El Ghibli - rivista online di letteratura della migrazione

Nota biografica | Versione lettura |

la figlia di nessuno

ingrid beatrice coman

Letame e sangue. Fu questo l’intreccio di odori che la investirono quando s’infilò nella piccola capanna di terra battuta, spinta dalla donna senza lingua, come la chiamavano giù in paese.

Alba sentì una forte morsa allo stomaco: dal letto di paglia improvvisato sotto la finestra, la bambina la fissava con occhi immobili e lucidi che sembravano risucchiare le cose attorno come due immensi buchi neri in cui il tempo scorreva all’indietro e ogni cosa diventava il contrario di se stessa. Il suo corpo minuto era paralizzato in posizione fetale sotto la coperta di lana ruvida. Sembrava non fosse mai nata.

S’inginocchiò davanti al letto e spostò delicatamente la coperta. Era macchiata di sangue e la sua mano ebbe una leggera esitazione. Non aveva più di sei anni. Il suo corpo nudo, chiuso su se stesso e immobile, era magro e indebolito. Uno strano fango si era mescolato con la paglia all’altezza del suo bacino.

Quando la girò delicatamente, facendola distendere sulla schiena, involontariamente sobbalzò all’indietro, come se avesse ricevuto un violento pugno nello stomaco.

“Dio mio, no!” La voce le si spezzò dentro. Era come un pianto al rovescio, una disperata preghiera che ciò che vedeva non fosse vero.

In mezzo alle gambe magre che scottavano, vide ciò che nessuna donna al mondo dovrebbe mai vedere e che lei non avrebbe mai dimenticato: i genitali della bambina erano stati brutalmente mutilati. Tutte le parti esterne erano tagliate in modo maldestro e irregolare.

Un pezzo di vetro, pensò, o una lametta mal affilata.

I tagli erano ancora aperti. Era come se il suo corpo si rifiutasse di chiudere quella ferita assurda e la volesse lasciare lì, come un occhio cieco che si ostina a rimanere sbarrato. Qualcuno aveva tentato di fermare il sangue mettendoci sopra un terriccio bruno che si era poi mescolato al sangue creando quello strano fango.

Alba capì all’istante che la piccola era come seduta sull’orlo di un precipizio, pronta a scivolare giù. Aveva smesso di combattere e il suo sguardo era fisso su qualcosa che non era più di questo mondo. Le speranze di vivere erano fievoli come il suo respiro, ma lei ancora non voleva accettarlo.

“Non ancora, non ancora, piccola”, continuava a ripetere, come se avesse voluto scongiurare la morte che sentiva già lì, nell’aria della capanna diventata di colpo gelida. Si tolse la camicia e, sollevandolo piano, vi avvolse il corpo incredibilmente leggero. Solo all’ospedale poteva ancora tentare qualcosa.

Sentiva uno scatto nervoso alle gambe: doveva correre, correre più che poteva, le sembrava di nuotare contro corrente nel fiume di un destino già deciso. Stringeva a lei quel corpo molle come una bambola di pezza. Non sapeva se era ancora viva ma non voleva fermarsi, come se la sua corsa potesse ingannare la morte ancora ferma nella capanna per un appuntamento remoto.

Quando arrivò al suo piccolo ospedale improvvisato, Alba appoggiò il corpo della bambina e finalmente ebbe il coraggio di prenderle il polso. Respirava ancora.

Per prima cosa cercò di pulire la ferita. La terra si era insinuata dappertutto. Poi, per un tempo che le sembrò infinito, lavorò per togliere le spine con cui mani maldestre avevano chiuso la parte posteriore, lasciandovi solo un piccolo spazio tenuto aperto da una scheggia di legno. La pelle fine della bambina si era lacerata attorno alle spine, creando piccoli noduli di infezione. Le tremava il cuore ma non c’era altro da fare: dovette aprirli tutti con il bisturi. Ogni volta che tagliava le sembrava di sentirla nel cervello, quella punta. Non aveva anestetizzanti; solo la morfina, ma temeva che la piccola, già debole, potesse non reggerla.

Così dovette riprendere il cammino della violenza al contrario, cercando di porre rimedio al dolore con un altro dolore. La bambina aveva gli occhi fissi nel vuoto. Non aveva la forza per dibattersi, e l’unico segno del male che sentiva erano le lacrime. Alba curava con ansia quel pianto.

Finché può ancora piangere, vuol dire che è viva, pensava.

Quando ebbe finito, disinfettò le ferite, vi sparse una polvere di antibiotico e coprì tutto con garze pulite. Doveva cercare di abbassare la febbre. Se si fosse alzata troppo nelle ore successive, la piccola non ce l’avrebbe fatta. Prese una spugna imbevuta di acqua tiepida e la passò delicatamente sul corpo che tremava. Poi la coprì e, sollevandole piano la testa, cercò di farle bere dell’acqua zuccherata. Riuscì solo a versarle in bocca qualche goccia. Si sedette vicino a lei, continuando a passarle la spugna bagnata sulla fronte.

Alba aveva le lacrime in gola. Sentiva il brivido dell’orrore e della rabbia sulla punta delle dita che avevano ricucito e disinfettato per più di quattro ore con la consapevolezza che niente e nessuno avrebbe mai potuto chiudere la parte profonda di quella ferita.

Lei voleva trattenere quella creatura di cui non conosceva neanche il nome, inchiodarla a questo mondo e farle respirare l’aria che l’aveva avvelenata. Voleva far vivere il corpo che la sua gente aveva reso monco e sofferente.

Si sentiva come tanti anni prima, quando, bambina, aveva voluto tenere in vita quel piccolo merlo a cui i suoi compagni avevano spezzato l’ala con un colpo di fionda. Lei l’aveva portato in camera sua e per molti giorni gli aveva versato acqua e infilato cibo nella bocca con la forza.

Quando guarirai, ti lascerò andare, gli diceva, cercando di farlo volare nello spazio stretto della sua stanza. Ma nonostante il cibo, l’acqua e l’amore che gli aveva fatto ingoiare tutti i giorni con la forza, il suo merlo non aveva più volato. Una mattina l’aveva trovato immobile nel nido improvvisato di cartone e fazzoletti.

Le si chiudevano gli occhi. Appoggiò la testa sul lettino. Ora il merlo era lì, lei era stanca e lui non voleva volare, no, stava lì, sotto le coperte, domani, sì, domani volerà…

Quando si svegliò, aveva la testa di piombo e tutte le ossa indolenzite. La bambina non si era mossa. Le si strinse il cuore.

“No, piccola no”, urlò, abbassandosi fino a sfiorarle il viso. Respirava.
“Dio, ti ringrazio” disse, piano. Ma Dio poteva ancora cambiare idea. Non riusciva a staccarsi da quel respiro che voleva sentire ancora e ancora.
“Così, cucciolo, respira”, continuava a ripetere mentre stringeva la mano piccola che non scottava già più.

Era ancora piegata sul lettino e accarezzava la fronte della bambina, quando entrò Suna, la sua anziana assistente kikuyu.
“È viva?” chiese, preoccupata.
“È viva, Suna. Che ci fai qui a quest’ora? Come l’hai saputo?”
“Sheena, la donna senza lingua. È arrivata in gran corsa a casa mia, bussando all’impazzata. Credevo bruciasse la città. Poi mi ha raccontato tutto”.

“Raccontato? Credevo fosse muta”.
“Lo è. Ma con un bastoncino sulla sabbia nessuno sa raccontare meglio di lei. Così sono corsa qui”.
“E’ stato un inferno, Suna. Credevo che sarebbe morta. Ma ora è finita”.
Alba vide lo sguardo della donna fisso sul pavimento con eccessiva concentrazione, come se vi avesse scorto qualcosa.
“Che c’è, Suna?” chiese Alba, intuendo che qualcosa non andava. “La bambina ce la farà” insistette, cercando di togliere la preoccupazione dal viso della donna.
“Lo so, Alba. Hai fatto un ottimo lavoro”.
“Che c’è, allora?”
“Vedi, Alba” cominciò la donna, prendendole la mano e sorridendole tristemente.
“Noi curiamo i corpi delle persone. Se ci va bene, riusciamo a tenerli in vita. Ma ci sono cose sulle quali il nostro bisturi e le nostre medicine sono impotenti“.

Si fermò per un attimo, soffocando un sospiro.
“Sai, quando ho saputo cosa avevi fatto, ho capito che avevi preso una di quelle strade che si perdono nelle sabbie mobili. Qui la vita fa dei percorsi strani. La bambina che dorme sul tuo lettino è la figlia di Asha“.
“Chi è Asha?“
“Asha era una prostituta. Sei anni fa, era rimasta incinta con qualcuno di cui non conosceva nemmeno il nome. Le anziane del paese si erano offerte di far uscire il frutto del peccato dal suo ventre. Lei si era rifiutata e aveva voluto tenerlo. Così, pochi mesi dopo, nasceva Kari. Ci sono creature che nascono con la maledizione nel sangue. Asha sarebbe morta di lì a pochi giorni.

Per punizione divina, aveva concluso il paese. Quando andai lì, capii che la punizione divina era arrivata tramite una poltiglia di letame ed erbe con cui un’anziana levatrice aveva coperto le ferite del parto. Era troppo tardi. Asha aveva contratto un’infezione che l’aveva stroncata in pochi giorni.

Kari, la figlia di nessuno, come l’avevano chiamata quando era ancora nel grembo della madre, fu affidata ad un’anziana che viveva fuori del villaggio. Dopo il rito di purificazione, sarebbero potute tornare in paese. Ma ora è tutto diverso“.
“Perché?”
“Tu sei intervenuta su un rito sacro che sarebbe servito a “correggere” le inclinazioni impure che la bambina aveva ereditato”.
“Che invece la stava uccidendo!”
“Per loro sarebbe stato volere divino”.
“Se il volere divino sta nelle mani della macellaia che ha fatto questo, non oso immaginare le sembianze che prende il diavolo in questo posto!”
“Vedi, per loro tu sei una specie di strega forestiera. Loro pensano che tu abbia ricucito ciò che loro avevano tagliato per purificare. Tu l’hai resa di nuovo impura, per loro. Capisci?”
“Sì, temo di sì. E ora che succederà?”

“Kari non sarà mai accettata in questa comunità. Il suo destino è già segnato. Lo è sempre stato…”
“Che significa non sarà accettata? Ha solo sei anni! Dove vogliono che vada?”
“A nessuno interessa dove va la figlia di nessuno…”
Alba si avvicinò al lettino dove la bambina riposava, tranquilla. Tra le palpebre socchiuse si vedevano le pupille che si muovevano lentamente.
Sta sognando, pensò, sorridendo.
“Questo o la morte. Non ti hanno lasciato tante scelte, piccola”.
Le spostò i capelli arruffati dalla fronte piccolina. Sembrava una bambolina d’ebano abbandonata sulla bancarella di un mercatino dell’usato.

Sentiva il cuore tremare di un emozione nuova. Prima ancora che l’alba arrivasse attraverso i vetri impolverati dell’ospedale, lei aveva già deciso.
Quando Suna, preoccupata, cercò di allontanarla dal lettino, lei si girò e, fissandola negli occhi, disse:
“Kari non è più figlia di nessuno. È mia figlia, ora”. Teneva la mano della bambina con la stessa decisione con cui, tanti anni prima, aveva costretto a volare un’ala spezzata nello spazio così ristretto della sua stanza.

Inizio pagina

Home | Archivio | Cerca

Archivio

Anno 3, Numero 13
September 2006

 

 

©2003-2014 El-Ghibli.org
Chi siamo | Contatti | Archivio | Notizie | Links