Vorrei che questo fosse un incontro fra amici, anzi fra fratelli che non si incontrano da tanto tempo e che hanno molte cose da dirsi. Occorre spogliarsi dei pregiudizi radicati, occorre uno sforzo per guardarsi nell'anima, prima che negli occhi, per poter finalmente cominciare un dialogo fecondo. È difficile, lo comprendo, ma è uno sforzo necessario da parte di tutti, per promuovere un'effettiva interculturalità e creare le basi per una moderna società multietnica senza conflitti.
La parola interculturalità, oggi, è usata in maniera molto ambigua e spesso è sinonimo di mera conoscenza dell'esistenza di un'altra realtà culturale. Interculturalità, invece, ha un significato profondo e consiste essenzialmente nel "vivere" un'altra cultura. Solo "vivendola" una cultura diversa ci permette di arricchire il nostro bagaglio umano e allargare gli orizzonti culturali.
L'interculturalità è una risorsa che allontana lo spettro dell'appiattimento del genere umano. Per vivere un'altra cultura e promuovere effettivamente l'interculturalità non ci vuole molto. Pensiamo alla musica, un linguaggio che ci permette di dialogare con il "cuore" prima che con la "mente" e di superare le barriere linguistiche e razziali e al canto in modo particolare: cantare tutti assieme in una lingua diversa, comprendendo il significato delle parole, è promuovere interculturalità. I
risultati sono sorprendenti quando c'è il giusto rispetto e la giusta conoscenza.
Ora bisogna riflettere su quante opportunità ha l'opinione pubblica di "vivere" realmente la cultura romaní, nella sua ricchezza e nella sua complessità espressiva e non il degrado che i mass medea presentano della realtà romanì. È un sacrosanto diritto di cui l'opinione pubblica viene privata. E qui
subentrano tanti fattori: innanzitutto una cattiva informazione che si trasforma facilmente in disinformazione, con la reiterazione di immagini e di clichè stereotipati che certamente non favoriscono il dialogo, ma al contrario, creano pregiudizi dannosi e, in fin dei conti, comprensibili atteggiamenti di ostilità. Vanno poi sottolineate le politiche di rifiuto attuate nei confronti dei Rom arrivati in Europa nel XV secolo: politiche di espulsione, di reclusione, di sterminio, di deportazione, di assimilazione.
I Rom, gli Sinti, i Manouches, i Kalé, i Romanichals, i 5 grandi gruppi che con i loro svariati sottogruppi costituiscono il paradigmatico mondo romanò e definiti "zingari" con una forte accezione negativa e dispregiativa, non sono arrivati in Europa con le armi, né con intenti bellicosi. L'unico popolo al mondo a non aver mai dichiarato guerra a nessuno perché non ha mai avuto
l'esigenza di rivendicare un territorio e quindi di scalzare altre popolazioni per un insediamento, ne si è mai organizzato in formazioni terroristiche per rivendicare i propri diritti esistenziali, culturali e
sociali, né si è mai dotato di un esercito. Alla curiosità iniziale le popolazioni europee hanno fatto subentrare l'odio nei confronti di queste popolazioni girovaghe che già scappavano dalla repressione dei persiani, dei bizantini (in Romania i Rom, sono rimasti schiavi per 5 secoli e si sono affrancati dalla schiavitù solo nel 1858!) dei turchi ottomani. In Europa, invece di trovare scampo e una "patria" a cui offrire i prodotti della propria attività (musicisti, allevatori di bestiame, commercianti di cavalli, artigiani e lavoratori di ferro e rame), hanno "trovato" altre repressioni. Il primo bando contro i Rom, mori ed ebrei sefarditi è del 1492 da parte dei cosiddetti "Re cattolici" spagnoli. Sotto l'influenza della corte spagnola, avendo parentele in tutta Europa, facilmente questi
editti venivano estesi ad altri Paesi, tra cui l'Italia divisa, al tempo, in tante "Signorie". Queste ultime erano veri e propri Stati nazionali che esigevano l'allontanamento di tutte quelle razze che in qualche modo intaccavano la "purezza" della razza locale. Da qui le incomprensioni che ci
trasciniamo fino ad oggi. Le comunità romaní sono state costrette a vivere alla macchia, lontano dai centri abitati e soprattutto senza diritti. Continuamente espulsi - quando non venivano impiegati nelle battute di caccia come preda o pubblicamente giustiziati in quanto ingiustamente accusati di "cannibalismo"- sono andati alla continua ricerca di rifugi sicuri. Lo spostamento e la solidarietà del gruppo di appartenenza aiutava a sopravvivere. L'itineranza coatta, che si è delineata in Europa ed erroneamente scambiata per nomadismo culturale, è stata la conseguenza del rifiuto e delle politiche repressive, non una scelta di vita. La ghettizzazione , oggi,viene presentata dai mass media, addirittura come espressione culturale. Come dire " son loro che vogliono vivere in questo modo, lo hanno sempre fatto". In tal modo si giustifica pubblicamente la segregazione razziale e la comune accettazione della discriminazione, senza il fardello dei sensi di colpa. La mobilità alla ricerca di spazi vitali, è stata la risposta di un popolo inerme e pacifista. In un Europa etnocentrica la popolazione romanì è riuscita a sopravvivere pagando, però, un prezzo elevatissimo che è ancora sotto gli occhi di tutti: la negazione della romanipè (cultura e identità romanì), l'umiliazione , la discriminazione e un’immagine di degrado. Il tutto ben mistificato dalla propaganda dei mass midia. La morte dei bambini Rom ( per assideramento o per cause conseguenti a corto circuiti o malattie) nei "campi nomadi", ovvero nei lager moderni, espressione ignobile di segregazione razziale e di negazione della vita, è da considerarsi come una continuazione incessante del porrajmos o baro romano meripen (il genocidio nazi-fascista dei Rom e Sinti) e quindi un crimine contro l'umanità. Un retaggio della cultura nazi-fascista oscura queste vittime. Non son bastate, forse, 500 mila vite innocenti, umiliate e trucidate all'ombra della svastica? Li dove le comunità romanès hanno trovato le condizioni ideali sono rimaste, a conferma che erano alla ricerca di una Patria. Per questo abbiamo disseminato Rom, Sinti, Kalè, Manouches e Romanichals in tutto il mondo, in tutti i continenti con oltre 12 milioni di persone. Allo sterminio sistematico (l'ultimo quello dei nazi-fascisti durante la Seconda guerra Mondiale, in cui oltre 500.000 Rom e Sinti sono stati barbaramente massacrati), le comunità romanès hanno risposto con atteggiamenti di rivalsa e di scherno. Questa realtà non riguarda, oggi, tutte le comunità romanès: in Italia esistono comunità di Rom e di Sinti che nonostante tutto con moltissime individualità sono riusciti a superare le spinose barriere razziali e ad inserirsi nel contesto sociale maggioritario; si pensi ai musicisti, agli artisti, ai giostrai e ai circensi, ma anche a piccoli imprenditori, venditori ambulanti, commercianti e in Abruzzo anche infermieri professionali e impiegati statali.
L'emarginazione, il furto e l'accattonaggio non sono espressioni culturali, ma fenomeni sociali e come tali vanno affrontati. La cultura è un'altra cosa; faccio un esempio: quando parliamo di cultura italiana, non si spiega prima il fenomeno mafioso e camorristico, il terrorismo e la pedofilia per poi parlare di Leopardi e Verdi. La cultura Romaní è l'unica ad essere "forzatamente" confusa con gli aspetti più deleteri della sua comunità, come se solo le comunità romanès avessero difetti. Con le buone intenzioni, si affronta la cultura romaní associandola ad handicap e droga e quindi una cultura diventa un problema sociale. Questo atteggiamento, o meglio questa strategia, in realtà cela la volontà di non conoscenza, alza barriere razziali e una contrapposizione violenta.
L'opinione pubblica così non solo resta ignara e nella più completa disinformazione, ma si priva del diritto alla conoscenza di una civiltà; faccio un altro esempio: cosa si conosce realmente della lingua, della letteratura, della pittura e della scultura, della musica (a parte quella banalmente
commercializzata) di queste comunità? La risposta purtroppo è facile: poco, pochissimo, per non dire quasi nulla. E ancora: come vivono gli eventi della vita, quali la nascita, la morte, il matrimonio? Quanti e quali articoli o programmi radiofonici o televisivi sono stati prodotti per promuovere realmente questa enorme ricchezza culturale e umana? Quante opportunità ha il soggetto Rom di potersi mettere in evidenza positivamente? E quante per offrire la propria cultura
fraternamente? Perché quando si parla delle comunità romanès le immagini sono sempre
volutamente pietistiche e provocano danni spesso irreparabili? Perché generalizzare continuamente? Perché l'errore del singolo porta alla condanna di tutte le comunità romanès? Queste sono riflessioni profonde di chi ha realmente intenzione di migliorare la situazione per tutti. In Italia, purtroppo, a causa soprattutto di associazioni pro-rom e di sedicenti "esperti" che sono spessissimo opportunisti senza scrupoli, l'affermazione di una intellettualità Romaní è ritardata con conseguenze fortemente pregiudizievoli per la nostra stessa esistenza culturale. Associazioni di pseudo volontariato traggono profitto da tale situazione e si pongono come "organi di controllo" della popolazione romanì. Chi tace è complice! Negli ultimi 40 anni lo Stato italiano attraverso gli enti pubblici locali ha elargito all'interno del territorio nazionale centinaia di miliardi in favore del popolo Rom che purtroppo non ha avuto nessun beneficio culturale da questi finanziamenti, anzi si è visto sempre più relegato nei "campi nomadi", ovvero nei "lager moderni" che anche nella ripugnanza e nel nome vuol ricordare i lager dei nazi-fascisti. Purtroppo nella giornata della memoria dell'Olocausto che si celebra il 27 Gennaio questo viene spessissimo omesso e quindi senza il ricordo del massacro dei Rom, degli omosessuali, dei testimoni di Geova e degli antifascisti la memoria diventa mutilata. I Rom che, oggi, sono costretti a vivere ammassati e stipati nei "lager civili" o "pattumiere sociali"perdono la loro identità e la loro cultura millenaria. È ciò che è accaduto ai pellerossa d'America, che, costretti a vivere nel ghetto della riserva, sono stati "deteriorati" e oggi la maggior parte di loro sono alcolizzati e drogati. È chiaro che frustrati e disillusi i Rom provenienti dai territori della Ex Jugoslavia costretti a vivere in Italia nei "lazi plebei" e che nelle loro città di origine vivevano in case (spesso in confortevoli ville), con i loro lavori e i loro mestieri, "scoppiano" e quindi hanno un rapporto assolutamente negativo con la società circostante. Semplici fatti sociali vengono elevati a modelli culturali e l'errore del singolo si ripercuote sulla condanna di tutte le comunità romanès. In realtà la cultura Romaní non viene così conosciuta e viene mistificata. I lager moderni vanno smantellati e vanno attuate politiche diverse. La popolazione romanì non ha nessun problema a sedentarizzarsi e a vivere con gli altri, se le condizioni lo permettono.
Le organizzazioni pro-romanès, con il loro becero assistenzialismo, per giustificare il loro "potere" e la creazione di "ziganopoli" attraverso "progetti fasulli", con spreco di soldi e di energie, hanno tutto l'interesse a che la situazione non cambi ed è chiaro che non sanno che farsene di artisti e di intellettuali Rom capaci di pensare e di auto-rappresentarsi. Per carità, ci sono anche persone motivate da buone intenzioni, purtroppo con le buone intenzioni si fanno dei danni enormi, non è
quindi l'intenzione che conta, ma il risultato. La mia esperienza e la mia affermazione professionale al di fuori di queste organizzazioni pro-rom dimostra il loro totale fallimento e smaschera i loro veri obbiettivi. Chi non denuncia queste situazioni è moralmente corresponsabile. Noi Rom non possiamo e non vogliamo delegare il diritto a rappresentarci.
Chi ci è veramente amico non si arroga questo diritto, ma sgombera il campo dalle difficoltà
che impediscono l'incontro e lo scambio culturale vantaggioso. Il mondo romanó ha bisogno di solidarietà e non di assistenzialismo, inoltre i Rom e Sinti devono poter essere dei soggetti di confronto e non semplice oggetto di studio da parte di pseudo studiosi che, con le loro alquanto "stravaganti" teorie, creano una vera e propria cappa sul nostro mondo contribuendo ad alimentare
ziganopoli e a pagarne le conseguenze sono soprattutto i più deboli. Per ciò che mi riguarda: premesso che sono e resterò essenzialmente un musicista, poiché è la mia attività principale - che mi impegna didatticamente, ma anche con concerti con il mio gruppo in Italia e
all'estero, composizioni e produzioni discografiche - il 04 aprile 2002 ho iniziato, in qualità di titolare della cattedra di lingua e Cultura Romaní nella Facoltà di lettere e filosofia dell'Università
di Trieste, il ciclo di lezioni riguardante la storia, la cultura e la lingua delle comunità Rom, Sinti, Kalé, Manouches e Romanichals, che con i loro numerosi sottogruppi rappresentano il prismatico mondo Romanó. Le lezioni sono incentrate su una parte generale che riguarda la conoscenza dei diversi gruppi citati; integrano poi il corso seminari di letteratura Romaní e di musica Romanès con ascolto e spiegazione. La letteratura Romaní è di straordinaria ricchezza e profondità, mentre la
musica romaní del "terzo livello" , quello che i Rom, Manouches, Sinti, Kalè, Romanichals
suonano nel contesto familiare per comunicare, per mantenersi uniti, per tramandarsi, è particolarmente importante in una cultura che fino a circa 30 anni fa si è trasmessa solo oralmente, di generazione in generazione, da oltre 10 secoli; fin da quando cioè, le comunità romanès hanno abbandonato l'antica terra d'origine, ovvero le regioni a nord-ovest dell'India (attuale Pakisthan, Punjab, la Valle del Sindh, Rajasthan) hanno intrapreso un lungo ed estenuante viaggio attraverso la Persia, l'Armenia, l'Impero Bizantino, sono arrivati in Europa e da qui, con le deportazioni, nel resto del mondo. La musica del terzo livello è quella meno conosciuta anche fra gli etnomusicologi ed è quella che meglio conserva le tracce del suo passato storico e culturale. Gli altri due livelli sono quello dell'intrattenimento sociale e quello professionale che poco hanno a che fare con la
musica eseguita nel contesto familiare. Il mio corso universitario è una grande conquista perché ci dà la grande opportunità di "donare" e di far conoscere correttamente e in maniera veritiera la secolare cultura Romaní, senza intermediazioni deleterie. Questo corso universitario non solo pubblicamente ridona al popolo Rom la dignità che gli appartiene, ma crea le premesse per lo sviluppo della "terza via" ovvero della "terza scelta". Mi spiego: si poteva essere Rom o emarginato (anche auto-escludendosi) o assimilato, oggi la mia esperienza dimostra alle nuove generazioni che
si può restare Rom, essere fierissimi della propria cultura ed identità e nello stesso tempo essere un soggetto attivo e partecipe alla vita sociale, economica e culturale della società maggioritaria, contribuendo al suo sviluppo senza per questo avvilire la cultura d'origine. È questa, a mio avviso, la strada da battere, ma occorre munirsi -da parte di tutti- di tanto coraggio e di tanta pazienza, la
strada che porta alla città della felice convivenza è all'orizzonte, seppur piena di insidie.
Il mancato riconoscimento della nostra lingua, nel quadro della legge che tutela le lingue minoritarie in Italia, dovuto a una totale incomprensione che affonda le sue radici nella più completa disinformazione è un ulteriore atto discriminatorio nei confronti di Rom e Sinti. Perfino i Cimbri che in Italia sono appena 800 persone, hanno avuto il giustissimo e sacrosanto diritto al loro riconoscimento linguistico, quando invece Rom e Sinti con oltre 100mila persone residenti in Italia da almeno 6 secoli non hanno avuto questo privilegio. Spero vivamente che questa legge mutilata e incompleta venga rivista, che ci sia maggiore informazione e meno pregiudizi poiché l'opinione pubblica viene privata del diritto alla conoscenza. La lingua Romaní, ripeto, appartiene all'umanità, non solo al popolo che con essa si esprime; così come appartengono al patrimonio dell'umanità la nostra cultura e la nostra arte nelle loro molteplici espressioni.
La lingua Romaní non ha nulla a che vedere con la lingua Rumena, né tantomeno con le lingue
romanze, né con il romanesco, ma è una lingua strettamente imparentata con le lingue neo-indiane come l'Hindi e deriva dal Sànscrito. Essendo tramandata oralmente si è arrichita nel corso dei secoli dei vocaboli dei popoli con cui è venuta a contatto, quindi si è arricchita di imprestiti del persiano antico, dell'armeno e del greco antico , e quindi in Europa degli imprestiti delle parlate e dei dialetti europei, a seconda dell'itinerario seguito. È una lingua viva e vitalissima che come tutte le lingue ha numerose varianti dialettali. Da quarant' anni, grazie ad una valente generazione di intellettuali, la lingua Romaní si scrive ed è nata una fiorente letteratura che purtroppo pochissimi conoscono. La mia esperienza di musicista, come ho già accennato, rimarca questo concetto: quando il pubblico presente ai miei concerti, man mano che essi si snodano, viene informato sugli
aspetti storico-culturali della nostra etnia e quando ad un certo punto invito il pubblico a superare le barriere linguistiche e razziali, cantando tutti assieme in lingua romaní, la risposta è sorprendente, la partecipazione è massiccia. Ciò dimostra fondamentalmente due cose: da una parte l'esigenza della conoscenza e la predisposizione a scoprire un mondo diverso, dall'altra si sottolinea l'unicità del genere umano nella sua diversità culturale. Per questo ogni cultura merita lo stesso rispetto; "l'altro" in realtà siamo noi stessi, occorre quindi non incontrarsi, ma ritrovarsi.
Un caro saluto in lingua Romaní: “But Baxt ta Sastipè” (che voi possiate essere tanto sani e fortunati).