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il pranzo pasquale

gabriella ghermandi

La finestra della nostra camera da letto, unica camera da letto della nostra microscopica casa, affacciava sulla strada. Di fronte, dall'altra parte della strada, c'era una casona detta “dei ragazzi”. Una lunga casa gialla, a due piani, con porte e finestre verdi, nella quale vivevano un miscuglio di adolescenti stranieri. Gli Italiani li chiamavano “ragazzi devianti”, cioè ragazzi con dei problemi, a rischio di diventare delinquenti. Per questo erano stati messi lì. Noi, invece, li chiamavamo “i nostri ragazzi della casona”.
Nella casa per stare appresso a loro e “indirizzare le loro attività”, si alternavano dei tutori scelti dall'azienda sanitaria locale.
Due dei ragazzi della casona, due fratelli marocchini di nome Yousif e Abdelkader, erano considerati da noi stranieri come “i figli del rione”. Li avevamo fatti crescere noi. Non c'era casa in cui non fossero entrati per bere, mangiare o farsi regalare qualche soldo per comprarsi vestiti alla moda, al mercato del sabato.
Nel rione, la comunità degli stranieri, che lo occupava quasi per intero, aveva vissuto in armonia fino all'anno precedente, quando un gruppo di adolescenti albanesi, quattro maschi e una femmina, erano stati messi nella casona “dei ragazzi”. Da allora erano cominciate le inquietudini. Gli Albanesi e “i figli del rione” facevano a cazzotti. Ogni mattina.
E ogni mattina i tutori, mezzi addormentati, scendevano in strada ad attendere. Poco dopo la loro comparsa, una volante della polizia con la sirena che squarciava l'aria, arrivava a spron battuto. Si arrestava bruscamente davanti al cancellino verde e ne uscivano due poliziotti, con manganelli e quant'altro, che, sempre a cazzotti, separavano i ragazzi.
Tale episodio, che stava prendendo l'andamento di una consuetudine, aveva messo in subbuglio l'intero rione. Per due motivi. Il primo per la naturale preoccupazione verso “i figli del rione”. Con ogni mezzo e in ogni modo si era provato a far confidare loro la causa di quelle liti dell'alba, ma ogni tentativo, anche quelli fatti dalle anziani che loro chiamavano madri, come mia nonna, non aveva dato alcun esito positivo. Anzi, aveva peggiorato la situazione. Per ogni tentativo si era solo ispessito il manto scuro in cui avvolgevano il motivo di quelle liti.
Il secondo consisteva nel fatto che a nessuno piaceva vedere la polizia nel rione. Chi davanti alla polizia non viveva un sussulto di paura? Chi non si sentiva quello strano formicolio alle gambe che induce al movimento allegro e crescente che ti porta verso un altro luogo, un luogo il più lontano possibile dalla loro vista? Essere onesti, i più onesti del mondo, davanti a loro non ti leva di dosso un altro crimine, il più indelebile, quello di essere straniero. Del sud del mondo.

Purtroppo, invece che sciogliersi nel sole mite dell'autunno, la causa di quelle liti mattutine si inasprì, ed esse diventarono una normalità quotidiana a cui, infine, ci dovemmo abituare.
Ogni mattina, alle sette quasi in punto, con una oscillazione di una decina di minuti solamente, il silenzio del quartiere veniva lacerato dalla sirena della volante che bucava l'aria come un coltello buca un tessuto e lo squarta per tutta la lunghezza.
La puntualità dell'accadimento era tale che la gente del rione smise di usare la sveglia. Transitò l'inverno e alle porte della nostra Quaresima Pasquale, la sveglia del quartiere era ancora la sirena della volante. E sempre con la medesima situazione giungemmo alla vigilia della Pasqua, che quell'anno, per il volere degli astri, coincideva con quella Cattolica.
E proprio in virtù della congiunzione favorevole, nonna Berechtì aveva pensato al giorno di Pasqua come a quello deputato per invitare, anzi, vagliare il mio fidanzato bianco.
Come al solito la sera prima del gran giorno nessuno di noi aveva puntato la sveglia.

La mattina seguente nonna Berechtì si era svegliata sazia di sonno, e aveva pensato che fosse ancora presto, dato che il suono stridulo della abituale sveglia non si era sentito.

Nonna Berechtì si era girata verso destra a controllare il sonno di mia madre, che dormiva nel letto matrimoniale con lei, e poi verso sinistra, dove c'era il letto singolo in cui dormivo io; quindi si era alzata ed era andata ad affacciarsi alla finestra.
Quello che vide era così sorprendente che per la meraviglia lanciò un urlo: “Woi Gheta! Woi Fetarì! Venite a vedere. Smettetela di dormire e venite a vedere”.

Sulla strada, davanti al cortile della casona, c'era la solita volante. Lo sportello del guidatore era chiuso. Dal finestrino si intravedeva il guidatore: giaceva quasi sdraiato, con il sedile reclinato. L'altro sportello era aperto. Il secondo poliziotto era sceso e stava davanti alla rete di recinzione della casona. Dall'altra parte la ragazza del gruppo degli Albanesi. Con una rosa fatta passare attraverso i rombi della rete, il poliziotto le accarezzava il volto. I due parlottavano e si guardavano.
Stavano amoreggiando.
Al limite opposto del cortile, con la schiena appoggiata al muro del caseggiato e il sedere per terra, stavano seduti in fila i ragazzi albanesi assieme a Yousif e Abdelkader. Ridevano tra loro osservando la strana coppia. Yousif e uno dei ragazzi albanesi si davano gomitate complici. Credo che tutta la gente del rione, con le finestre in quel punto, stesse osservando la scena. Tutti stupefatti come noi.
Nonna Berechtì staccò gli occhi dagli innamorati per cercare quelli della sua amica, nella finestra della casa confinante con la casona. Anche la sua amica fece lo stesso.
Gli occhi delle due donne si incontrarono in un dialogo gestuale. Nonna Berechtì alzò gli occhi al cielo. Voleva dire che quella lieta faccenda era uno dei grandi e piccoli miracoli che il Signore si compiaceva di elargire nel giorno della sua Resurrezione. L'amica assentì.
Poi nonna Berechtì si girò verso di me e disse con l'aria da guerriera: “Oggi il Signore è di buon umore. Chissà che non ci sia qualcosa di buono anche per te. Vai a prendere quel tuo fidanzato bianco e vediamo...”.
“Cos'hai cucinato?”, chiesi cercando di celare la mia preoccupazione “Il solito di Pasqua: dorò wot, ye beg wot, e poi il letto di cipolla con qualche pezzo di peperoncino per il tibsi che salteremo al momento”.
“L’hai fatto molto piccante?”.
“No figliola, il giusto” rispose, ma io non le credetti.
Ero ormai avvezza alla sua abitudine di mettere sotto esame e sbaragliare tutti i pochi fidanzati bianchi che avevo avuto attraverso il piccante.
Andando in bagno gettai un’occhiata nella padella dove c'era il preparato di cipolla per il tibsi. Un impeto di rabbia mi invase.
Di solito il tibsi si salta su un letto di cipolla con qualche pezzo di peperoncino verde, ma quella roba era un mare di verde in cui il dorato della cipolla saltata non si intravedeva neppure. “Nonna!”, gridai.
Lei non si mosse dalla camera. La raggiunsi furiosa. “Il preparato per il tibsi è tutto peperoncino verde!”
“E allora” rispose serafica
“E allora? Allora non ti è neppure bastato metterne così tanto, hai pure scelto quello piccolo dei Pakistani, che non riesci a mangiare neppure tu”.
Lei si voltò verso di me in tutta la sua possanza: “Un uomo, che non sa resistere al piccante sulla lingua, non saprà resistere neppure al carattere speziato delle donne etiopi”, disse. Non replicai nulla. Tanto era inutile. Andai verso il bagno attaccandomi all'idea che Lui era abituato al piccante. Non ci eravamo forse conosciuti al ristorante Africa? E Kidane, il proprietario, non mi aveva forse detto che era un vero Habescià che mangiava piccanto quanto e più di noi?
Mi lavai con questo pensiero, mi vestii con questo pensiero e uscii sbattendo la porta, innervosita al pensiero di quel mare di fuoco verde che galleggiava nella padella.

Io e Lui avevamo appuntamento a porta San Felice. Da lì saremmo andati in centro ad incontrare Taifur, Awet e Titti, poi, trascorsa la mattinata, saremmo andati a casa mia, per il terribile esame.
Quando giunsi a Porta San Felice Lui mi attendeva alla fermata. Scesi.
“Allora – mi chiese abbracciandomi – è oggi il giorno in cui subirò il terribile esame?” “Non scherzare. Sono preoccupata. Mia nonna è tremenda. Non so come potrai uscirne. Sai, ha fatto la base per il tibsi verde. È tutto peperoncino piccante”.
Continuando ad abbracciarmi cercò di farmi ridere: “Non ti preoccupare, lo sai che sono abituato al piccante. Non ho forse te da mordicchiare?” “Dai, scemo!” dissi ridendo, volevo aggiungere qualcos'altro, ma stava arrivando l'autobus e lui mi tirò per la mano: “È il tredici, saliamo.”
Nell'autobus ci posizionammo vicino alle porte d'uscita, a fianco a una coppia di anziani.
Dopo qualche metro mi accorsi che i due anziani avevano gli occhi scintillanti di bambini in perlustrazione di un nuovo territorio.
Con lo sguardo scandagliavano i negozi sotto il portico.
L'uomo, piccolo, sottile e distinto nel modo di vestire, ad un certo punto, quasi con un saltellino euforico, disse alla donna: “Guarda, c'è ancora la vecchia pizzeria Amore”. Lei, altrettanto piccola, con un'aureola di ricci azzurrognoli e un leggero cappotto rosso, replicò: “Di certo non ci saranno più i proprietari di allora. Forse lo gestiranno dei nipoti”. “Forse l'hanno venduta ma il nome è rimasto quello di allora – disse lui, e dopo un attimo di riflessione – chissà se la pizza è buona come ai vecchi tempi. Ricordi Anna?”. “Certo, come potrei essermene scordata. Pizza piccola e fragrante!”. E lui: “Ricordo le volate per l'ultimo bicchiere di grappa, alle due di notte, quando chiudevamo il negozio il sabato sera. E Mimmo, il proprietario della pizzeria, ci dava qualche triangolo di pizza riscaldato perchè la grappa a secco, a quell'ora di notte, buca lo stomaco, diceva lui.”
“Eh! A quei tempi eri ancora signorino. Io non ti ho mai permesso di bere a quell'ora di notte, da sposati”.
L'autobus avanzò di qualche metro nella caotica via San Felice e i due anziani, Anna e... , il marito, continuavano ad immergersi nel passato, come un piccola barca a vela che appare e scompare tra le onde dell'oceano.
“Ecco – disse lui d'un tratto – lì c'era il mio negozio. Cioè, il negozio in cui facevo il commesso. Il miglior negozio di guanti, cappelli e bastoni da passeggio di tutta Bologna. Ah! Che tempi”. Qualche metro dopo, lei puntò il dito per segnalare un piccolo negozio, quasi al termine della strada: “Carlo, guarda, c'è un negozio indiano. Guarda che colori... . Prima c'era una filatelia, grigia, come la pelle del suo proprietario.”
“Non ricordo” disse il marito, Carlo.
“Ti dico proprio così. C'era una filatelia”.
“Sono certo che tu abbia ragione, Anna. Eri tu la donna del centro. Io ero l'uomo di periferia”. L'autobus era ormai arrivato al semaforo. Ancora due fermate e saremmo scesi in Piazza Maggiore. Per tutto il tempo dei loro commenti io e Lui avevamo sorriso. Sorriso al candore con cui elargivano l'emozione dei loro ricordi di gioventù.
Al semaforo il marito, Carlo, si voltò verso di noi. Gli occhi gli caddero sulle nostre mani intrecciate, sul contrasto di bruno e bianco della pelle.
“Cari ragazzi – commentò – Basta diventar vecchi e si vede il mondo cambiare. Quando ero giovane io potevi scegliere tra una donna di città e una di campagna. O al massimo, come nel mio caso, potevi essere un uomo di periferia e ambire ad una donna del centro. Voi adesso invece potete scegliervi tra mondi diversi”.
Arrivò la nostra fermata. Scendemmo per incontrare Taifur, Awet e Titti. Trascorremmo assieme qualche ora al bar Asmara, e poi noi prendemmo il nostro autobus verso il quartiere Corticella.

L'ultimo tratto della via Corticella, dove si condensava la presenza di noi stranieri, era un rione che assomigliava ad una città mezza bombardata. Edifici che evidenziavano il senso precario della loro stazione eretta si affacciavano su strade con l'asfalto sfondato. Noi vivevamo in quegli edifici precari come i nostri permessi di soggiorno. E pagavamo fior di quattrini per poterli abitare.
Qualche volta, mia nonna, aveva provato a segnalare al comune che mentre toglieva una ragnatela con una scopa dal soffitto del bagno, aveva visto una macchia di muffa e con il manico l'aveva grattata. Era caduto un pezzo d'intonaco. Aveva infilato lì il manico che non la finiva più di andare su. Poi ad un certo punto il Filippino del piano di sopra le aveva urlato “Signora togli tua scopa da mio bagno”. Quelli del comune avevano solo riso.
Tutto il rione era nelle stesse condizioni ma era di proprietà di un pezzo grosso, e questo dice tutto. Dopo qualche anno in un appartamento, in piena notte, crollò il pavimento della cucina. I due inquilini, una coppia di iraniani rifugiati politici, vennero ospitati da un giovane siciliano che viveva nel rione. Il palazzo fu evacuato e crollò pochi giorni dopo. Quello in cui abitavamo noi crollò qualche tempo dopo ancora. Ma questi fatti che vi sto narrando accadero tre anni dopo quella fatidica domenica di Pasqua e noi non abitavamo più nel rione.

All'ultima fermata davanti alla casona “dei ragazzi”, scendemmo. Lui mi strinse la mano per incoraggiarmi. Gli sorrisi grata.
Quando entrammo in casa l'odore di peperoncino era così forte che mi fece tossire: “Nonna, ma qui non si respira!” dissi. Lei non mi prese in considerazione, solo si presentò a Lui con un sorriso di circostanza.
Il mosob troneggiava già nel centro della piccola sala da pranzo. Avremmo mangiato lì, come vuole la tradizione, tutti con le mani nel medesimo piatto.
Arrivò mia madre, anche lei si presentò a Lui, poi mia nonna scoperchiò il mosob e noi ci sedemmo attorno. “Uhmm! Buono!” esclamò Lui aspirando l'aroma. Lei, la terribile guerriera che aveva sbaragliato tutti i miei fidanzati bianchi prima di lui, sollevò una palpebra per lanciargli un'occhiata dubbiosa. Lui, senza far caso alla sua occhiata, strappò un pezzo di ingera e lo tuffò nel sugo. Avvoltolò l'ingera attorno alla carne facendo un cono perfetto, un boccone da maschio, con il centro tra le dita e la punta del cono che toccava il palmo della mano, poi se lo lanciò in bocca. Senza dire una parola, né soffiare, e neppure chiedere da bere, continuò a mangiare, strappando pezzi di ingera e facendo grandi bocconi da maschio. Mangiò dei diversi sughi, seguendo le indicazioni che gli avevo dato: prendere sempre il cibo davanti a sé senza allungare mai le mani nella zona degli altri. Al ristorante Africa non aveva imparato a mangiare dal piatto comune.
Dopo i sughi rossi, nonna Berechtì, non ancora soddisfatta di quella dimostrazione di resistenza, saltò la carne del tibsi nel letto di peperoncino verde e lo servì. Nessuna di noi tre andò oltre i primi bocconi. Era un inferno infuocato in bocca. Lui, invece, continuò a mangiarne. Nonna Berechtì ora lo guardava con tutti e due gli occhi e il suo sguardo era mutato. Da dubbioso aveva preso la venatura della meraviglia. Finita la porzione, lei si alzò per versagliene un altro mestolo dalla padella. Io brontolai: “Nonna basta!”. Lui mi zittì con gli occhi e poi si rivolse a nonna Berechtì: “Grazie signora. È proprio buono”
“Bravo figliolo mio”, rispose lei. Inizava a esserne conquistata.
Terminata quella seconda porzione, nonna Berechtì iniziò ad interessarsi a lui. Chiese della sua famiglia, del suo lavoro, della sua vita.

Dopo il pranzo si passò alla cerimonia del caffè. Nonna Berechtì preparò il bracere, tosto il caffè, mise la polvere del caffè macinato nella caffettiera di terracotta ed attese.
Quando il caffè fu pronto lo versò nelle tazzine senza manico. Le riempì fin quasi all'orlo, lasciando tra il bordo e il liquido scuro lo spazio di un chicco di riso in orrizzontale. Prese una tazzina e senza alcun piattino come base, gliela porse.
Lui, prese la tazzina e ne serrò il bordo, lasciando l'anulare lievemente sollevato, in un gesto alquanto elegante, e inizò a sorseggiare il caffè bollente.
Ogni mio fidanzato bianco precedente non aveva retto al calore della tazzina sulla pelle delle dita e aveva chiesto un piattino su cui adagiarla. Ma lui nulla. Serrava quella piccola tazza e beveva come un vero Habescià.
Alla fine del terzo caffè nonna Berechtì aveva sollevato uno sguardo velato di commozione: “Hai gli occhi di mille verdi – gli aveva detto – proprio come il padre di Alem”, cioè mio padre.
Era fatta. Lui aveva superato l'esame.
Come indizio di totale benedizione e consenso nonna Berechtì gli disse che, nel pomeriggio, se voleva poteva riposarsi, assieme a me, stendendosi sul suo letto.
Lui accettò la generosa offerta.

Mentre io e Lui sdormicchiavamo nella unica camera della nostra casa, sentivo mia madre e mia nonna che parlottavano in sala.
Le parole giravano attorno a quella vecchia discussione: la cerimonia mai fatta del Teskar per mio padre.
“La sua anima – diceva nonna Berechtì – ancora attende il Teskar. Nessuno ha mangiato al banchetto in suo onore dopo i sei mesi dalla morte. Nessun mendicante è stato invito ed ha benedetto l'anima del tuo defunto marito. E lo sai, senza Teskar i defunti sono come una macchina senza benzina. Non hanno la forza per raggiungere la loro destinazione, perchè non hanno alcuna benedizione dei poveri che hanno mangiato grazie a loro”.
“Ma lo sai perchè non abbiamo fatto il Teskar: perchè lui era un bianco”. “Questo è quello che dici tu. Io non l'ho mai né detto e né pensato. Lui avrò avuto la pelle bianca, ma era uno di noi. Uno della nostra stirpe. Un vero Koblalit , come ce ne sono pochi”.
“E va bene, forse hai ragione. Dovevamo fargli il Teskar. Ammazzare un bue, cucinare, fare la tella e il teggi, invitare tutti i poveri di Addis Abeba, o di Debre Libanos, dar loro da mangiare... , ma non lo abbiamo fatto quindi chiuso il discorso. Adesso siamo in Italia e non se ne parla più”
“Tu sei un'incosciente. Non capisci che dobbiamo fare qualcosa. Perchè credi che tua figlia non riesca a fare andare un fidanzamento oltre i sei mesi? Proprio tanti quanti quelli per il Teskar? È l'anima di suo padre che sta attaccata a lei e vuole essere ricordata... !”
“Ma che dici?! Ma se sei tu ad averne fatti scappare almeno tre”.
“Quelli? Non vorrai mica dire che quelli potevano essere suoi sposi. Erano bianchi, di quelli con l'ancora al piede che non si muovono oltre il cortile di casa loro. Tua figlia ha bisogno di un Koblalit”.
“Ma insomma, cosa vuoi che faccia?”.
“Sarebbe sufficiente che tu aprissi il tuo cuore, e la risposta a questa domanda sorgerebbe da sola. Figliola, non si può correre il rischio che scappi anche questo fidanzato. Ma lo hai visto? Di tutti quelli che ha avuto ti dico che questo è quello giusto, anzi giustissimo per lei. Pensa, ha gli occhi di mille verdi, come tuo marito, e in più di lavoro studia il vento. Immagina, il vento. Vedrai che uno che studia il vento sa cosa vuole dire essere un Koblalit”.
Poi sentii sbattere la porta di casa. Il resto della loro discussione continuò fuori, dove non arrivava il mio udito.
Quella sera, quando Lui se ne fu andato, reclinando l'invito a pernottare, noi tre ci ritirammo in camera.
Infilata sotto alle coperte chiusi gli occhi per ascoltare i soliti rumori della sera dei giorni di festa, quando nonna Berechtì si toglieva il vestito bianco facendo scorrere la lunga cerniera posteriore e poi gli orecchini e i ciondoli, e li adagiava sul comodino, con un rumore secco, come un colpo alla porta.
Attesi con gli occhi chiusi per qualche minuto, poi non avvertendo alcun rumore, li riaprii. Nonna Berechtì teneva gli occhi fissi su di me. “Che c'è nonna?”. “Alem, credo che presto dovrai viaggiare” disse lei.

Sono figlia di un soffio nomade. Tutta la mia famiglia appartiene ad un stirpe nomade: “I Koblalit”. Da piccola, come una litania, avevo dovuto memorizzare i nomi dei miei avi, all'indietro fino ai fondatori della stirpe: la iemenita Ewan e il tigrino Ghebre Sellasè.
Era una strana stirpe la nostra. Per farne parte bisognava avere l'animo del nomade. Per questo mi padre era stato accettato fino a perdere il soprannome di “il bianco della Koblalit” e prendere quello di “Koblalit venuto dall'oltremare”.

Nella nostra stirpe muoversi da un capo all'altro del paese è un evento ordinario, molto ordinario. Percorrere a piedi decine, e anche alcune centinai, di kilometri per partecipare a un battesimo o un matrimonio, e persino, più semplicemente, per andare a far visita a qualche parente che non si vede da lungo tempo, e lungo il tragitto fermarsi dai parenti dei villaggi in strada. Tutto ciò non ha per noi nulla di eccezionale. Per noi spostarci è un fatto naturale, e spostarsi non vuole dire viaggiare.
Viaggiare è un'altra cosa.
Nella nostra stirpe il viaggio è una cura. Quando una persona contina a ripetere gli stessi errori, o incontra sempre lo stesso destino, pur avendo provato a cambiare strada, allora lo si porta dagli anziani e loro indicano un viaggio. Un ritorno in alcuni luoghi del passato, per immergersi nelle vecchie emozioni e riuscire a trovare quella che ha agganciato l'anima come un uncino, la trattiene e le impedisce di proseguire per la sua strada.
Quando nonna Berechtì pronunciò quelle fatidiche parole: “Alem, dovrai viaggiare”, sentii un brivido di apprensione corrermi lungo la schiena. Sapevo cosa voleva dire: presto sarei partita per l'Etiopia.

Questo racconto farà parte della raccolta di racconti Mondo Pentola che verrà pubblicata nel febbraio 2007 a cura di Laila Wadia, editore Cosmo Iannone

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Anno 3, Numero 14
December 2006

 

 

 

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