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una liturgia

gabriela fantato

A mia madre

I.

Il tuo sorriso è una riga sul foglio
a quadretti dell’infanzia e si spalanca
la richiesta – vieni domani? – verrò
come la pioggia che si annuncia nell’odore
del cielo, ma la terra l’aspetta per lavare
il secco che la taglia al centro.
La pioggia altera la combinazione,
gli atomi si lanciano dentro la tua gola
in cerca del mio abbraccio e la pazienza
lo coltiva dietro la spalla di donna,
dentro il tuo cuore che invecchia
e sale di corsa alla cima
– ti prenderò in tempo per il nostro girotondo? –

II.

Ti stringi i giorni alle caviglie, tocchi
la ferita dove il camion ti ha schiantato
ai fianchi, dove la polio ti ha preso
la corsa e ha dettato la sua legge nell’osso
troppo bianco per vincere.
Non smetti di sognare i campi d’acqua
a est della casa – con le stanze per il cibo
a piano terra, sopra dove
si dormiva – insieme per non scordare il giallo
dentro i primi anni, i primi aerei
di una guerra. È stata corta la tua infanzia
di geloni e una primavera senza le calze
non bastava a tenere la morte
lontana. Il fronte un buco nel camino e
svanivano tutti i racconti.

III.

Il destino ti voleva ripiegata come
una storia che nessuno
vuole portare con sé. Io ero il gelso nel cortile,
tu una radura dietro il campo e una
gran voglia di scappare.
La strada del gallaratese passa ancora
tra i fossi, oltre il cemento delle case
cresciute di fretta nel Settanta, come un albero
nel bianco d’autunno.
Adesso mi dici – la domenica è il giorno
più lungo dentro la testa –
lo so, si fa fatica quando le ore sono
un conto che si tira dritto tra
la sedia e un’altra.

IV.

La porta di casa adesso è solo una linea
nel perimetro – soglia non più aperta –
e il tempo coltiva la sua liturgia,
ordine esatto tra quaggiù e il cielo.
Dentro lo spazio non è metri e angoli,
ma una piega dove ti siedi la mattina e resti.
La stanza, un salto a occhi chiusi
– c’è sempre un altro gesto da fare –
ma non lo conosci, sei ancora la bambina
dell’incanto, i piedi insicuri nel disegno.
Nella notte ti fai tenace, come il gufo
sgomento della brevità dei sogni.
Le ore stanno chiuse nel fazzoletto
e non cresce più l’infanzia nemmeno
nei ricordi. Nemmeno se la chiamo per nome.
Lavori a maglia, cuci la colpa alla tua gioia.
Io siedo ostinata a far girare il mondo
dove crescevano le rose
della nostra promessa.

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Anno 3, Numero 15
March 2007

 

 

 

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