il sentiero battuto, nell’ombra delle chiome verdi degli alberi. Dalle nostre spalle pendevano pesanti sacche da viaggio colme di regali: bottiglie di birra, stecche di sigarette, lattine di succo di frutta. Veloci come un soffio di vento, i bambini continuavano a correrci davanti e ci prendevano dalle mani tese una tavoletta di cioccolato dolce. Il nostro entusiasmo era altrettanto grande: presi dalla gioia contagiosa del loro essere liberi e disinvolti, urlavamo con loro, chiedevamo i loro nomi, ci divertivamo. Questo succedeva ogni volta che entravamo a Lubao.
Mentre scendevamo lungo la strada del villaggio, la gente da dentro le case ci salutava con la mano ripetendo il nostro nome, gente che dall’ultima volta non riconoscevamo più. “Ciao Palla-di-bigliardo” e “Ciao, Al. Comusta”.
Anita venne fuori da una delle case per salutarci. “Dovete tutti e due stare da noi”, disse. Poi comparve Alejandro e disse a Palla-da-biliardo: “Ho aspettato tutta la settimana. Ti prego, se non hai nulla in contrario alle discussioni metafisiche, sarei onorato di ospitarti”.
“Come posso resistere a una discussione metafisica?” rispose Palla-da-biliardo sorridendo. Quando i due si allontanarono, sentii Alejandro che diceva: “E immagino tu abbia letto La Condizione Umana in originale francese! Che fortuna! Malraux ha ragione. La soluzione a quello che accade oggi è un atto di coraggio”. Palla-da-biliardo si era scoperto rivoluzionario?
Seguii Anita sulle scale che portavano in casa della sua famiglia, un monolocale simile nella sua semplicità a quello di Rosalio, ma più grande. Entrambi avevano lo stesso focolare per cuocere i cibi vicino al muro, il pavimento screpolato di bambù, la stessa immacolata pulizia. Accovacciata davanti al fuoco, la madre di Anita, che a vederla dimostrava più di cinquant’anni (ma appresi poi che non arrivava ai quaranta), stava preparando il pranzo. Quando entrammo ci salutò con un cenno del capo e un sorriso cordiale. Seduta a gambe incrociate su una stuoia in un angolo, stava la minuta nonna materna di Anita, la pelle grinzosa come quella di un elefante e il sorriso che scopriva le gengive nere e sdentate. Mi borbottò qualcosa di incomprensibile in spagnolo. Poco dopo il signor Quiboloy, che indossava un cappello a larghe tese di juta intrecciata, rientrò dai campi roventi. Ci stringemmo la mano calorosamente. “La ringrazio dell’ospitalità, signor Quiboloy”, gli dissi.
“Puoi chiamarmi Lucio, siamo vecchi amici ormai”, rispose. Ci sedemmo tutti in cerchio sul pavimento e mangiammo riso integrale e pollo in scodelle di argilla, mentre il signor Quiboloy parlava del loro terreno a Lubao.
“Sono soltanto un piccolo fittavolo”, disse, non tanto per lamentarsi, quanto piuttosto per chiarire la propria posizione. “La terra è della famiglia che risiede nell’hacienda sulla strada principale per Bataan”.
“Quel posto da ricconi che si incontra venendo qua?”
“Sì, proprio quello” rispose, e tutti risero alla mia strana descrizione. “Tengo per me il cinquanta per cento e il resto va al proprietario. C’è poco guadagno, ma che alternativa abbiamo?”
“Gli Hukbalahaps dicono che una ci sarebbe, Padre”, disse Anita.
“Come ti permetti di parlare di loro in questa casa”, le rispose il signor Quiboloy in un impeto di rabbia. Voltandosi verso di me, mi spiegò: “Gli Huks sono radicali, comunisti; conoscono solo una via: quella della violenza”. Poi, rivolgendosi ad Anita, disse: “Chi ti ha messo in mente certe assurdità? È questo che impari a scuola? È questo che insegna Alejandro?”
“Da dove vengono gli Huks?” chiesi.
“Da tutte le parti – rispose Lucio – Alcuni dimorano nel nostro stesso barrio, ma visto che non sono un simpatizzante, non posso essere sicuro di chi siano. Vedi, io credo nella democrazia nelle Filippine. Credo che dovremmo essere come l’America, dove tutti hanno la possibilità di far fortuna e di vivere bene.”
“Ma non è sempre così. Ricordi la nostra discussione della scorsa settimana?” chiesi.
“Oh, sì, non l’ho dimenticata. Comunque voi non avete dovuto vivere nella povertà e nel dolore come noi. Non avete mai avuto niente del genere in America”.
Come potevo dargli torto? Non avevo mai conosciuto il dolore personalmente. Non avevo mai visto nessuno morire di fame. Perfino durante la disperazione degli anni Trenta avevamo sempre cibo sulla tavola, abiti a sufficienza per coprirci e un appartamento caldo dove dormire. Anche se mio padre aveva perso tutta la ricchezza guadagnata nei suoi anni gagliardi e, per il resto della vita, la propria audacia e la propria capacità di sognare, non aveva mai perduto la fiducia nell’America. Anche nei suoi momenti peggiori la nazione in un modo o nell’altro ci ha permesso di sopravvivere.
Finito il pranzo, Anita mi dette una stuoia su cui dormire, che io srotolai per terra accanto a quelle dei miei ospiti. Faceva troppo caldo per uscire sotto il sole cocente del primo pomeriggio. Niente di meglio che fare una siesta al fresco. Dopo due ore Anita mi risvegliò da un sonno leggero. Lucio era tornato nei campi, sua madre era da qualche altra parte, e sua nonna era accovacciata in silenzio in un angolo, a intrecciare una stuoia. “Mio padre mi ha detto di mostrarti il mango – disse –Puoi venire con me, per favore?”
Scendemmo lungo il sentiero fino alla strada principale, dapprima fianco a fianco, ma lei rimase subito indietro. “Vado troppo in fretta per te?”
“No, no”, rispose, invitandomi a proseguire. Rimase di nuovo indietro.
“Sei stanca?”
“No, no – e ridacchiò divertita – È usanza di Lubao che io cammini dietro.”
Poiché il cemento della strada era caldissimo, camminammo lungo il ciglio stretto e sterrato, che anche se meno rovente, ugualmente mi bruciava da sotto le suole degli stivali dell’esercito degli Stati Uniti. Anita, scalza come sempre, sembrava non badarci. Né sembrava che, col suo abito bianco e il cappello intrecciato a tesa larga, fosse infastidita dal sole pomeridiano che ci batteva addosso, mentre io invece sudavo parecchio e dovevo fermarmi di tanto in tanto a riposare sotto un albero. Diversi camion a dieci ruote dell’esercito ci offrirono un passaggio, ma lei rifiutò. A malincuore mi adeguai alla sua volontà. “Mancano soltanto un paio di miglia” disse, dandomi una magra consolazione. Passammo poco dopo accanto all’enorme hacienda di stucco bianco, che contrastava nettamente con la casa di Anita.
“Allora è qui che vivono i ricchi padroni”, dissi.
“Oh, ma ormai non sono più ricchi, Hal. Hanno la terra, ma nulla di più. Il giapponese si è preso tutti i raccolti. La terra serve a poco senza seme. E lui ha portato via tutti i loro beni, lasciando la casa vuota. Sono mestizos(1) pieni di orgoglio, ma il giapponese gli ha tolto anche quello. Un comandante ha occupato l’hacienda e umiliato i membri della famiglia, rendendoli suoi servitori. Sperava che in questo modo saremmo stati contenti e avremmo collaborato con lui”.
“E la gente non era felice di vedere che quell’egoista aveva avuto ciò che meritava?”
“Oh, no, i Santos sono brave persone, sempre molto gentili. Quando abbiamo la malaria ci portano il chinino. Quando un tifone ci rovina i raccolti ci danno riso da mangiare e semi per la semina successiva. Il comandante giapponese si era sbagliato sui nostri sentimenti. Sapevamo che era crudele”.
Alla fine arrivammo a destinazione, la piccola e solitaria palafitta dal tetto di paglia accanto al ruscello che avevo notato la prima volta che percorremmo la strada principale. Salimmo la scaletta che portava in casa ed entrammo in una stanza fresca e buia, dove vidi un vecchio quasi completamente nudo seduto sul pavimento. “Questo è mio nonno”, disse Anita scoprendo un cesto di frutta, verdura e riso che gli aveva portato. Lui allungò la mano sinistra verso la mia destra che gli avevo teso; l’altro suo braccio gli penzolava su un fianco. “Comusta ka”, disse con voce forte e chiara.
“Comusta” risposi, ricambiando il saluto. Poi si rivolse ad Anita in dialetto, indicando una piccola scatola intrecciata accanto al focolare, che lei prese. L’uomo tirò fuori una piastrina di riconoscimento dell’esercito statunitense, che tenne sospesa perché la vedessi.
“È la collana di un soldato americano”, disse Anita.
“Posso vederla da vicino?” chiesi, sorpreso del fatto che il vecchio possedesse un oggetto simile.
Sulla piastrina c’era il nome di Roger B. Anderson, il numero di matricola e il gruppo sanguigno. “Dove l’ha trovata tuo nonno, Anita?”
“Gliel’ha data il tenente Anderson”, rispose semplicemente.
“Non capisco. I soldati americani non regalano mai le proprie piastrine.”
“Sediamoci e ti racconto del tenente Anderson.” Sbucciò una banana a suo nonno, e ne porse a me una con la buccia verde scura. “Anche se è verde, è bella matura” disse. Lo era davvero, la più dolce che avessi mai mangiato. “Andrson è là, sotto il mango del nonno.” Seguii il suo sguardo fisso oltre l’entrata. Simmetrico e rigoglioso, il piccolo albero stava tra la casa e il ruscello, formando un’oasi fresca ed erbosa sotto i rami armoniosi. Perplesso per la sua poca chiarezza, cercai di capire cosa intendesse. “Sepolto? In una tomba? Sotto l’albero?”
Il nonno di Anita, intuendo che improvvisamente avevo capito, disse qualcosa in dialetto, agitandosi e cercando a fatica di alzarsi. “Mio nonno dice che puoi tenerti la collana”, tradusse Anita. Poi con tono severo disse qualcosa al vecchio, che si rimise a sedere. “Gli fanno molto male le ossa. Non sono più guarite del tutto dopo che il giapponese gliele ha rotte. Dovrebbe stare con noi al barrio, ma si rifiuta; è un testone.” Più tardi appresi che Anita andava a casa di suo nonno più volte la settimana a portargli del cibo, e spesso rimaneva a cucinare per lui. Sentivo che tra loro c’era un legame inespresso, una reciproca comprensione. Una volta Anita mi confessò di sentirsi molto più vicina a suo nonno che non a suo padre. I vecchi e i giovani abitano un terreno comune: a entrambi interessa solo la fresca semplicità della vita, il mero fatto di sentirsi vivi. Anita iniziò a raccontare: “I giapponesi obbligarono centinaia di prigionieri americani a marciare da Bataan attraverso Pampanga, senza dar loro né cibo né acqua, e frustandoli quando rimanevano indietro. Li fecero camminare sul cemento rovente, dove lasciarono impronte insanguinate con i piedi ustionati e feriti”. Raccapricciai al ricordo del dolore provato poco prima camminando sotto il sole, anche se lungo il ciglio meno caldo della strada. Anita parlava con una serietà agghiacciante, come se descrivesse una scena in corso, senza fare commenti, solo esponendo i fatti. “Alcuni già erano deboli per le ferite riportate nella battaglia di Bataan, e non riuscivano a continuare. Il tenente Anderson era uno di questi. Quando cadevano a terra, li picchiavano e li prendevano a calci, e se non si rialzavano gli sparavano, e ne caricavano i corpi su un carro trainato da carabao(2), che viaggiava dietro ai soldati. È là che spararono al tenente Anderson, al margine della strada”. Anita fissò il cemento, di un bianco abbagliante. “Ma mio nonno e mia nonna lo videro muoversi; era ancora vivo. Così, prima che il carro passasse, lo trascinarono via dalla strada, e lo nascosero sotto gli alberi accanto al ruscello, nel campo dietro casa. Gli curarono le ferite per molte settimane”. Interruppe il racconto e si consultò col nonno in dialetto. “Proprio così: mio nonno dice che ci volle più di un mese prima che l’americano aprisse gli occhi e parlasse”. “Lo hai incontrato?” le chiesi.
“Molto tempo dopo, al barrio – rispose – ma ero solo una bambina”. Mi venne in mente solo allora che nel frattempo, in quattro anni, era diventata una donna.
“I miei nonni corsero un bel rischio. I giapponesi ci avvertivano sempre di non aiutare gli americani altrimenti ci avrebbero sparato. Quando arrivò il monsone e la terra fu coperta d’acqua, trasferirono il tenente a casa del reverendo Corum a Lubao. Ma presto i giapponesi tornarono a cercare l’americano, dicendo che sapevano che nascondevamo uno dei soldati. Qualcuno, forse del barrio (non lo sapremo mai), ci aveva traditi. Entrarono a casa dei miei nonni e chiesero indietro l’americano, ma mio nonno non confessò. Allora gli spezzarono le ossa, e lui per il dolore svenne”. Al pensiero di quanto avesse sofferto le vennero le lacrime agli occhi. “Poi lo portarono insieme a mia nonna al barrio, dove si era radunata la gente, e mostrarono a tutti ciò che avevano fatto a mio nonno, minacciando di ucciderci uno a uno finché non gli avessimo restituito l’americano. Mio padre e il reverendo Corum dissero al comandante giapponese che ucciderci sarebbe stato inutile”. Balbettava; le parole le uscivano a fatica. “Il comandante ordinò a un soldato di mettere la mia nonna in piedi accanto al muro della chiesa”. Con le guance rigate di lacrime, continuò: “E le sparò. Oh, amavo tantissimo la nonna”. Dovette interrompersi; suo nonno la raggiunse con il braccio buono e la strinse, confortandola con le sue dolci parole in dialetto, mentre anch’egli piangeva.
Quello che aveva raccontato era orribile. Ero senza parole. Avrei voluto prendermi il suo dolore, condividere con lei la sofferenza del ricordo. Ma riprendendo il controllo, proseguì. “Dopo che il comandante ebbe ucciso la nonna, l’americano, il tenente Anderson, uscì dalla casa del reverendo Corum. Aveva assistito alla crudeltà del comandante, e aveva capito che altri sarebbero morti se non lo avessero trovato. I soldati lo presero; lo scaraventarono a terra, e lo colpirono con i fucili. Poi il comandante ordinò loro di metterlo in piedi accanto al muro della chiesa, nello stesso punto in cui avevano messo la nonna. Gli usciva il sangue dalla testa, e gli spararono. Poi se ne andarono”.
“Che ne è stato dei corpi di tua nonna e del tenente Anderson?”
“Li abbiamo presi e sistemati, e, dopo un lutto stretto, li abbiamo seppelliti fianco a fianco sotto il mango, così come ha voluto mio nonno”.
Il sole sembrava un’enorme mongolfiera arancione in equilibrio sulla vetta di un picco lontano. Il calore dei raggi obliqui era ormai accettabile nel tardo pomeriggio. “Dobbiamo tornare a Lubao”, disse Anita. Salutò suo nonno abbracciandolo, mentre io gli strinsi di nuovo la mano. “Lascia che ti mostri le tombe”. Eravamo entrambi in piedi davanti alle lapidi, delle semplici pietre e nulla di più. “Quella più rotonda è la tomba della nonna”. Gli attimi successivi li passammo in silenzio. Subito dopo Anita alzò lo sguardo e mi chiese: “Ti piace il mango?” Ne staccò uno dall’albero e me lo dette. Era dolce e succoso.
“Assolutamente delizioso”, dissi.
“È di gran lunga il mio frutto preferito – rispose lei – E non ti pare un albero bellissimo? Guarda come distende i rami quasi fossero le braccia di una ballerina; e guarda com’è verde l’erba nella sua ombra”.
Fu proprio in quell’istante che, superando il desiderio che provavo, capii di essermi innamorato di Anita. Mi resi conto proprio allora di aver trovato qualcuno che andava oltre tutto ciò che avrei mai sperato di essere. “Sì, è un albero bellissimo, un albero speciale”, risposi.
Tornando a Lubao, ci scambiammo soltanto qualche battuta. “Non sono mai rimasta da sola con un uomo, e mai con un americano – confessò – Ma mio padre ha detto che potevo restare con te, perché di te si fida. All’inizio ero molto spaventata, ma adesso sono felice di aver passato questo tempo insieme”.
“Di che avevi paura? Che ti mordessi?”
Rise. “No, no. Certo che no”.
“E allora di cosa?”
Indugiò a rispondere, e rimase ancora più indietro rispetto a me, quasi riflettesse su come meglio esprimere i suoi pensieri. Mi fermai ad aspettarla. “Di non essere all’altezza – disse – che ti saresti vergognato di me. Che sembriamo delle scimmie”.
“Oh mio Dio, Anita. Non ti rendi conto di quanto sei bella?”
“Gli americani sono belli. I mestizos sono belli”.
“No, tu lo sei”. Le presi la mano delicatamente. Era la prima volta che ci toccavamo.
“Spero che tornerai spesso”, disse, ritraendo la mano con titubanza.
“Nulla può impedirmelo”, le promisi.
Quella sera Palla-da-biliardo e io cenammo a casa del reverendo. Anita, intenta a aiutare la signora Corum, era presente come una musica leggera di sottofondo. Dopocena ci spostammo nell’accogliente soggiorno insieme a Lucio, il padre di Anita, e Hando. L’atmosfera si era fatta più intima, e discutemmo di questioni controverse e sincere, dal teatro shakespeariano e la musica sinfonica (Bartok nientemeno), celebrata attraverso la straordinaria erudizione di Hando, alla politica locale e alle riforme agrarie. Lucio, sindaco e contadino, si era laureato in agraria, di cui era uno stimato esperto. “Non dobbiamo essere avidi e impazienti” disse, parlando di un programma che stava promuovendo tra i suoi colleghi agricoltori. “Anziché raccogliere tutto il riso e consumarlo subito, dovremmo metterne da parte una quota da seminare, anche se questo significa soffrire la fame un po’ più a lungo”. Ma pochi davano retta alle sue raccomandazioni. “Non è facile sperare nel futuro, quando il presente è ancora così difficile”, sospirò.
“È vero – rispose Hando – dobbiamo prendere i giusti provvedimenti adesso se vogliamo essere padroni del nostro futuro. E non possiamo limitarci alle piantine di riso. Essenziali sono le riforme, la divisione delle haciendas e la distribuzione delle terre”.
“Non è quello che gli Huks si sforzano di fare?”, chiesi io.
“Ma stanno cercando di farlo con mezzi violenti – rispose Lucio – E questo è sbagliato”.
“La nostra gente è sfruttata da più di trecento anni”, disse Hando con veemenza; la pelle femminea, liscia e ambrata, era tesa e lucente. “Il sistema delle haciendas è troppo saldamente radicato. Non sarà mai possibile abbatterlo pacificamente”.
“Ma la violenza non conosce limite, e alla fine sono gli innocenti a pagare – ribatté Lucio con altrettanta insistenza – Se vogliamo essere indipendenti, dobbiamo anche avere stabilità.”
“Forse dovremmo prendere a modello l’America – disse il reverendo, rivolgendosi a Palla-da-biliardo – Al contrario di noi, voi non uccidete i politici durante le elezioni, e non avete la nostra corruzione. Purtroppo, abbiamo pochi patrioti, e ognuno pensa solo a se stesso”.
“Ma Roxas ci renderà uniti”, rispose Lucio, parlando del candidato alle elezioni presidenziali che si sarebbero tenute entro un anno.
“Roxas è stato un collaborazionista; ci ha traditi”, disse Hando in tono cupo.
Contagiato dal loro fervore, stavo ad ascoltare, senza riuscire a decidere chi avesse ragione. A un passo dall’indipendenza, e a un bivio per loro storico, riflettevano sul rinnovamento del loro paese, e su come correggere al meglio le vecchie ingiustizie e iniquità, saldamente consolidate. In definitiva, le loro speranze e le loro discussioni avrebbero avuto un senso?
Il reverendo Corum chiese a Palla-da-biliardo e a me se la mattina dopo avessimo voluto andare in chiesa. Rifiutammo educatamente, e lui non si offese. “Non ho mai incontrato un ebreo prima d’ora – disse – ma la vostra religione e la vostra storia sono parte della mia formazione da sacerdote. Frequentate la vostra chiesa?”
“Be’, la verità è che non pratico nessuna religione – risposi imbarazzato – Ma sono ebreo dalla nascita e voglio continuare a esserlo. Gli ebrei sono stati un capro espiatorio fin dal loro esilio da Babilonia, oltre duemila anni fa. Non posso rinnegare il passato, e mi sento in dovere di accettarne le conseguenze”.
“È molto nobile da parte tua”.
“Non lo ritengo nobile, ma necessario per il rispetto che ho di me stesso”.
“Ma gli ebrei non hanno nulla da temere in America”, disse Hando, che stava ascoltando attentamente.
“Probabilmente no. La tolleranza fa parte della tradizione americana – risposi – ma a volte mi preoccupo quando vengo additato e disprezzato per il pregiudizio dei Gentili. Da bambino ero perseguitato spesso dai miei compagni di scuola”.
“Capisco – disse Hando – quindi sei prima di tutto un ebreo?”
“Hando, non essere maleducato con il nostro ospite”, intervenne il reverendo Corum.
“Ti prego, scusalo – rispose Lucio – È spesso troppo indiscreto”.
“No, lasciate… vorrei rispondere alla domanda”, dissi. Noncurante del rimprovero del reverendo e delle scuse di Lucio, Hando teneva gli occhi chiari, penetranti e felini fissi su di me. “No, Hando, prima di tutto sono un americano”.
“Ah, come sei fortunato. Se solo potessi io essere prima di tutto un filippino”.
“E tu, Palla-da-biliardo, hai una fede religiosa?”, chiese il reverendo.
“Credo di essere ateo – rispose – ma non ce l’ho con la religione, sebbene sia la causa principale di guerre e sofferenze in tutta la storia dell’uomo civilizzato”.
“Non tanto la religione, se posso contraddirti – disse il reverendo, pedantemente, con il dito indice sollevato – ma l’uomo, in nome della religione.”
“Sì, reverendo – rispose Palla-da-biliardo, annuendo energicamente con la testa – Ammetto il mio errore”.
Tali erano le nostre conversazioni; mai ne avevo avute di così profonde, serie, e varie. Discutevamo dei sistemi politici, di comunismo contro democrazia, di psicologia, delle sorprendenti scoperte sull’inconscio umano, della ricerca da parte dell’uomo del significato della vita (che secondo Palla-da-biliardo non esiste), della crisi della fisica, del pessimismo dei filosofi contemporanei, dello sconvolgente abbandono della tradizione nella musica e nell’arte moderna, della verità della letteratura, e così via. In questo villaggio relativamente primitivo, Palla-da-biliardo e io trovammo una miniera d’oro di incredibile raffinatezza. E quale forza stava dietro a tutto questo magnifico meditare? Il reverendo Corum, naturalmente, sostenuto da due forze minori e avverse: Lucio e Hando.
Il reverendo era in continuo viaggio alla ricerca della verità della vita. In maniera schiva e discreta, ci induceva sottilmente a seguirlo, a esprimere a voce alta i nostri pensieri, senza paura di critiche o rimproveri. Ma era proibito qualsiasi attacco a persone presenti o vicine a noi. Nonostante la sua straordinaria finezza, c’era in lui una semplicità ingannevole, un qualcosa di infantile e innocente. Nei modi cortesi sembrava un santo. Non vedevo l’ora di stare in sua compagnia, di sapere la sua opinione su ogni questione, di ascoltare le sue domande. Il barrio traeva orgoglio dal suo potere discreto. Era stato lui a renderlo un enclave protetto dalle influenze esterne. Ammirava l’America, ma diffidava degli americani e dei loro modi negligenti. Amava Dio, ma raramente lo invocava. E non una sola volta, per tutto il periodo che trascorsi con lui (cinque mesi fin troppo brevi), lo sentii nominare il tenente Anderson, o parlare dello spietato comandante giapponese, o dell’inopinata morte della nonna.
Ricordo perfettamente di aver assistito, durante una visita successiva, a una discussione sulla nobiltà del sacrificio per gli altri. “È proprio dell’animo umano – dichiarò il reverendo – Non mettiamo davanti a noi i nostri figli e le persone che amiamo profondamente? Non abbiamo provato questo sentimento verso i prigionieri della Marcia della Morte? E non abbiamo avuto prova del sacrificio più estremo da parte dell’americano? Sì, credo che alla fine sarà la nostra bontà a prevalere, perché questa è la caratteristica umana più universale”.
“La storia intera mette in discussione la sua teoria”, replicò Palla-da-biliardo.
“Permettimi… se invochiamo la storia, troveremo argomenti a favore di qualsiasi opinione sulla natura umana”, rispose il reverendo.
“Scacco matto”, sussurrai a Palla-da-biliardo.
Quella notte Palla-da-biliardo dormì a casa di Hando, e io a casa di Anita, con tre generazioni in una sola stanza. Essendo io il prodotto dell’agiata classe media urbana, mi vennero in mente certe questioni pratiche. Come si poteva fare sesso, se non forse molto silenziosamente; dove si poteva avere un po’ di privacy e dov’era il bagno? Non ebbi mai una risposta alla prima domanda; dovunque fosse possibile, e raramente, fu la risposta alla seconda, mentre alla terza mi fu chiesto: Cos’è un bagno? Ci si lavava nel ruscello lì vicino, e si andava nei campi a defecare. Non mi parve cosa semplice da sopportare, ma giusto in tempo venni a sapere dell’esistenza di una latrina dietro la casa del reverendo Corum.
La mattina Anita mi servì il tradizionale riso, americano, disse, uova, e del latte di capra, un menu simile a quello offertoci da Rosalio. In un’occasione successiva, durante una visita, con mio imbarazzo e dispiacere mi offrì una bottiglia di Budweiser. Dato che la birra si trovava soltanto al mercato nero, a Lucio doveva essere costata parecchio. Ripensai a una discussione che avevamo avuto tutti insieme sulla differenza tra l’alimentazione filippina e quella americana, e mi ricordai di aver detto che le bevande preferite da noi americani sono Coca-Cola e birra. Ma non aggiunsi però che a me non piacciono nessuna delle due, tanto meno la birra. La magnanimità di questa gente non aveva limiti. Era impossibile per me non amarli.
Dopo la messa, a cui io e Palla-da-biliardo non partecipammo, fu montata una rete da pallavolo da un lato all’altro della strada sterrata. Da una parte la via era costeggiata da banani, dall’altra dal muro di stucco bianco della chiesa, dove ancora erano visibili le schegge e i fori dei proiettili esplosi per uccidere la nonna e il tenente Anderson. La partita di pallavolo, che giocammo io, Hando, Palla-da-biliardo e altri nostri nuovi amici, fu un avvenimento lieto ed emozionante, pieno di scherzi e risate, seguito da tutto la gente del barrio. Il premio per la squadra vincitrice era una stecca di Camel, messa in palio da Palla-da-biliardo. In un momento cruciale, colpii accidentalmente la rete, facendo perdere palla, e in breve anche la partita, alla nostra squadra. La mia mortificazione per aver causato la nostra sconfitta era così evidente che i vincitori insistettero per dividere equamente tra le due squadre la stecca di sigarette. La loro sensibilità ai sentimenti altrui era qualcosa di più grande di me.
Come il fine settimana precedente, e forse di più, quella domenica pomeriggio ce ne andammo con insopportabile tristezza, ma nei nostri cuori c’erano anche ricordi piacevoli recenti, e la prospettiva di altre visite come quella. Gli occhi di Anita si riempirono di lacrime quando ci salutammo, e Hando abbracciò Palla-da-biliardo. Il reverendo Corum mi strinse la mano tra le sue, e non voleva lasciarla.
Tornando a Olongapo, sul retro di un camion dell’esercito, dissi a Palla-da-billiardo la storia del tenente Anderson raccontatami da Anita. “Povero diavolo, Anderson – disse Palla-da-biliardo – È stato un atto eroico, non può non essergli riconosciuto. Appena rientriamo alla base, riferirò la nostra scoperta”. “No, non farlo – gli risposi con ostilità – Non vedi che è un simbolo per la gente del barrio? Hanno corso un rischio enorme salvandolo e tenendolo con loro. Cristo, è costato la vita alla nonna di Anita; erano pronti a tutto pur di non rinunciare a lui. Non voglio pensare a ciò che sarebbe successo se Anderson non si fosse arreso. Rappresenta una vittoria per loro. Grazie a lui hanno riacquistato il rispetto in sé stessi sebbene fossero umiliati da un nemico crudele. Guarda come il nonno di Anita si prende cura della tomba, e come la veglia”.
Palla-da-biliardo rifletté alcuni minuti sulle mie parole. “Capisco quello che dici, Hal. Consideri queste persone quasi fossero la tua gente, vero?”
“Vero. Non mi sono mai sentito così a mio agio, così integrato come fossi uno di loro”.
“Lo vedo, ma non è questo che intendevo dire – Perplesso, aspettai che continuasse – Sono come gli Ebrei contro il mondo. Tu, la tua gente, e loro avete sofferto e ancora soffrite, e vi rifiutate di essere sottomessi. È questa, credo, la ragione della vostra attrazione reciproca; è questo che avete in comune”.
Confuso, sorpreso, farfugliai: “Forse hai ragione. Non ne sono sicuro. Devo pensarci”.
“Tornando a Anderson, pensaci, Hal – disse Palla-da-biliardo – Non credi che la famiglia vorrebbe avere i suoi resti? Non è giusto che anche loro sappiano quale atto eroico e meritorio ha compiuto, che persona straordinaria fosse? Forse ha lasciato una moglie, o un figlio, che potrebbero essere orgogliosi di lui per il resto della loro vita, se solo sapessero. E poi dovremmo privare il nostro paese della possibilità di onorare i suoi eroi?”. Fissai Palla-da-biliardo in silenzio. Quando arrivammo al molo a Olongapo, ancora non avevamo deciso. “Va bene, Hal – disse – seguirò la mia coscienza. Anch’io, come te, credo che Anderson fosse prima di tutto un americano, e che debba quindi tornare a casa. Racconterò la storia di Anita”.
Fece così, e io non mi opposi.

(1)(n.d.t.) Termine spagnolo per “meticci”. Nelle Filippine, la parola mestizo fa riferimento in generale a coloro che hanno un genitore di discendenza diretta filippina e l’altro di una qualsiasi altra nazionalità straniera.

(2)(n.d.t.) Il carabao è una specie di bufalo indiano diffuso soprattutto nel Sud-Est Asiatico e nelle Filippine (di cui è animale simbolo), ed è utilizzato dalle popolazioni locali prevalentemente come animale da soma.

traduzione di Silvia Volpi

Inizio pagina

Home | Archivio | Cerca

Archivio

Anno 4, Numero 16
June 2007

 

 

 

©2003-2014 El-Ghibli.org
Chi siamo | Contatti | Archivio | Notizie | Links