Nota biografica | Versione lettura |
Uscendo dallo studio notarile nel quale sono stata convocata, mi ritrovo nella strada ampia e alberata che costeggia un grande giardino pubblico. Oggi ho tempo, decido di camminare. Non ero mai stata in questo quartiere residenziale, sembra un’altra città. Ci vive davvero qualcuno qui? Qualcuno che mangia, dorme, sbadiglia, lavora, piange, ride, sporca e pulisce, litiga, scopa.
I rari passanti accrescono il senso di irrealtà. Incrocio qualche governante dall’aspetto ordinato. Un anziano signore a passeggio sfoggia un paletot cammello e un bastone elegante quanto inutile. Un residente esce frettoloso di casa con l’aria di chi ha degli affari urgenti da sbrigare. Saluta con un cenno rapido e un sorriso da rotocalco un altro uomo che sembra assolutamente identico, come in un Magritte.
Dal giardino mi raggiungono voci infantili, grida, risate. Qui fuori è un mortorio, decido di attraversare il parco. Estranea, mi avvicino alla zona centrale, più affollata. Un ragazzino corre incontro a quello che immagino debba essere il nonno, con l’aria di chi desidera mettere a parte un amico importante di una nuova scoperta.
Un nonno. Mi viene in mente Anita.
* * *
“Volendo risalire alle mie origini, devo arrestarmi alla generazione precedente alla mia: mio padre e mia madre”, mi dice un giorno Anita, dopo una pausa di silenzio. Mi racconta che i nonni non li ha mai conosciuti, fatta eccezione per quella volta in cui da bambina incontrò sua nonna paterna. Era molto piccola, forse tre anni, però la ricorda quell’estranea sbiadita. Con l’età i colori si attenuano. Della madre di suo padre le resta l’immagine di un vetro che col tempo si è opacizzato.
Doveva essere Natale, oppure Pasqua, le due occasioni nelle quali la sua famiglia si riuniva con i parenti del padre, che vivevano in un’altra città, all’altro capo del Paese. La madre di suo padre (così la chiama Anita), senza aver dimostrato prima altri segni d’attenzione, a un certo punto l’aveva presa sulle ginocchia e aveva cominciato a fare cavalluccio. Ad Anita le sue moine erano sembrate fuori luogo: “Non ci eravamo mai incontrate prima, lo capisce anche una persona di tre anni”. La nonna aveva anche cercato di baciarla, malgrado lei la respingesse. Era sua nonna, le avevano spiegato, ma per lei era solo la madre di suo padre. Non la rivide mai più, la nonna morì l’anno successivo. Anita dice d’aver provato, chissà perché, una specie di nostalgia, quando le dissero che se n’era andata. Suo padre non ne parla molto. Le rare volte che dal discorso trapela Mammà, i suoi occhi sono attraversati da un brillio che in un attimo si fa languore. Poi passa. “Chissà chi era quella donna che io ricordo opaca”, dice Anita.
Il nonno paterno di Anita morì giovane, molto prima che lei nascesse. Pare che dalla guerra, la prima, si fosse portato a casa un male cronico e all’epoca incurabile. I polmoni? Le ossa? Su questo c’è vaghezza, suo padre non le ha mai detto nulla e sua madre si è limitata a poche mezze parole. O forse è Anita che fatica a ricordare di cos’è morto quest’uomo che non ha conosciuto. Ha visto le fotografie nel mucchio dei ritratti di famiglia. Così li chiama sua madre, che li conserva tutti, mi dice Anita. “Anche quelli dei parenti di mio padre, che quelle foto non le guarda mai”. Mi mostra una folla di gente che non si è mai incontrata e che non si somiglia. Due famiglie diverse e forse più di due ora disperse e ammucchiate dentro scatole di latta. Senza saperlo, senza averlo desiderato, nemmeno immaginato. Lo sguardo di Anita è smarrito: “Li guardo, e non so chi sono”.
Una faccia liscia e rotonda, quella del padre di suo padre. Anita ci ritrova i lineamenti di uno dei suoi fratelli, guarda caso quello che non porta il nome del nonno. Lineamenti che, tuttavia, non sono mai riusciti a renderle familiare la faccia statica di quelle istantanee d’altri tempi, né a suscitare in lei curiosità. Il padre di suo padre era un liutaio, di lui Anita non sa molto di più. Quando non lo immagina come nelle fotografie, con un accenno di sorriso, immobile, come se il tempo si fosse fermato e non dovesse accadere più nulla, lo vede al suo banco di liutaio, un camice indosso, intento a creare una viola. “Perché proprio una viola non lo so”. Di lui il padre non ha mai parlato molto. Però a volte, da frammenti di racconto, lascia affiorare quell’uomo – E allora gli dissi “ Voi, Papà…” – che a Pasqua faceva o diceva quello e a Natale faceva o diceva quell’altro. Gli occhi del padre di Anita allora sono un po’ lucidi, e il suo sguardo lontano e nostalgico. Il padre di Anita queste poche cose le racconta a Natale e a Pasqua.
Della famiglia di sua madre Anita non ha mai incontrato nessuno, né i nonni né altri. Il padre di sua madre morì abbastanza giovane d’un cancro intestinale, poco dopo la guerra, la madre di Anita era ancora ragazza. Era ufficiale dell’esercito, andava a cavallo, giocava a scacchi, frequentava la buona società. Anita non sa molto di più. Le foto mostrano un uomo quasi sempre in divisa, dalla carnagione scura, i capelli folti e crespi, il naso largo alla base, le labbra carnose, gli occhi intensi. Una faccia d’altrove. Sono queste le uniche foto che suscitano in lei qualche curiosità, perché quell’alterità rimarca un vuoto che lei non sa colmare, quello che la separa dai suoi antenati. Le ho viste anch’io quelle foto, ancora ricordo lo sguardo della mia amica nel porgermene una. Sembrava una domanda. Anita non somiglia al nonno, non mi parve, ma non posso nemmeno dire di non aver trovato alcuna somiglianza.
Di tutti i nonni, sconosciuti, la madre di sua madre è quella nella quale si coagula invece il suo senso di estraneità. Di lei ha più notizie, perciò si è fatta qualche idea, forse sbagliata. Mi ha raccontato che sua nonna era una donna spigliata, con l’ambizione comprensibile di vivere meglio che poteva. Il primo fidanzato della nonna era un buon partito. E molto bello, dice Anita, guardando una sua foto. Morì al fronte, prima delle nozze, che forse non erano state ancora fissate. Così finì che la madre di sua madre sposò il fratello del suo fidanzato. Insomma, si sposò con la buona società. Fu un piccolo scandalo, ma di quelli che passano in fretta. Fecero trascorrere il periodo necessario, secondo le convenzioni. Poi si fidanzarono ufficialmente e si sposarono. Il matrimonio pose fine ai pettegolezzi. Assolti. “La gente che si sposa gode di un rispetto maggiore”, commenta Anita, tagliente.
Sua nonna materna rimase vedova ancora relativamente giovane. Destino? Si moriva di più anche qui da noi, a quel tempo. Non si risposò: a che serviva ormai? Ma Anita non esclude che abbia avuto degli amanti. In seguito alla morte del nonno di Anita, sua madre dovette interrompere gli studi e cominciare a lavorare. Per la famiglia e per il fratello gemello, che, essendo maschio, doveva assolutamente completare gli studi universitari. Gemelli! Come sono false a volte le parole. Di questo zio Anita fatica a ricordare il nome di battesimo. Franco? Federico? È il nome di un estraneo, in fondo. Una volta telefonò. Il caso volle che fosse Anita a rispondere. Le chiese perché gli desse del lei e non lo chiamasse zio. Anita quasi non ci pensò, ha la pessima abitudine di dire la verità. La trova più facile, comoda, meno complicata. Rispose: “Perché non ci conosciamo”. Poi disse arrivederci e gli passò sua madre.
Dopo essersi sistemato – un buon lavoro, una bella moglie – il fratello della madre di Anita fu trasferito in Eritrea dalla compagnia per la quale lavorava. Dopo qualche tempo, lo raggiunsero la moglie e la madre. Lo zio di Anita doveva avere un ottimo stipendio, che permetteva a sé e alla sua famiglia un tenore di vita elevato. “Ce la vedo mia nonna a fare la padrona bianca!”, mi ha detto una volta Anita, pungente come al solito. L’unica cugina di Anita da parte di madre, che lei non ha mai conosciuto e della quale non ricorda il nome, nacque lì. Di lei sa che era bella, ha visto una sua foto. Somigliava al nonno e non volle mai venire in Italia. Restò laggiù, dove era nata, e lì morì, ancora giovane. Anita non dispone di altre notizie. Credo che nemmeno sua madre abbia mai saputo di più. Una brutta storia, si vede.
La nonna di Anita non morì giovane. Aveva più di novant’anni, forse novantasei, quando morì. È un’altra la ragione per la quale Anita non l’ha conosciuta. Ha pensato a lungo – glielo hanno fatto credere – che la famiglia di sua madre vivesse molto lontano, in Eritrea, già da prima che lei nascesse, e che per questo lei non aveva mai potuto incontrarla. Tanto che una volta chiese, con l’ingenuità dei ragazzini: “Perché non facciamo un viaggio in Eritrea?” Suscitando una canzonatura imbarazzata. Ai bambini si fa credere che dicano delle sciocchezze, quando non si sa come replicare. Invece sua nonna, suo zio e la moglie dello zio erano già rientrati che Anita avrà avuto una decina d’anni, e si erano sistemati nella Capitale, dove lei andò per la prima volta molto più avanti, quando la nonna non ci viveva più già da un pezzo.
Un bel giorno sua madre, di punto in bianco, nel bel mezzo del nulla, le dice: “Sai, devo dirti una cosa”. Anita frequentava l’università, o forse c’eravamo addirittura laureate. La madre di Anita comincia a raccontare, come se fosse acqua, che sua madre non è morta e non si trova in Eritrea. Vive in Italia, da molti anni. Prima era vissuta nella Capitale, poi il figlio – il fratello della madre di Anita – si era trasferito in una grande città del nord e “la nonna” (a volte la madre di Anita la chiama così, ma più spesso dice “mia madre”) era stata collocata in un elegante pensionato per anziani di una cittadina vicina al luogo in cui era nata, essendo piuttosto avanti con gli anni.
Perché diavolo veniva a saperlo soltanto ora? In breve, suo padre e sua nonna non si erano mai piaciuti. Tra di loro le cose non funzionavano, si stavano reciprocamente sul gozzo. La nonna di Anita, a quanto pare, avrebbe preferito che sua madre sposasse un uomo del suo stesso livello sociale, cioè quello che lei aveva acquisito con il matrimonio. Il padre e la nonna di Anita avevano entrambi un pessimo carattere, nessuno dei due era del tipo che smussa gli angoli. Raggiunta la portanza, successe qualcosa, ci fu un diverbio, Anita non lo sa con esattezza. Fu una faccenda dai toni gravi, sembra. La madre di Anita fu costretta a scegliere: o sua madre o il padre di Anita. Ovviamente scelse il marito. Non si videro mai più, il padre e la nonna di Anita. All’epoca lui sentenziò: “Non voglio vederla mai più, dovrà stare lontana dalla mia famiglia, non conoscerà mai i miei figli”. Forse non si rese conto che in questo modo i nipoti non avrebbero conosciuto la nonna. O forse sì, e ritenne che fosse meglio. In seguito la nonna di Anita partì, per raggiungere suo figlio in Eritrea.
La nonna materna dunque era viva, in buona salute e si trovava a poche ore di treno. La madre di Anita in realtà aveva mantenuto un contatto. Taciuto, più che segreto. “Vorresti conoscerla?” “No”, disse Anita alla madre. No grazie. Perché andare a conoscere una persona che le era estranea, che aveva creduto ormai morta da un pezzo, in un altro continente? Una donna che non le aveva mai scritto una riga, mai spedito una cartolina, o un ricordo. Una donna alla quale probabilmente non importava nulla dei figli di suo genero. Messi insieme i fatti che sapeva, ci volle poco perché Anita cogliesse di sé l’immagine di una specie di bastarda, di nipote illegittima, qualcosa di cui volentieri si fa a meno di parlare, alla quale addirittura si evita di pensare. Ma sulle prime non riuscì a sentirsi offesa, in fondo non riusciva a credere del tutto a questa storia fuori da ogni logica e da ogni umanità. A lungo continuò a pensare a sua nonna come a un’entità irreale, e tutta quella storia le sembrava una trama assurda. Ma, a fatica, la nozione dell’esistenza in vita di quella donna riuscì infine a trovare posto da qualche parte nella sua mente. Posticcia e indelebile come un alone giallastro su un vecchio telo.
La madre prese poi a raccontare più spesso di sua madre. Cominciò a farlo ogni volta che andava a trovarla, non proprio di nascosto ma senza dire nulla. Spariva per qualche giorno, e Anita sapeva che era andata là. “Dov’è andata mamma?” “Torna tra qualche giorno”. Ma lei adesso sapeva. Restava un’atmosfera tesa, e gli sguardi di tutti si evitavano. Una volta la madre di Anita si trattenne da sua madre per qualche settimana, ma non diede spiegazioni. Al ritorno, riprese come al solito il racconto dove l’aveva lasciato la volta precedente. Di questo racconto di sua madre, faticoso come un film tutto a flashback, probabilmente Anita tratteneva soprattutto la parte che più soddisfaceva la delusione e il risentimento che poco a poco avevano preso il posto dell’indifferenza. Cominciò a prendere corpo l’immagine di una donna egoista, insensibile, vanitosa, tirannica. Che ragione poteva esserci di andare a conoscerla?
Il fratello maggiore di Anita, che immagino fosse attraversato da pensieri e sentimenti simili, decise finalmente di andare a conoscere sua nonna, prima che morisse. Non era malata ma era ben più che novantenne, restava poco tempo. Lo disse a sua madre. Al padre no, non era il caso. Quando Anita venne a saperlo, sulle prime le sembrò l’ennesima assurdità. Ci pensò a lungo, l’idea le ripugnava, e allo stesso tempo era curiosa. Che cosa avrebbe detto? Come si sarebbe comportata? Si chiese perché non andare a incontrare l’unico appiglio in vita alle sue origini, un ramo dei suoi antenati. La risposta fu semplice: “Non riesco a considerare me stessa sua nipote”. Sua nonna era un’estranea. Che restasse una foto, un film, una storia assurda!
Dopo mesi, infine, Anita si decise anche lei, si fece forza, o piuttosto si sforzò. Decise che sarebbe andata a incontrare quella donna, la madre di sua madre. La vecchia morì pochi giorni dopo, prima che Anita potesse realizzare il suo intento. Vogliamo chiamarlo destino? Anita era risentita, come se quello fosse l’ennesimo dispetto. Ma riflettiamo: era del tutto normale, ormai aveva quasi cent’anni. Cent’anni e Anita non l’ha mai conosciuta.
Di tutti i fratelli di Anita, il maggiore è stato l’unico ad aver incontrato la madre di sua madre, ma possiamo dire che la conobbe? Chissà cosa ne pensa di tutta questa storia, non ne abbiamo mai parlato io e lui. So che dopo l’incontro fece solo una brevissima cronaca, scarna. La nonna era come l’avevano immaginata. L’incontro fu pura finzione di parentela, in pratica come prendere un tè con un’estranea. Come se niente fosse, fosse stato.
Anita sa di somigliare a sua madre, e la madre di Anita somiglia alla nonna. Ma io ho visto anche quelle di foto. Anita ha ragione, le somiglia soltanto nei colori, alla madre di sua madre. “Di lei mi restano appiccicati addosso, come una maledizione, questi occhi verdi”, mi ha detto. Su lineamenti che raccontano tutt’altro, una storia che Anita non conosce.
* * *
Ho attraversato tutto il parco. Varcato il cancello, mi trovo su un viale sontuoso, un susseguirsi di vetrine sfavillanti. Ormai il giardino pubblico si è svuotato, è ora di rientrare al tepore delle abitazioni, di cenare con posate stylé, di riposare tra lenzuola di seta. Pochi ritardatari si affrettano. Lo sfavillio delle vetrine continuerà per tutta la sera e la notte, come di giorno, a esibire nulla al nulla.
Il notaio mi ha convocata per leggermi il testamento di Marcello. Non sapevo, non lo vedevo ormai da tre anni. Lui, terminale malato di una stirpe, ha scelto di lasciare la villa a me, non più compagna, non-madre dei figli che non ha voluto. La villa di famiglia, così la chiamava sempre, così ha scritto nel testamento.
Con sollievo svolto un angolo e mi porto verso luoghi più umani. Dove abito io la gente è normale. Puzza se non si lava, sbadiglia perché è stanca, rientra a casa con il trucco sfatto, la mattina esce presto, e va al lavoro con il tram. Non hanno pedigree né ville di famiglia, ma trisnonni, e ricordi da tramandare a figli e nipoti.
È buio ormai. Di rientro dal lavoro, i passanti, qui più numerosi, mi gettano uno sguardo, come si guarda uno che rientra dall’aldilà. Forse sul viso porto ancora l’impressione del luogo incongruente da quale provengo? O forse quella della storia di Anita, che si stenta a credere. Un venditore ambulante si avvicina. Sorridendo, mi mostra dei libri: le leggende e i miti del suo popolo, dice. Vorrei chiedergli “Da dove vieni?” Mi esce di bocca “Chi sei?” Risponde: “Mi chiamo Abdelkadir, sorella”. Credo che abbia ragione.