El Ghibli - rivista online di letteratura della migrazione

Nota biografica | Versione lettura |

amore

gabriella kuruvilla

Lui era ancora un bambino. Aveva solo diciotto anni. E un futuro segnato: entro la fine dell’anno avrebbe dovuto sposare la donna che ormai da tempo la sua famiglia gli aveva scelto come moglie. Lei era bella, come può esserlo un’adolescente. Aveva un corpo acerbo, che chiedeva affetto e tenerezza, più che matrimonio e gravidanza. Ma matrimonio e gravidanza era quello che le si chiedeva, che le si imponeva. Affetto e tenerezza, se fossero mai arrivati, sarebbero stati doni gratuiti, davanti a cui lei doveva inchinarsi, a mani unite palmo contro palmo e dita contro dita come se stesse recitando una preghiera, chinando il capo e alzando gli occhi solo per dire grazie, nel modo più silenzioso, dolce e modesto, sottomesso, possibile.
Lei vestiva sempre una divisa: l’abito della scuola. Si alzava presto la mattina, andava in giardino e prelevava l’acqua dal pozzo con un secchio che poi si rovesciava addosso per lavarsi e asciugarsi velocemente sotto i primi raggi del sole. Rientrava a casa avvolta in un asciugamano, lo appendeva a un gancio infisso nel muro e indossava una camicia bianca e una gonnellina blu. Così abbigliata si sedeva al grande tavolo imbandito della cucina e beveva del chai mangiando qualche idli, la nonna le urlava “Prendi almeno un pò di riso e qualche banana” ma lei faceva sempre a finta di non sentirla e correva verso il pulman che la portava dal paese alla città. Dalla calma spenta di Chingavanam all’accesa frenesia di Kottayam. Correva tra i sassi e la polvere, gli alberi e i fiori, con una borsa piena di quaderni e di penne, di conti e di lettere, di informazioni e di pensieri. Correva e sorrideva. Tornava a casa per il pranzo felice di poter riabbracciare i nonni, i genitori, i fratelli ma soprattutto Thankam, nata da soli quattro mesi. La sua adorata, splendida, sorellina, che lei accudiva come una figlia, per dovere e per desiderio. Aveva anche provato ad allattarla, un giorno, seduta in mezzo al giardino fiorito con la schiena appoggiata al tronco di un albero. Ma si era accorta con stupore, delusione e tristezza che i suoi piccoli seni non producevano alcun liquido e rimanevano impassibili, secchi e inutili, aridi come la terra prima del monsone. Attendeva il suo monsone, pur sapendo che doveva pazientare ancora. Ma il tempo dell’attesa per lei non era mai stato un problema: un fiore va innaffiato a lungo e con calma per poter sbocciare senza marcire, pensava. Aveva staccato Thankam dal seno, si era riabbottonata la camicetta, l’aveva abbracciata forte e poi era rientrata a casa per posarla nella culla in vimini che la madre aveva intrecciato con cura e dedizione pochi giorni prima di partorire. L’aveva osservata in silenzio, per ore, seduta di fianco a lei, sui gradini ombreggiati dal patio. Assorbiva i movimenti, i gesti svelti e abili, della madre per farli suoi, e poterli un giorno riprodurre. Quando avrebbe dato il primo figlio, perchè il primo sarebbe stato assolutamente un maschio, al suo futuro marito.
Le due famiglie si erano accordate bene. Senza lasciare nulla al caso e all’improvvisazione. Avevano deciso e pianificato tutto, con largo anticipo. Mary era appena venuta al mondo ed era già la promessa sposa di Chacko, un bambino di cinque anni. Che passava le sue giornate scalzo, coperto solo da un longhi, arrampicato sugli alberi per raccogliere i frutti o immerso tra le erbacce per cacciare i serpenti. Quando non appicava il fuoco alla coda dei gatti per vederli correre come un razzo tra i prati. Lui era già proprietario: di una piccola cassetta in legno per le api che aveva costruito con le sue mani, precise e ferme. Quelle mani che adesso voleva mettere al servizio della medicina, per tagliare e ricucire, operare e guarire le persone ammalate. Il suo futuro marito sarebbe stato un futuro chirurgo, e lei era fiera di lui. Era pronta, preparata e addobbata, per lui. Come Chacko, Mary proveniva da un’ottima famiglia comunista e cristiana, economicamente ricca e moralmente ineccepibile. Che le aveva confezionato una dote di tutto rispetto: non solo rupie e ori, ma anche pentole in rame, lenzuola in seta, mobili in legno intarsiato e... . E una casa coloniale in stile portoghese, con un grande patio e un enorme pozzo, dove avrebbe potuto accudire una schiera di bambini festanti e ridenti, che giocavano e si rincorrevano nell’immenso giardino ricco di piante, fiori e frutti tropicali. Una casa tutta arredata e sempre immacolata. Perchè i suoi genitori ci avevano già portato i mobili e lei andava tutti i pomeriggi a pulirla. Pensando a quando avrebbe lavato le lenzuola e spolverato gli armadi, con i seni perennemente gonfi di latte, aspettando suo marito che, di ritorno dall’ospedale, si sarebbe seduto a tavola con lei e con i loro figli. E davanti agli innumerevoli piatti stracolmi di riso e di curry, sgranocchiando con noncuranza un dosa, le avrebbe raccontato fin nei dettagli l’ultima operazione chirurgica che aveva concluso con successo, senza che lei provasse nausea o noia per quelle descrizioni truculente e minuziose.
Improvvisamente si mise a piangere. Lacrime silenziose e timide le rigavano il volto, sciogliendo il kajal e offuscando i suoi occhi, neri intensi e tristi, che socchiudeva piano nel tentativo inutile di arginare il dolore. Le accadeva sempre, quando pensava a lui: a quello che doveva essere e a quello che sarebbe stato. Le accadeva infatti di essere la promessa sposa dell’uomo più bello, fiero, sincero e onesto del paese. Talmente sincero e onesto che gliel’aveva detto, che non la voleva. Si erano incontrati lungo la riva del fiume. Lui andava lì ogni pomeriggio, a pescare e a meditare. Sognando un giorno di potersi comprare da solo, senza i soldi del padre ma unicamente con i suoi, una piccola capanna in legno, con una grande veranda che guardava verso il fiume. Lì, sulla veranda, avrebbe appeso un’amaca, e ci si sarebbe sdraiato, masticando erba, per pescare e meditare. Lei sapeva che lui ogni pomeriggio andava lì, per sedersi sulla riva del fiume. Ma non sapeva che quelle stesse acque che confluivano nell’oceano ben presto glielo avrebbero portato via. Ogni pomeriggio, dopo aver pulito meticolosamente il loro nido d’amore, lei si nascondeva dietro a una palma, e lo guardava. Un giorno una noce di cocco cadde dall’albero, e si fermò davanti ai suoi piedi. Per ritemprare il suo corpo, sfibrato più dall’umidità che dal caldo, si avvicinò al frutto, lo spezzò contro una roccia, guardò il liquido biancastro che conteneva e si avvicinò al promesso sposo. Senza pensare. Perchè non c’è bisogno di pensare per condividere. Fu così che l’uomo, spaventato, si voltò di scatto, la vide e si gettò nel fiume. Lei rimase immobile, a guardarlo, con la noce di cocco spezzata in mano. Lui si sentì ridicolo e infantile e nuotò a vigorose bracciate verso di lei. Aveva la camicia e i pantaloni inzuppati che gli aderivano al corpo. Lei per la prima volta si rese conto di cosa fosse l’erotismo, quel desiderio che nasce dal cuore e ti bagna la vagina, ma non ne fece parola con nessuno, tantomeno con se stessa. Lui le sorrise. “Ciao Mary”, disse. Non aveva mai sentito il suo nome pronunciato da lui, e provò allo stesso tempo imbarazzo e emozione. “Ciao Chacko”, rispose languida come può esserlo un’adolescente che si scopre improvvisamente una donna. “Partirò”, le disse lui. “Dove andremo?”, chiese incuriosita lei. “Dove andrò”, rispose lui voltandole le spalle e guardando l’orizzonte. Lei scappò via, e lui non la rincorse. Sentendosi improvvisamente leggero. Mentre il liquido biancastro fuorisciva dalla noce di cocco e veniva immediatamente assorbito da terreno. Senza lasciare alcuna traccia di sè.
Chacko sapeva che, perdendo lei, avrebbe perso tutto. Che rifiutando lei, sarebbe stato rifiutato da tutti. Dalla sua famiglia, che era il suo tutto. Come un ramo rotto che cade dall’albero, e non può più appapartenergli. Come un frutto maturo che si stacca dal ramo, mettendo a rischio la sua stessa sopravvivenza. Per la prima volta un discepolo dell’apostolo San Tommaso negava il suo destino. Tracciava una riga sopra ciò che era stato scritto per lui, appollottolava il foglio e lo gettava in mare. Per ricominciare da capo, uccidendo il passato, immaginando un futuro. Non esisteva immaginazione, ma solo regole e doveri da rispettare, nella storia dei suoi avi. Che stava infangando, imponendo la sua volontà contro la loro tradizione. Perchè da che mondo e mondo, nel suo mondo, la volontà personale coincideva con la tradizione sociale. E nessuno si sottraeva a un matrimonio combinato da famiglie da sempre legate da legami parentali. Chacko era la pecora che usciva dal gregge, offendendolo. Chacko era un rivoluzionario, inconsapevole. Chacko era l’uomo che scrollava da sé Mary, come si fa con una mosca che ti si appoggia sulla spalla. Chacko era l’uomo che aveva rinnegato Mary, minando per sempre la sua autostima. Mary era la donna non voluta, che nessuno avrebbe mai più voluto. Mary era la donna dai seni immutabilmente impassibili, secchi e inutili, aridi come la terra prima del monsone. E per lei non sarebbe mai arrivato nessun monsone. Mary era la donna rifiutata, che decise di rifiutarsi come donna, cercando di rimanere per sempre bambina. Una bambina che non avrebbe mai più allattato perché doveva ancora essere allattata, e avendo perso il latte che desiderava si negava qualsiasi altra forma di cibo. Fino a morire. Per denutrizione, mentre la nonna in cucina preparava qualsiasi piatto pur di indurla a mangiare: “Prendi almeno un pò di riso e qualche banana”, le diceva, non più urlando ma supplicando. Con una rabbia nuova, che nasceva dalla frustrazione e diventava rancore, mascherata sotto coltri di falsa dolcezza. “Prendi almeno un pò di riso e qualche banana”, le diceva e sorrideva, inghiottendo rabbia, frustrazione e rancore. Mentre gettava gli alimenti cucinati e non mangiati nella spazzatura. Perchè se non erano per lei non sarebbero stati per nessuno. Mary non faceva più a finta di non sentirla. Non la sentiva, e basta. Non sentiva più nulla, neanche se stessa. Neanche il dolore.
L’università statale di Medicina aveva respinto la domanda di iscrizione di Chacko: tutti i posti erano riservati, per legge, agli induisti e ai mussulmani. Tutti meno uno, destinato a un cristiano, che non era lui. Nonostante vantasse un curriculum scolastico eccelente, non era abbastanza povero per essere accettato. Il cristiano accettato doveva essere molto bravo, ma anche molto povero. Lui era solo molto bravo. Suo padre si era privato di tutte le terre che gli appartenevano per ridistribuirle tra i bracccianti che ci lavoravano, ma non era caduto in disgrazia. Non era molto povero, ma non era neanche abbastanza ricco: non poteva certo permettersi di pagare al figlio le esorbitanti rette di una scuola privata. Per questo Chacko amava e odiava, rispettava e disprezzava, suo padre. Un uomo che in nome di un ideale politico aveva minato la vita dei suoi stessi figli. E non aveva più alcun diritto di determinarla. Tantomeno con un matrimonio combinato. Chacko aveva deciso di partire, abbandonando Mary al suo non destino, per costruirsi il proprio. Aveva deciso di andare in Italia, dove c’era il Papa, un surrogato del padre, della famiglia e della tradizione. Un’istituzione religiosa che gli permetteva di sentirsi ancora parte della sua storia personale. In Italia inoltre c’era un’ottima Università statale di Medicina, che non l’avrebbe certo respinto in quanto cristiano non povero e non ricco. Dopo tre giorni di pioggia, intensa e continua, aveva lasciato i genitori e i fratelli, e si era imbarcato. I genitori e i fratelli l’avevano lasciato andare, scuotendo la testa, per la prima volta in segno di diniego e non per costume. Lo odiavano e lo amavano, lo disprezzavano e lo rispettavano, per questo suo gesto. Incomprensibile, e per questo difficilmente giudicabile. Chacko portava con sé la stessa valigia in cartone che negli stessi anni i pugliesi caricavano sui treni, insieme ai formaggi e ai vini, diretti in Lombardia. Non c’erano formaggi e non c’erano vini, con lui. Tantomeno spezie, solo una sciarpa azzurra che la madre aveva tessuto per lui. “Perchè farà freddo, dove andrai”. Una sciarpa che un marinaio aveva trovato tra le sue cose, alla ricerca di soldi, argenti o ori, e che poi si era arrotolato sopra il capo, a mo’ di turbante, per sbeffeggiarlo davanti a tutti gli altri passeggeri. Non sapendo che i sikh usano i turbanti, mentre lui era un semplice cristiano. Un cristiano non povero e non ricco, un’inutile via di mezzo. E per questo se ne andava. Il viaggio in nave che lo avrebbe portato da Cochin a Napoli era durato undici giorni. Undici giorni di passaggio, non vissuti e non pensati. Undici giorni di sospensione dal reale. Mangiati e dormiti, come un vegetale che aspetta di essere scaricato sull’altra sponda del mare. In un mondo altro, solo suo. Napoli e poi Roma. Vedi Napoli e poi muori. Era morto. Di spaesamento: tra persone, strade, cieli e mari che non riconosceva. Che non voleva conoscere. Napoli gli sembrava la parodia di Trivandrum, una città caotica e povera, orrendamente sgarruppata, impazzita dal traffico, frastornata dal rumore e intasata dallo smog, da cui voleva al più presto scappare. Aveva preso il primo pulman per Roma. Roma e il Vaticano. Il Vaticano e il Papa. Il Papa, l’ultimo legame tra lui e loro, tra Chacko e la sua famiglia. Il Papa, visto da lontano, tra la folla. Lui, l’unica macchia nera in un’enorme distesa bianca. Lui, il diverso di razza tra gli uguali di religione. Lui, l’unico che non capiva quello che ascoltava. Lui, l’estraneo. Che aveva vissuto Napoli con gli occhi della paura, Roma con il desiderio di appartenenza e Milano con il miraggio della speranza. Milano, e quell’orrendo pensionato studentesco. Una camera di sedici metri quadri con bagno e cucina. Se bagno si può chiamare un water a vista e cucina si può chiamare un fornelletto da campeggio. Per Chako il water era il giardino di casa, che lui innafiava e fertilizzava ogni giorno, mentre la cucina era un enorme laboratorio pieno di fuochi e ripiani dove la madre e le sorelle, in un’alchimia del tutto femminile, trasformavano elementari alimenti crudi in raffinate pietanze cotte.
Chacko passava le sue giornate chinato sui libri scritti un una lingua a lui sconosciuta che per forza di volontà apprendeva. Non usciva mai. Se non per andare all’Università, seguire i corsi, prendere appunti, tornare al pensionato, studiare in camera e poi uscire di nuovo. Per dare l’esame. Sempre il solito. Il solito professore che quando Chacko entrava in aula metteva i piedi sul tavolo e poi lo interrogava con il gusto di poterlo bocciare. “Sporco negro, cosa vuoi diventare?”. Un medico, stimato e rispettato da tutti. Anche da te, sporco bianco idiota e volgare. Chacko di notte piangeva, sdraiato sul suo materasso che aveva accolto miliardi di altri corpi forse disperati come il suo. E singhiozzando sentiva il cigolio delle reti metalliche della brandina, che come un’orchesta a un solo fiato sembravano accompagnare ritmicamente il battito del suo suono gutturale. Chacko alle volte di giorno guardava le vetrine dei negozi, e sognava di poterci entrare e comprare quello che voleva. Lui voleva il meglio per sé, mentre stava vivendo il peggio per chiunque. Chacko alla fine quell’esame l’aveva superato per una resa del professore che forse preferiva non vederlo più che vederlo ancora. Anche un sadico può smettere di giocare. Magari per un attimo di distrazione, in cui la preda gli sfugge irreversibilmente dalle mani. Chacko, per festeggiare, era andato con altri suoi compagni di corso in montagna, e aveva visto la neve. E aveva incontrato l’amore. Una donna bianca, bella, con gli occhi verdi e i capelli neri, che gli aveva spiegato a cosa servivano gli sci e gli scarponi. Chacko aveva deciso che quella sarebbe stata sua moglie. A dispetto delle convenzioni, e della tradizione. Di lei, di lui, di loro.

Inizio pagina

Home | Archivio | Cerca

Archivio

Anno 3, Numero 12
June 2006

 

 

©2003-2014 El-Ghibli.org
Chi siamo | Contatti | Archivio | Notizie | Links