Nota biografica | Versione lettura |
roma, luglio 2002.
un uomo sputato dal nulla si aggira per la città. l'aria sa di graduatorie, moduli, colloqui. si è appena aperto il sipario del giorno, eppure un senso di stanchezza sudaticcia già si appiccica sui muri, sulla pelle, sui binari, sui tetti, sull’asfalto, su tutto.
ancora è chiuso il collocamento
vado a piazza vittorio
tra le panche del cinema all’aperto
qualche sedia blu
tra secchi di pop corn e bottigliette vuote
un gruppetto di cinesi
danza elastico la coreografia del mattino
una donna in giallo
guida i due magri ragazzi
dietro si staglia tra frulli di passeri
il bianco muraglione delle ombre cinesi.
passa il tram romba la metro
la città apre gli occhi, e dalle sue palpebre fiocca una donna. l’arrivo di claire è il fulmine e il cielo sereno. una semplice parola ha offerto la chiave per entrare nel suo sguardo, per rivolgersi a lei sapendo le sue ombre e le sue luci, i suoi bassifondi e i suoi grattacieli.
: claire, ti allunghi
dal sud africa in qui
nell’italia solare
e porti il grido di lontani dolori
di morti giovani troppo
colpevoli d’innocenza (bianchi)
tremi e piangi e soffochi
fumi e bevi e col fumo
nascondi già la tua ulcera
: claire vent’anni
la tua magrezza non è cura
né bellezza,
laggiù la tua terra brucia
di sparatorie
le raffiche negre ti hanno tolto
8 lontani amici
otto piezz’e core,
il tuo silenzio attonito
non è vuoto
è urlo da lontano strozzato
spavento; in te il tremore
della storia che passa
con la sua puzza di cadavere
(mandela i coloni le prigioni…)
claire è attraversata da correnti, cavi, tubi, condotte. l’uomo non può fare a meno di diventarne l’esploratore, il minatore di quella cava che custodisce gelosa una luce nel più profondo inferno. non può fare a meno di dirle, in silenzio,
ingoia le tue lacrime per me, donna
ingoiane più che puoi
guarda in alto e deglutisci silenziosa
mandane giù più del tuo stesso sangue
diventa una salina d'amore
triste, solitario, sconosciuto.
per lui ci sono poche speranze, ma un locale ha bisogno della voce di claire per il venerdì sera. tra i cementi e i bicchieri, vibrano le corde di carne di questa fantastica creatura, e la fantasia dell’uomo si nutre già di appuntamenti.
claire al "tredici gradi"
canti e sei bella
dopo una pinta e una sigaretta scroccata
sei bella e voglio…
il mio gatto è morto
dopo due pinte è morto
una sigaretta l’ho scroccata
claire voglio guadagnare terreno su di te
canta e ti porto via
stai sulla california
su summer time
sulle coste di un mare mai visto
claire, cascate d'acqua
dai miei occhi
il gatto è morto
la macchina parcheggiata sulle strisce pedonali
canti, sei bella
hai curve, stando fermo
dalla bocca piango
piangi, ti bacio al piano di sopra
di sopra il piano bar
sopra al cielo del bar
ma non si può oltrepassare la soglia di un bar. si può sfondare il muro del suono, si può bestemmiare ed invocare la fine del cielo. ma la sommità di un terrazzo è il punto più alto che puoi raggiungere. il nostro uomo, invece, è andato oltre. claire non l’aspettava lì. lei era già in un altrove. e di lui non sono rimasti che i rottami.
"ti amo. amore. amore mio"
sillabe abusate
ora immerse in una fiala
di terribile solvente
che scioglie in lettere
fonemi movimenti
di glottide
la vita ci consuma
lei può farlo.
tra le mani carte di caramelle
preservativi usati fazzoletti
insanguinati cartacce penne
disseccate buste rotte
sono una caramella al rabarbaro
caduta in farmacia
sintomaticamente finita tra le tue mani,
sono una parola un nome spremuto
a forza dal tuo desiderio
un nome appeso per un filo di bava
all'ultimo ramo verdastro
di un albero da frutto
caduto è il nome,
lo raccoglie
l'oscuro desiderio
forte e divoratore
di te.
c’è sempre un’ultima volta, un preludio alla fine, un cantiere che chiude a metà, e gli operai che vagano per la città. del proprio costruire non si può che rubare qualche particella, un granello di rena bianca.. è qui che si cela l’addio. la carne brucia passione su ogni materasso, divano, parete o automobile. ed ogni volta non resta che un presentimento e un piccolo monumento della fine.
gocce di fiele sono diventate
le tue iridi:
io sul divano stravaccato
tu sotto la doccia, tra le pareti
conte accenna vieni via con me,
il tuo sapore sotto le mie unghie
scivola nel lavandino
resti di cenere, letti disfatti
e l'ampolla dei tuoi tesori d'oriente
che s'è nascosta all'atto
del tuo guardare altrove.
i palazzi, gli angoli dove pisciano i cani, i semafori: sono loro le spie del misero uomo, i loro vapori esalano tutto quello che deve sapere, gli abbracci clandestini che lei si concede. perché il suo sguardo è troppo grande, troppo ampio, veloce.
amore bello amore caro
tu t’appoggi sul suo petto
kalvin klein nelle narici
e la sua barba appena fatta
amore caro amore bello
ti strofini con la bocca
tra le pieghe del suo collo,
ma che si gonfia sulla pancia?
amore bello amore caro
la sua pelle è ora sperma
hai già il tuo ragazzo
ma ti batte in petto un treno
la città è attraversata da ogni sorta di amante. ognuno la vuole a modo suo. ognuno, per lei, ha un abito, un accento, uno sguardo. ma lei, la città, non corrisponde mai nessuno fino in fondo.
vanno in fumo i nostri amori
tra un sms, uno squillo
un goccio di vino e mille
philip morris
che accendono la mia bronchite.
è questo il sapore ora
che mi concedo, la lingua
che brucia di te
e gli stupidi cuscini che non
ricordano il tuo odore
di lei, alla fine, non restano che lacrime sparse sulla trapunta di questo bel dicembre.
brucia a terra la cicca.
balbetta una vecchia.
alberto è morto. piange
tutta prati al mattino. telefono.
piange la ragazza nella sua stanza.
ed io? io sorrido
come un rametto spezzato:
gli uccellini lo beccano
insieme alle pietruzze, insieme
ai vermicelli, accanto
alla cicca che brucia
l’omino non sa più guardarsi in faccia. l’aria si fa di nuovo calda, lievitano le vampate che salgono dalle grate della metropolitana, a segnalare il fulmineo e immobile trascorrere dell’anno. e di lui, intanto, non resta che un'ombra seduta ad un tavolo.
al tavolo di un bar
un tizio seduto da solo
beve un crodino
mastica patatine.
le donne intorno
indaffarate sgualciscono
un po' di stipendio,
tra profumi e alimentari
le donne sudano, portano
caschi e grosse buste
del supermercato
le donne si danno da fare
portano il mondo in un sacchetto
il tizio invece resta seduto
a guardare, non sa
se violare con lo stecchino
anche le olive
o fermarsi alle patatine
e il tavolino
è un burrone
un baratro
è l'occhio del ciclone
il buco nero
dove neanche la barista
che porta il caffè
si muove
e intorno scorre un fluido
che qualcuno
chiama ancora vita
la città, questa puttana sfregiata che non può fare altro che lasciarsi guardare culo, cellulite, grasso raccolti in un paio di mutandine dall'elastico slabbrato. un fiume rosso in mezzo a tagliare tetti e cupole, immobile come mille donne appassite d'un tratto e senza nome. il caldo soffoca, divora l’aria, e faticosamente si fa largo tra le cosce agosto. è appena iniziata, ed è ancora estate, piena della sua luttuosa allegria.
agosto, sapore di sonnifero
sapore di antidolorifico
agosto, beniamino delle analisi
protettore di pallori
santo delle fratture
dei vagabondi senza piedi
d’infette ustioni
agosto, miseria dell’anno
ottavo tumore dell’anno
mese di stenti e d’invidie
mese dei discount e delle magliette di pessimo gusto
agosto dei saldi al neon
dei prezzi umidi
di viscosa stampata
di sogni cinematografici
agosto, che ci fai attendere il nono tumore
con ansia di normalità
prima benevolo, ora lo sguardo delle cose si è sottratto, le vie più ampie si sono ridotte a cunicoli, i cunicoli si stringono intorno al collo.
uccidersi senza lavoro
senza dignità
e gli amici diventano piccole
agenzie di collocamento
spacciatori di sigarette
e le amiche untrici di hiv
e dietro l'angolo c'è solo la morte
solo la morte, solo e nient'altro
che morte
tutto ti ha abbandonato, e non ti resta altro che andare di qua o di là. una forza ti spinge da dietro le spalle, vedi il greto profondo, il gorgoglio invitante del fiume, e poi un forse, un qualcosa, una lontananza. al bivio la speranza ti viene incontro e capisci che
nun c’è gnente da fa':
’na mulattiera sgarupata
sola immezzo ar bosco,
essa te porta a la libbertà.
l'uomo è stato chiamato da un’altra città. un vero fuori programma: grecia! sbiadisce claire. a diecimila metri sul mare, sui villaggi, sulle colline si inizia a scorgere qualcosa.
amo i prati celesti ai piedi di atene
ilion disteso tra campi elettronici
e il partenone in ginocchio tra pietre sconvolte
yamas! dolce malinconica grecia
morta tra cementi ributtanti dolore
occhi piangenti, eroina di finestre sfondate
porte e cancelli desolati
in ginocchio oh ellade cara
il tuo passato si sgrana sotto un sole cotto da guerre,
caffè, sigarette senza mai stare in piedi
agorà dirupata del mio cuore pulviscolo
sterpaglie sdentate in acidi fiumi di gente
carie delle ossa, lampioni allucinati
la notte nel giorno, luce nel buio
ed un passato che langue tra incendi improvvisi.
e di nuovo altri occhi si spalancano di fronte ai suoi, appaiono altre presenze, esistono davvero altre lingue, altre facce, ogni polis è un singolo quartiere, ghitonià di un’unica, imponente madre.
tutto è acqua e deserto
cespugli di pini, bacche
avena selvatica, olivi nani
crespi gruppetti di margherite
aggrappati alla roccia
tutto è sale e asfalto
folla in transito
bianche chiesette bizantine
poggiate come mucchietti di panna
qui l’immenso è appena fuori atene
dopo le ultime case, le ultime
distese di cemento
l’ultimo lungomare,
ed un pino chino sull’olivo
parla dell’oleandro in fiore
quando il mare sussurra
fillisis yapada, baciamoci per sempre
l’uomo riconosce al primo sguardo i suoi cani randagi, i suoi semafori, i suoi incroci, i luoghi dove incontrerà i suoi simili. ma non può riconoscere lei, lindsey, se non attraverso un desiderio brutale e inadempibile.
kalimera, oh desiderata
una notte di passione bruciata nel vento
24h di fiamma inestinguibile
la meteora delle mille e una notte
la prova del fuoco
l’albergo avaro non apre le porte
del nostro incontro
e il viaggio di una domanda
mi tortura l'intestino
in attesa del boia a colazione
l’albergo non ti dà via
neanche dopo aver deriso
la mia notturna ascesa al tuo olimpo
l’albergo ti tiene stretta, serrata nella
stanza
ed io ho un cuore che pulsa
sangue per 10 persone.
l’uomo non sa se l’ha posseduta, se è salito col suo corpo su di lei. ma è certo che si scappa meglio in due, quando si trova il modo di ingannare l’assenza e la solitudine e la paura e la perdita.
sei tu mia fuga
tu che batti ai vetri di ogni
stagione megera
sei tu mia vigliaccheria
mio implacabile amore, mia
sigaretta e mio collo
di bottiglia
sei tu che ti affacci e mi colmi
d'un amore senza saperlo
immenso, torna e
vedrai la mia fuga
la fuga di un uomo da sé
dal suo background
d'immondizie e che corre
soltanto nella vita
corre e basta senza
mai voltarsi. niente è
il passato,
siamo noi due
solo nel futuro e un po'
di presente sparso a velo
su questa pazzia da cui sgorgano
parole
grondaie di tristezza
parole che colano e niente più
e lui, metallo liquefatto, pulviscolo, mattone frantumato, vede le mani di lei sul passaporto, oltre il check point. vorrebbe precederla e seguirla, essere il suo passato e il suo futuro, vorrebbe stare nella stiva del suo aereo per essere il presente. ma lindsey, la maltese, è come una città senza continente.
ed ora mi lasci così
mezzo cadavere sul lettino d’obitorio
bianco col cartellino al piede
in attesa d’autopsia
ed ora te ne vai, tornerai
tra le mura di la valletta, nel mare profondo
ed io starò negli occhi del primo pesce
che i pescatori pescheranno per te
ed ora parti
l’aereo ti risucchia a malta,
e nella salsa che condirà le tue patatine
sentirai il sangue pulsato dal mio cuore
ed io aspetto roma; qui
ho te nel desiderio di te,
nel tuo venire meno
ti avvicino ripercorrendo i nostri sguardi
ora non gli restate che voi, amanti fedelissime, città dagli occhi sempre aperti, donne infinite che per sempre avete strappato via le sue palpebre e lo avete reso simile a voi.
città, io vi desidero come attonite donne
fisso i miei occhi nel vostro sguardo
di vetro d’acciaio
fermo le mie mani sulle vostre province
bramo la pietra dei vostri altari
l’asfalto che vi copre di nero velluto
e spogliarvi io voglio spogliarvi
del vostro brulicame
nuotare tra le vostre genti. città
io vi desidero come allattanti donne
e un tradimento nuovo comincerebbe
ogni volta che s’accende un neon
ogni volta al modularsi di una voce, ad ogni
toccare le vostre porte i vostri sotterranei
al parlare le vostre lingue parlanti
l’uomo in città non è che inchiostro su di una pagina che decide le svolte, le frenate, le concentrazioni di gas, i rumori e il silenzio.
le parole sono piume
righe di fumo nel cielo di latte
pronte a sparire in un soffio di vento
ed è silenzio il mio metro
un silenzio rigato di clacson
dispersi su curve e tornanti.