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morto a galla di ogni mia cosa

alessanddro ledda

Il treno scivola nel suo acciaio, assestando la traiettoria nelle curve. Ricorda agli uomini che la corsa è innaturale. Io sono seduto al posto trentaquattro, carrozza sette. E sono morto da una settimana esatta. Mi sono sempre chiesto cosa ci fosse al di là. E adesso scopro che da qui non se ne va mai nessuno. Si rimane ancora attaccati alla vita, che non hai più. A pensarci bene è ancora più difficile. Non intervieni sulle tue cose, che mutano di continuo.
Che assestano le direzioni come un treno. E tu puoi solo permetterti di stare seduto al tuo posto.
Indosso ancora i vestiti del mio ultimo giorno. La magra  consolazione è che non si siano sporcati di sangue. Commozione cerebrale. Ghiaia sulla strada della mia vespa. Che morte stupida la mia. Di tutti i punti che potevo scegliere su cui infrangere il mio futuro, mi è capitata in sorte una colonna del portico. Come altre mille. Tutte uguali. Odoro ancora un po’ di ospedale. Quando mi hanno dichiarato morto, mi sono semplicemente alzato dal letto. Come fossi annoiato. Attraversavo la strada e la macchina dei miei genitori mi ha quasi investito. Almeno così mi è sembrato. Loro correvano verso il corpo del figlio, già immobile. Tutto quello che sono riuscito a fare è stato sedermi sulla pensilina di un autobus. In attesa. Mentre nessuno notava la mia presenza.

Il treno mi riaccompagna in città. Sto tornando dalla riviera. Volevo vedere il mare, con gli occhi di chi non c’è più.  Occhi che assomigliano alle biglie delle statue di cera. Scelte con cura fra tante altre. Grigio specchio. Innaturali. Come me, passato a miglior vita, che poi è sempre la stessa. Penso a Laura, ai silenzi che starà esprimendo, chiusa dentro se stessa. Penso ai caffè ristretti che farà scivolare nello stomaco, con l’mp3 alle orecchie, mentre rilegge le parole che ci siamo scritti lungo gli anni. E’ da lei che sto andando, con il profumo della spiaggia, addosso al mio corpo di vapore.

Mi hanno già sepolto. Mercoledì e c’era il sole. Succede sempre così. Alla fine ci si sposa con la pioggia, e si muore sotto una luce inopportuna. Sono rimasto fuori dalla chiesa. Non ho avuto il coraggio di entrare, di sedermi e dirmi addio. Mi sembrava inutile farlo. Ho avuto il timore di piangere, e non so se mi va. Se conosco i miei genitori, li immagino a dispensare ringraziamenti, ancora sorpresi dall’accaduto. Mia madre faticherà a realizzare, anche con la mia assenza messa di fronte agli occhi. Mio padre piange già, chiuso in bagno, con l’asciugamano premuto sul viso, e i rubinetti aperti. Si pettina e si sbarba soprattutto per lei.
Il giorno prima del funerale, gli amici di una vita si sono sbronzati in mio onore. Sono andati nel parcheggio dello stadio. Io l’ho scoperto per caso. O forse lo sapevo già, non so! Mentre loro bevevano rum liscio, si raccontavano cose sul mio conto. Ridevano pensando alle mie battute di una volta. Ogni tanto qualcuno si accasciava. Piangevano abbracciati per me. Vale la pena morire forse solo per questa strana onda d’affetto che ti ritorna. Certe cose le sai. Poche volte ti capita di accorgerti di loro. Tu le vedi mentre nessuno vede te. La mia trasparenza cancella le censure, le inibizioni. Non sono cresciuto abbastanza per impararlo nelle cose. L’ho dovuto apprendere dal di fuori.
Sara diceva a Matteo e Andrea che Laura non sarebbe venuta. Non se la sentiva. Alla domanda  “come l’ha presa?”, nessuno rispose.

Dalla stazione corro, verso il centro. E’ una sera tranquilla. Limpida. Penso un po’ a come entrare a casa di Laura senza dover suonare il campanello. E mentre ci penso, chiudo gli occhi. Quando li riapro sono già dentro camera sua. La vedo solo dopo un po’. È lì, sdraiata e immobile. Stringe nel pugno un fazzoletto di carta. Ha gli occhi gonfi e il naso rosso. I capelli spettinati. Vorrei li portasse dietro l’orecchio, come fa sempre con quel suo gesto vezzoso, da bambina educata. Vorrei che mi mostrasse l’intero viso.
Mi prende uno strano sconforto, nel non poterle dire che io sono qui, che in fondo nessuno è davvero perso, scomparso. Che quando si muore è solo il corpo che si cancella, ma non l’amore. Sul comodino fuma un thè, che lei non berrà. La mamma sarà indecisa sul da farsi. Quella donna si è sempre preoccupata troppo. Se penso che un giorno Laura si innamorerà di nuovo, si sposerà, avrà dei figli con qualcun altro, scopro così di quanto mi manca la mia vita.
La mia voce. Vorrei dormire, o sentirne anche solo il bisogno. Mi sdraio solo un attimo, sul tappeto a righe, sotto il letto di lei. I suoi singhiozzi sono come morire ancora.
Questo sarà il mio destino forse: accompagnare i miei affetti coi loro ricordi di me, che si stemperano?
Laura sussurra qualcosa. Si chiede perché. Vorrei risponderle che io non lo so. Pensare che è solo andata così non servirebbe, né a me né a lei. Ma è così davvero.

Un attimo dopo sono sul ciglio di casa mia. Mio padre è ancora in macchina, vestito con gli abiti da lavoro. Ha ricominciato a fumare. Mentre lo guardo penso che non c’è più molto tempo. Una sensazione improvvisa che mi coglie, e che non ho idea da dove derivi. Mi avvicino a lui. Il riflesso delle luci di strada si spalma sul finestrino; per vederlo lo devo ritagliare dal buio di quello spazio aperto che ha lasciato, per far uscire il fumo dalla macchina. Un uomo che si domanda quante cose avrebbe voluto dirmi prima che fosse troppo tardi; ecco quello che vedo. Mio padre, l’uomo serio dalla giacca e cravatta integerrime. Con lui parlavo solo del futuro lacunoso che mi attendeva, delle tasse, dei capi di governo. Da bambino scrivevo nei miei temi che avrei voluto essere come lui. Crescendo mi sono dimenticato di lui, e temo che lui se ne sia accorto. Lo guardo e in un attimo gli dico addio.

Mia madre è seduta in cucina. Tiene i capelli fra le mani. Ha lasciato il frigorifero aperto. Mentre mi avvicino a lei, per osservarla meglio, lei parla:
- Non puoi essertene andato senza dirmelo. Mi dicevi sempre dove andavi, quando saresti tornato. Sono arrabbiata con te…
In un attimo mi sfiora l’idea che senta la mia presenza.
- Non puoi essertene andato…
Mia madre inizia a piangere. Credo siano le sue prime lacrime. Me ne accorgo perché sono acqua piena, densa; come fossero state conservate per un momento preciso. Lei non sa che quel momento lo stiamo dividendo. Frana sul tavolo, copre il viso. Io annuso il suo profumo. Non lo ha mai cambiato. Il suo profumo è il profumo della mia casa, delle sere sul divano a guardare i film della notte con lei, mentre  mi chiedeva se fossi innamorato. E un mio sorriso timido la dava in pasto, viva, alla curiosità.
Il mio vapore la cinge.

Cammino verso un alba, che rifrange contro le cose, tranne che su me.  Guardo la mia città, adesso. Immobile, quasi in posa prima di un’istantanea a natale. Vorrei non ricordare il mio nome. Vorrei che la mia memoria scivolasse sulle mie dita, e si perdesse. Morire non è stato divertente. Ma questo lo si immagina anche senza doverci passare attraverso. Si è costretti a salutare, a lasciare andare alla deriva ogni cosa. Gli addii imprimono il senso al tuo esserci stato anche se per troppo poco tempo, e questo rende difficile la separazione.

Alla fine ho pianto anche io.
E poi, ho scoperto infine che il paradiso sei tu a sceglierlo. Lo capisco adesso, che galleggio nudo sulla superficie di un mare che credo non esista in natura. Ogni parte del mio corpo non ha più peso. Sotto il sole. Da bambino mio padre mi faceva fare il morto a galla, davanti alla riva, dove si toccava. Mia madre sotto l’ombrellone a leggere, si distraeva per salutarci ogni tanto. Ora che io morto lo sono sul serio, ho scelto questo angolo di me, del  mio passaggio, per rimanere eterno.
Ed è come perdersi, per sempre.

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Anno 3, Numero 13
September 2006

 

 

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