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ti corono di vita

melita richter

Lì il mare settentrionale, argento vivo spumeggiante
qui tra le tue mura
al riparo da ogni vento fuori misura
fremo con te, fazzoletto di terra sorella.
Ghetto. Che vile nome ti hanno dato.
Di una ignobile vergogna universale hanno battezzato
e segnato il tuo corpo ritto per disperderlo come granelli di sabbia
in un deserto dell’anima. Che rabbia.
Fazzoletto di terra straniera, io foresta ti corono di Vita.
Tu tremi di memoria ed io ti stringo sottobraccio priva di una patria.
A quattro gambe camminiamo per le vie dai nomi garbati
la via del Pane, dei Rettori, del Ponte,
più in là ancora la via del Monte.
Mesta seguo il richiamo del tuo crinale non dimentica della buia violenza
che ti ha usato la soluzione finale.
Ha divelto le tue porte, messo a soqquadro i luoghi sacri,
reso apolide ed errante la tua gente.
Una storia troppo pesante.
Tu bruci di febbre ed io con te rabbrividisco
in quest’inverno inciso sulla campana muta di cristallo.
Se devi urlare, fallo.
Ti ascolto, fazzoletto di terra amica. Io ti corono di Vita.
Seguo il richiamo di un serpente di plastica con dentro lumini minimi,
un oggetto banale dimenticato da Silvestro o precursore del Carnevale
che avvolge gli angoli delle case dai coppi molli e li fa vibrare
e come fosse un cordone ombelicale
mi unisce a te.
Mi chiedo: come te la passi tra i libri antichi e le credenze scrostate
con in fila le coppe scoppiate di vetro sottile,
come te la passi tu così signorile
con questa storia fasulla adagiata in poltrone di pizzo che sanno di muffa?
Che dici quando avverti la grassa presenza di truffa?

Per le vie del borgo padroneggia Febbraio e lava la pietra lisa.
La luna s’affaccia di cera sul mare nero che sputa la bava.
Sotto l’insegna di ghisa
tintinnano le lanterne rosse annunciando profumati involtini di primavera.
Si sparpagliano nella notte le schegge di scoppi di riso.
Noi due, fazzoletto di terra,
creature della stessa madre chimera sorridiamo sotto i baffi;
abbiamo voglia di vino, di festa,
perché io foresta
mi specchio nel tuo viso sorella
e ti corono di Vita.

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due maggio duemila due

melita richter

                                                                a Izet Sarajlic

“Oggi è morto il poeta”.
Me lo hanno detto a bruciapelo
senza avvisi di pietà.
Mi hanno colto in una Amburgo nordica 
che sa di aringhe e di paprika
Amburgo umida e vischiosa
Quando successe, camminavo adagio.
ed il raggio di primavera non aveva ancora schiuso minuscole corone di fiori di maggio. 
Correva il giorno due di quel mese dell’anno duemiladue.
Io, occhi di bue
sentii le spille di ghiaccio nell’anima.
Nella falla del petto vibrava sommerso il tuono:
Il poeta è morto.
Il maestro se n’è andato.
Colui che serbava raccolto nel suo nome il nome della città adorata:
Sarajlic di Sarajevo.
Un connubio d’annata, davvero unico. 
Izet si è spento.
Dove poteva andarsene lui che più di ogni altro luogo amava la sua città                                                                                                        
e non la lasciava neppure quando il barbaro,
il non-uomo la cinse con terrore, con fame, con nefandezza,
quando le granate scalfirono la sua bellezza,
ma lei non s’arrese?
Il poeta di nazionalità sarajlija-sarajevese,
dove si sarà diretto? quale via prese?
Lui non ha mai fatto a gomitate per entrare nel nuovo millennio
perché nel secolo passato aveva già vissuto tutto; 
tutto il bene e tutto il male dell’Universo.
Tutto ha avuto e tutto ha perso.
L’Amore più grande della sua vita, la Poesia, il serto,
la guerra, l’assedio, la morte dei suoi cari. Un dolore di cui non vi è pari.
                                                                                                      
Ha perso la casa, le strade, gli amici, ha perso le betulle, gli uccelli, ha perso il suo popolo ritto. L’ha smarrito. 
E poi, a dire il vero, l’ha ritrovato; taluni all’estero, altri al cimitero.
Il commiato da ognuno di loro fu in parte anche il suo avviarsi.
Artefice del più struggente libro dei libri degli addii
invidiava Tolstoj che poteva andarsene a raggiungere la morte da qualche parte ad Astapovo, 
dopo aver intuito che il Progetto in cui credeva era svanito e nulla si era realizzato.
                                                                                                         
Allora Izet, quercia abbattuta, si contorceva:
E noi, dove possiamo andare?
Non c’è in tutto il paese una qualche Astapovo, né una morte
Nella quale poter rifuggire
Da questa follia.

È morto l’uomo che ha vissuto in balìa di speranza, di sogni, di Utopia.
È morto il poeta-patria. 
Mia.

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Anno 3, Numero 14
December 2006

 

 

 

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