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Mi sveglio di soprassalto, e mi ritrovo in una strana stanza, le immagini della nostra tenuta a Camaguey ancora in testa. Mi metto a sedere. Coño, come sono arrivata qui? Mi stropiccio gli occhi, togliendo via la cispa, e mi guardo intorno. Di fronte al letto, c’è un armadio: ha la serratura rotta e una delle ante è socchiusa. Le tende alla finestra sono verde chiaro, la stanza è invasa da freschi spicchi di luce. Sul muro, al lato del letto, sono attaccate tre foto. Mi infilo le pantofole grigie che trovo ai piedi del letto e mi alzo.
Tre bambini sorridenti mi guardano, dalla prima cornice: un ragazzo con un cappello da baseball, seduto tra due ragazze più grandi. Nella seconda fotografia, c’è un giovane in tocco e toga. Ha un aspetto vagamente familiare e lo fisso a lungo, ma non riesco a inquadrarlo. Mi sposto verso l’ultimo ritratto sul muro, e vedo una donna dagli occhi fiammeggianti, le labbra rosse, e i capelli castani acconciati in uno chignon. È vestita in modo elegante, tiene la borsetta sotto un braccio, mentre con l’altro cinge il suo attraente compagno, come se il fotografo l’avesse immortalata mentre andava a cena in un ristorante di lusso. Mi tocco la parte posteriore del collo e sento le punte dei capelli aride, e so che il mio aspetto non è per niente elegante. In effetti, ora indosso un pigiama di flanella, senza forma. Non so come ci sono finita dentro.
Vado alla finestra e apro le tende. Fuori, l’erba è verde, con chiazze secche, gialle, attorno alle punte. Alti pini fiancheggiano il muro posteriore del cortile. Niente di tutto questo mi dà indizi, così mi allontano dalla finestra. Come sono arrivata qui?
Apro l’anta dell’armadio e trovo molti abiti, tutti fin troppo eleganti. Mi fanno pensare a quando ero una donna giovane e, a Natale, ero andata a trovare mia zia all’Avana. Mi portò a fare una passeggiata lungo il Malecón, e gli uomini ci fischiavano dietro, quando li incrociavamo. Ma questi vestiti non sono miei. Non so cosa fare. Non voglio prendere qualcosa che non mi appartiene. Ma se mai dovessi tornare a casa, dovrò pur vestirmi. Esitante, do un’altra occhiata agli abiti e scelgo una camicetta beige e un paio di pantaloni. Mi infilo la camicetta ma faccio fatica a capire come tirare su la zip dei pantaloni. Li indosso, con la lampo aperta, e tiro giù la camicetta perché mi copra la vita. Quindi sistemo la sobrecama sul letto, per renderlo almeno presentabile.
Apro la porta della stanza e guardo in giro. Il corridoio è ancora buio e la casa è tranquilla. Seguo il vestibolo e arrivo in una cucina luminosa. Adesso che mi trovo al centro della stanza, sento i morsi della fame. Prendo una banana dalla fruttiera sul bancone. La mangio, ma non so dove gettare la buccia. La rimetto nella fruttiera.
Resto sul bancone e, dalla finestra della cucina, osservo le case che si allineano fuori, sulla strada. Riesco a vedere uno stop a qualche metro di distanza, proprio dove la via si immette in una strada trafficata. Scommetto che da lì potrei raggiungere presto casa.
Sento dei passi provenire dal corridoio e, voltandomi, scorgo un giovane in vestaglia. Mi sembra familiare e gli sorrido. Non so chi sia, ma forse potrà aiutarmi a scoprire come sono finita qui e, magari, mi riporterà a casa.
«Buenos días» dico.
«Buenos días» mi risponde. E affonda la mano tra i capelli scompigliati. Raccoglie la buccia di banana e mi faccio di lato quando apre il mobiletto sotto il lavello per gettarla nel bidone della spazzatura.
«Non sapevo dove fosse» dico.
«Lo so» risponde.
Apre una credenza per prendere una ciotola e una scatola di cereali. Sta prendendo il latte dal frigorifero quando gli chiedo se può accompagnarmi a casa.
«No» dice.
«Oh» rispondo, presa alla sprovvista dal suo tono piatto.
«Non è per niente lontano» inizio. «Credo sia da quella parte» e indico la strada, fuori.
Versa i cereali nella ciotola, aggiunge il latte e sguscia fuori dalla cucina. Lo seguo perché non so che altro fare. È seduto su un divano in soggiorno e accende la tv. Mi siedo vicino a lui. Aspetto che finisca di mangiare e quando vedo che ripone la ciotola sul tavolino, gli chiedo, con il mio tono più gentile: «Potresti accompagnarmi a casa?»
«Sei a casa» dice con un sospiro.
«Qui?» chiedo.
«Sì» risponde.
Rido. «Ma questa non è casa mia.»
«No? E dov’è allora?»
Distolgo lo sguardo da lui e osservo il soggiorno: il divano superimbottito, la batteria all’angolo, la grande tv a colori. «Non qui.» I suoi occhi indugiano su di me, quindi dico: «Casa mia è dove c’è la mia famiglia.»
«Mamma, io sono la tua famiglia» dice, portandosi il pollice al petto.
Non so perché mi chiami mamma, ma sarebbe maleducato contraddirlo. Non so per certo chi sia, ma visto che mi sembra familiare, immagino che sia qualcuno del campos. Però non ho idea di cosa ci faccio qui, a casa sua. Così dico di nuovo:
«Voglio andare a casa da mia madre.»
«Tua madre è morta.»
Ho un tuffo al cuore e gli occhi mi si riempiono di lacrime. È una cosa crudele da dire! «Que va, que va, no, no, no. Non è morta.»
«Abuela è morta da quindici anni, mamma.»
Mi passo le dita tra i capelli. Ecco che mi chiama di nuovo mamma. Ho le vertigini. Scuoto la testa. Non può essere. No che non può essere. Mi alzo. «Entonces, ci andrò da sola.» Esco dal soggiorno e mi dirigo verso la porta d’ingresso. La mia mano è già sulla maniglia, quando mi acciuffa e mi riporta indietro. Divincolo il braccio dalla sua presa. «¿Que paso?»
«Non puoi andartene.»
«Perché no? Vado a casa a piedi visto che non vuoi accompagnarmi.»
«Non siamo a Cuba. Siamo negli Stati Uniti.»
Lo guardo e non so cosa dire. Allora mi torna alla mente che abbiamo già avuto questa conversazione e che non riesco a fargli capire che io non sono a casa. Odio sapere, prima ancora che lui abbia finito di parlare, che non riuscirò a convincerlo. Provo a pensare a cosa dovrei dire, quando lascia andare il mio braccio.
«Hai fame?» mi chiede, sorridendomi per la prima volta.
«No» rispondo.
«Hai mangiato oggi?»
«No.»
«Bene, allora, prepariamo qualcosa per la colazione.»
Mi cinge con il braccio e, delicatamente, mi allontana dalla porta e mi riconduce in cucina. Potrei consumare qualcosina prima di andare a casa, penso. Mi prepara una ciotola di cereali e la mette sul tavolo della cucina. Inizio a mangiare.
Quindi prepara un bicchiere d’acqua e una pillola bianca accanto.
«Per te» dice.
«Cos’è?»
«La tua pillola.»
«Che pillola?»
«Una vitamina.»
La prendo e bevo tutto il bicchiere. Che ragazzo gentile, penso. «Grazie» dico.
Mi risiedo. Osservo come svuota la ciotola e la ripone nel lavello. Poi sguscia via dalla cucina, di nuovo, e subito sento scorrere la doccia. Così tanta acqua, penso, quando basterebbe un semplice secchio. Mi alzo e guardo di nuovo fuori dalla finestra, verso la strada principale. Se la prendo e la seguo fino in fondo, sono sicura che finirò a casa mia.
Poi il giovane torna. Ha i capelli ancora umidi e indossa un paio di jeans e una maglietta bianca con delle scritte sfavillanti. Gli sorrido. Mi sorride anche lui, ma so che la sua mente è altrove. Tengo gli occhi fissi sui suoi e quando torna a guardarmi gli dico: «Voglio andare a casa.»
«Domani» dice. «Ho da fare oggi, ma domani ti porto a casa.»
Che ragazzo gentile, penso.
Versione inglese originariamente pubblicata su Pindeldyboz:
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