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cena di famiglia

soniah kamal

«Hanno preso la donna a tempo pieno», dissi a Mike durante la cena. Il giorno prima la mia amica Noreen aveva scoperto di essere incinta, e dopo cinque aborti spontanei non era più disposta a correre rischi. «Buon per loro», disse Mike buttando giù i suoi spaghetti e facendomi segno con la forchetta di stare zitta. Stavamo guardando Fox News e sì, certo, persino io riconosco che sono più importanti le ultime novità sui furti d’auto di qualsiasi altra cosa possa aver da dire la sottoscritta: cioè, se ci rubano la macchina siamo fottuti. A Mike però non piace il tono con cui glielo dico, e neppure a me piace troppo, ma questo non cambia il fatto che se mi trovassi io in quella situazione noi non potremmo permettercela, una donna; ecco perché sono felice che non ci siano i presupposti.
Prima di conoscere Mike non avevo mai pensato sul serio ai bambini.
«Tu hai quattro sorelle, Paula», disse lui una sera attorcigliandosi i miei riccioli sull’indice, l’anello d’argento con granati che mi brillava tra i capelli come un pesce dagli occhi rossi in un mare di miele.
«E allora, tesoro?». All’epoca ero così dolce che mi stupivo di me stessa.
«Non è molto più divertente fare la zia?»
«Sì», dissi «come essere single». Mi chinai verso di lui per baciarlo ma si tirò su a sedere mentre i piedi sottili, avvolti nei calzettoni bianchi, scivolavano come aerei sulla pista di un tavolino di plastica.
«No, davvero» continuò Mike «solo coccole e moine senza la puzza di merda, il moccio o altre schifezze solide o liquide».
«Tu non ne vuoi di figli?». Anch’io mi tirai su a sedere.
Abbassò i piedi e li appoggiò saldamente sulla moquette beige. «No».
«Okay, neanch’io». Feci un sorriso e mi buttai giù di nuovo: fine del discorso. Niente notti insonni. Nessun problema di linea. Niente sacrifici a vita per mandare all’università i figli che poi magari non ci volevano neanche andare. Niente figli, insomma.

Le mie sorelle fanno fatica a capirlo, e non so proprio perché visto che stanno sempre lì a rognare e a lamentarsi che non hanno più una vita propria e che quando finalmente la riavranno, sarà passato il loro momento e toccherà ai figli. Giuro, i nostri pranzi del ringraziamento sono un vero strazio. Sta di fatto che a queste cene di famiglia la stella sono io, fresca e cinguettante, carica come arrivo di solito di ceste regalo (assortimenti di tisane, vitamine, creme e cremine comprate durante l’anno, non appena approdano allo scaffale dei saldi nel negozio di prodotti naturali dove lavoro dai tempi delle superiori).

Il mio lavoro mi piace moltissimo. Gli sconti per i dipendenti sono ottimi, posso permettermi cibo biologico a ogni pasto e prodotti alimentari di gran marca. Noi commesse ce ne stiamo senza far niente quando Ellen, la direttrice, non guarda; e se ci becca ci mettiamo a sparlare di lei, cosa che crea un forte senso di cameratismo. Al negozio ci sono tre impieghi part-time con un ricambio velocissimo; non certo una sorpresa, per chiunque si sia mai chiesto perché teniamo sempre il cartello “Cercasi personale”.

Io e Julia lavoriamo a tempo pieno. Siamo tutte e due a Wise Health da oltre dieci anni, anche se non è che ci abbiano dato una gratifica decennale o altro, per questo. Comunque Ellen ci ha portate fuori a cena, almeno, ed è stato un gesto molto carino anche se ci siamo ritrovate da Hooters, perché lì fanno le ali di pollo più buone del mondo, anche se l’impressione era che ci fossimo andate più che altro perché si trova dall’altra parte della strada. (Ellen ha delle cipolle gigantesche sulle dita dei piedi, e per questo cammina con gran difficoltà. In negozio non c’è niente che abbia funzionato ma lei è fiduciosa, e ha iniziato a leggere i libri di Deepak Chopra, che a detta di alcuni clienti è l’unico che ha veramente capito tutto.)

Il giorno che Noreen fece domanda per il posto di lavoro era stato tra i più freddi dell’anno, a Boulder. Il cielo era grigio, nevicava e tirava vento; mi tornavano in mente le giornate d’inverno negli speciali di Scrooge e Tiny Tim in televisione. Dalla porta a vetri, che con grande orgoglio conservo sempre immacolata, Noreen fece il suo ingresso con un bel cappotto rosso acceso, e io pensai: “Cazzarola, a vederla così non ha per niente freddo, e io qui a morire congelata col riscaldamento acceso”. Quasi mi aspettavo benedisse un carrello e si mettesse a girare per le nostre quattro corsie senza degnarmi di uno sguardo; dava l’idea di essere un tipo così, con quella matita da labbra color magenta perfettamente applicata e la sciarpa marrone che brillava contro gli orecchini d’oro a pendente. E invece scivolò verso la cassa, si sfregò le mani inguantate e disse:
«Fuori si gela. Mi dà per cortesia un modulo per fare domanda?».
Ma senti senti, pensai, è una di noi. Le feci un ampio sorriso e lei me lo restituì. Fui lì lì per dirle di risparmiarsi il suo sorriso smagliante per Ellen, ma poi decisi di non farlo: un sorrisone così dava una gran bella sensazione, e comunque senza dubbio un giorno sarei diventata direttrice anch’io quindi tanto valeva esercitarsi a ricevere sorrisi smaglianti dalla mattina alla sera.
«Senti» le chiesi «che ne pensi di questo tizio, Di-pac Cio-pra?»
Presi il libro che Ellen aveva riposto sotto la cassa e mostrai rapidamente a Noreen la fotografia del paffuto autore indiano.
«Non saprei» disse «Non sono indiana».
«Davvero?» risposi «C’ero quasi cascata».
«Vengo dal Pakistan».
«Che sarebbe?».
Lei procedette a spiegarmelo con la massima gentilezza (non che avessi capito, ma annuii ugualmente e ringraziai Dio che la mia vita non dipendesse dalle mie conoscenze di luoghi remoti), e poiché la gentilezza è una qualità che apprezzo molto nelle persone fui molto contenta che Ellen l’assumesse all’istante.

Ecco la cosa che mi piace del lavoro di vendita: ho l’occasione di conoscere un sacco di gente e visto che tutti, su questo pianeta, hanno bisogno di comprare qualcosa, prima o poi finirò con l’incontrare il mondo intero. (L’altro giorno è entrata una nigeriana, e quella sì che è stata un’esperienza. Grazie al copricapo che spuntava da sopra gli scaffali io e Ellen siamo riuscite a seguirla senza fare un passo, anche se ha trascorso la maggior parte del tempo nel reparto dei prodotti per diabetici. Profumava di sidro caldo e aveva dei denti bianchissimi, come tutti quelli che li curano molto... Ho detto a Mike che forse il suo paese non era proprio come lo fanno vedere sempre su Fox News nei servizi dedicati alle zone disastrate, e lui ha risposto che per una volta, forse, avevo ragione).

C’è una cosa, se lavori a contatto con il pubblico: devi essere molto tollerante, cosa non facile quando si parla di odori. Per farla breve: Noreen puzza. È una puzzola umana. Ellen le ha chiesto di andarci un po’ meno pesante ma lei si è rifiutata, considera la richiesta discriminatoria. Nemmeno Ellen le avesse ordinato di levarsi l’orecchino dal naso o di togliersi il pallino dalla fronte (non che lo abbia mai portato) o cose simili: le aveva semplicemente chiesto di usare meno profumo. Ad ogni modo i clienti non si lamentavano. Almeno uno al giorno chiedeva: «Che deliziosa fragranza, cos’è?» con gli occhi semichiusi e le narici spalancate, poi però non dovevano conviverci loro, con quel costosissimo profumo, per il resto della giornata.

Lo so perché Noreen mi ha corretto dicendomi che non era uno di quelli che si trovano normalmente nei supermercati, ma si trattava invece di vera, autentica essenza in fiale, terribilmente costosa. (Sono andata al supermercato a controllare la sua storia assurda, ma diceva la verità. Quella notte mi è venuto un gran mal di testa. Che enorme spreco di denaro, ho detto a Mike, da Walgreen si può comprare un profumo identico a dieci volte meno. Ad ogni modo, ho precisato, neppure a me sarebbe dispiaciuto ricevere di tanto in tanto l’originale, non me lo meritavo forse? Ma Mike deve aver creduto che stessi scherzando perché a tutt’oggi non ne ho ancora visto neanche l’ombra.)

Comunque Noreen dà il massimo quando mi fa i regali di Natale e di compleanno. Grazie a questi quattro anni di amicizia ho messo insieme una collezione di borsette niente male. Quelle tonte delle mie sorelle non si rendono conto del valore della roba che mi porto appresso; e pure a me vengono i brividi quando penso che prima di Noreen neanch’io ne avevo la più pallida idea. Mike mi capisce, pensa lo stesso di quelli che non riconoscono le macchine a prima vista.

A Mike non piace granché il marito di Noreen. Lo chiama Mister Calzini di Seta e sì, d’accordo, è un po’ stucchevole con quelle magliettine bianche di cotone, il vino rosso quando invece Mike preferirebbe una birra ghiacciata, e il tè verde servito nelle tazzine decorate con i draghi: sono così piccole, così delicate che la battuta di Mike di sbriciolarle con il pugno è davvero fuori luogo nel salotto di Noreen, soffocato com’è da lussuosissimi tappeti e quadri prestigiosi che evidentemente si sono fatti spedire via mare da casa. (Parlando con una delle mie sorelle mi sono riferita al Pakistan dicendo “a casa” e lei ha detto: «Ma senti questa! Tu passi troppo tempo con quella ragazza».)

E allora? Noreen è uno spasso. Ha queste superciglia folte come fili d’erba, lunghe come la coda di un puledro e nere come gli zebedei del diavolo; ci starei delle ore a guardarla. Non potrei essere Noreen, mai nella vita, né lei me, per quanto certe volte, distesa accanto a Mike, non che lui se ne accorga perché dorme sempre come un ghiro, penso: perché mai lei dovrebbe desiderare di essere me, e non è un bel pensiero perché in parte essere soddisfatti della propria vita implica che ci siano altri che vorrebbero viverla.

Per Noreen il solo aspetto allettante della mia vita, e lo so perché lo ripeteva in continuazione (il che m’induceva a chiedermi quanto m’invidiasse per davvero, perché io l’invidia non la confesserei mai ad alta voce) era il mio desiderio di non avere figli.
«Voi americane siete così fortunate», diceva. «Non sentite la necessità biologica di essere madri, vi siete evolute a tal punto da bastare completamente a voi stesse».
Non mi davo la pena di correggerla. Primo perché non mi avrebbe mai creduto e secondo perché presto o tardi avrebbe incontrato le mie sorelle e si sarebbe accorta di aver preso un bell’abbaglio.

I primi tempi della nostra amicizia chiesi a Noreen che cosa ci facesse, una come lei, a riempire scaffali a Wise Health con cinque diverse varietà di tavolette proteiche quando avrebbe potuto benissimo permettersi di vivere direttamente alle terme. (Io sono un tipo diretto; Mike sostiene che fa parte del mio fascino, anche se il modo in cui dice “fascino” la fa sembrare una parolaccia). Fu allora che Noreen mi disse dei cinque aborti spontanei, e che voleva tenersi occupatissima fino all’arrivo di un figlio. Perché Wise Health? Perché dista cinque minuti a piedi da casa sua (ci sono anche un Hooters e un Donut Shop ma a quanto sembra, dice lei, nessuno dei due ha il prestigio di un negozio di prodotti naturali) e poi perché, visto che “a casa”, a quanto pare, ha sempre avuto un autista, non ha mai preso la patente e non lo farà, terrorizzata com’è di mettere sotto qualcuno.

Devo ammettere che è davvero una goduria, guardare Noreen che spolvera gli scaffali delle erbe sfuse e tossisce come una matta se una sola punta di lavanda, ortica o camomilla le vola davanti alla faccia. Mi sento come il vero amore del principe Carlo, Camilla Bowles, mentre osserva Lady D che si imbratta. Il giorno che Noreen trovò un ratto morto dietro alla tazza del bagno fu grandioso. Per poco non sveniva. Alla faccia del prestigio, pensai fingendomi completamente a mio agio mentre depositavo la grossa palla grigia in una busta e la gettavo nella pattumiera. Noreen la considerò un’ulteriore prova di evoluzione della donna americana, capace non solo di dispiacersi per i parassiti morti ma persino di toccarli.
«In pratica siamo perfette» dissi scherzando «fa niente se ci compriamo gli abiti da sera nei negozi dell’usato e se il nostro concetto di divertimento implica, per definizione, pelle nuda a volontà». Io stavo cercando di convincere Noreen sul bello della nudità, e lei di persuadere me circa la massima copertura; se non sbaglio fu più o meno in quel periodo che cominciò a trascinarmi ai raduni per l’Eid, il Natale islamico.

La prima volta non mi misi niente di speciale, jeans e maglietta di strass. Avevo paura di ritrovarmi davanti un branco tristissimo di gente vestita da cornacchia e intenta a sviscerare gradazioni fra peccati e peccatori, e invece rimasi piacevolmente sorpresa. Di certo erano tutti coperti da capo a piedi però erano allegrissimi, un vero turbine di chiacchiere e risate con un milione di bambini che correvano tra le gambe degli adulti i quali li accarezzavano indulgenti dando l’impressione di sapere sempre chi fosse figlio di chi. Sembrava una rumorosa cena di famiglia in cui tutti si piacevano davvero, o almeno fingevano così bene da ingannarmi completamente. (Devo dire però che la segregazione tra i sessi – volontaria, puntualizzò Noreen – con le donne raccolte da una parte della sala e gli uomini dall’altra, mi spaventò a morte. Sembrava che fossero tutti in castigo, dissi a Mike, oppure omo.)

A questa particolare festa di Eid, come a tutte le altre cui avrei partecipato, ognuno portava qualcosa da mangiare. La prima volta rimasi senza fiato davanti alla quantità di cibo sul tavolo il quale, se avesse potuto parlare, avrebbe urlato “Abbiate pietà”. Al primo raduno avevo portato un’insalata di gamberetti di Costo, antipasto a mio parere squisito e piuttosto caro: peccato che in mezzo a tutti quei piatti strabordanti di curry caldo fatto in casa e riso allo zafferano facesse l’effetto di una roba in liquidazione.
«A saperlo, avrei fatto una zuppa mulligatawny o qualcosa di simile», dissi a Noreen, ma lei era troppo presa ad accogliere e a e farsi salutare da nugoli di donne, tutte che mi sorridevano cordialmente per poi sparire dentro la loro lingua come se persino i sorrisi fossero stati solo un tic riservato agli stranieri.

E guarda che l’inglese lo parlano, dissi a mia sorella maggiore. Rispose che secondo lei non intendevano escludermi né essere sgarbate o niente del genere; semmai le ricordavano i suoi incontri con i parenti italiani di Ric, in cui nessuno più si disturbava a tradurre niente, abituati com’erano a considerarla una di loro. Sotto sotto ero d’accordo con lei, ma non glielo dissi perché non andavo pazza per la famiglia di Ric e non volevo attribuirle niente di positivo.

A queste feste di Eid gli uomini mi ignoravano totalmente, neanche avessi i pidocchi o volessi aggredirli, attaccargli qualcosa o roba simile; ma nel giro di ore mi resi conto che parlavano poco con le donne in generale, mogli comprese. Voglio dire, quando un uomo dice alla moglie di portargli un bicchier d’acqua non sta esattamente parlando con lei. Cazzarola, persino quando Padron Mike guarda le partite di calcio in TV e dal suo Tronsofà ordina alla schiava Paula di rifornirlo di coca e patatine, tra un viaggio e l’altro mi becco bacini bacetti, e se la sua squadra è in vantaggio posso anche dargli una botta in testa per scherzo, specie se sto cominciando a seccarmi di fare avanti e indietro dalla cucina. Non riesco a immaginare nessuna di queste mogli, per quanto irritate, rifilare un paio di sberle al marito. Verrebbero ripudiate all’istante, ci scommetto, proprio come in un film che ha visto Noreen una volta.
«Dire che basta pronunciare la parola “divorzio” tre volte» disse con le lacrime agli occhi «significa dare un’immagine distorta dell’Islam. Non è così che funziona ».
«Qualcosa di vero deve pur esserci » risposi io mentre lei si lagnava. «Voglio dire, è un film. Le controllano, queste cose».

Continuai a sostenere le mie ragioni finendo, credo, per contrariarla sul serio, ma lei è così dolce che mi incartò comunque quantità industriali di cibo da portare a casa, perché sa che Mike adora mangiare piccante di quando in quando, e che io mi rifiuto di cucinare il curry perché puzza troppo.
«Noreen» le dissi preparandomi per tornare a casa «Sei una brava ragazza.»
Sentivo che Noreen mi stimava molto. Per forza, perché se qualcuno venisse mai a casa mia, pretendesse di mangiare, si mettesse a difendere un film di cui non sa niente e per finire si prendesse gioco della mia cultura, io lo butterei fuori a calci senza pensarci su due volte, e di lì in poi gli attaccherei il telefono in faccia nei secoli dei secoli. E invece ecco là Noreen che diceva “ci vediamo”.

Presumo questo spieghi perché le sono amica: è così dolce, così tranquilla, è come se avesse trovato il suo posto nel mondo e le parole non la smuovessero più.

Mike un po’ si arrabbiò con me, devo dire, quando più tardi gli raccontai cosa avevo detto a Noreen, ma in verità penso che il modo di vestire dalle sue parti sia un po’ ridicolo. A queste feste di Eid gran parte degli uomini indossa ampie tuniche bianche con pantaloni altrettanto larghi, stile tenda; gli manca giusto il cappuccio e poi potrebbero passare per relitti del Ku Klux Klan, giuro, tutti neri, come se li avessero fatti diventare così a suon di botte.

Le donne sembrano un incrocio fra tacchini molto ripieni e alberi di Natale addobbati con troppo zelo, un grumo obeso di colori come gelatine rigurgitate. Poi di fatto, una volta abituata allo spettacolo caleidoscopico, iniziai a trovarle fantastiche: pappagallini tempestati di diamanti e altre gemme.

«Le signore Alberi di Natale», dissi a mia sorella, «indossano gli stessi pacchianissimi colori che portano i neri nei film ambientati dai parrucchieri». Però non le raccontai dei gioielli, sarebbero tornati a galla i ricordi della nostra defunta madre, ancora un’enorme perdita per tutte noi; sì perché queste donne, in effetti, portano lo stesso tipo di gioielli che ho visto indossare solo a Joan Collins all’epoca in cui la mamma viveva solo per i nuovi episodi di Dynasty: una sfilza di bracciali d’oro massiccio tempestati di rubini, smeraldi e zaffiri fin dentro il culo, persino le più povere tra loro, che a me pare una barzelletta.

Io sono povera e si vede benissimo, con una vera nuziale che è solo un misero fildiferro attorno all’anulare rinsecchito come unico ornamento. Gli Alberi di Natale mi rivolgono la parola solo quando mi sto ingozzando di quei loro dolci appiccicaticci.
«Come fai a mantenere la linea?» chiedono sistemandosi gli ampi scialli che ricadono sugli enormi seni e sulle pance ancor più enormi. Gli rispondo che mi sono guardata bene dal fare figli. La cosa smorza per un attimo la loro cordialità. Mi sembra di sentirle mentre parlano tra di loro:
«Ah, le americane!»

Mio nonno lo diceva sempre. Gli stavo a sedere in collo, con una manina tenevo un biscotto e con l’altra gli tiravo la barba lunga, folta e bianca, la più lunga, folta e bianca che abbia più visto da allora, ascoltando con un orecchio solo lui e la mamma denigrare il tale o talaltro libro che presto avrebbero fatto mettere al bando con una petizione. Insomma, io gli facevo il solletico all’orecchio con la punta della barba e il nonno, scuotendo la testa, diceva: «La rovina di questo paese sono proprio i suoi cittadini. Ah, gli americani!»

Penso che questa nazione sia cambiata molto, dai tempi del nonno. Per prima cosa, quando io andavo alle superiori eravamo tutti bianchi. Colori a parte, nessuno aveva mai sentito parlare di tutte queste stronzate di Eid, Diwali e Hanukkah; e di certo non era come adesso che interrompono la pubblicità per augurare buone feste a un paese in cui metà della gente non ha la più pallida idea di che cosa stiano parlando.

La festa di Eid dell’anno scorso ha coinciso con il Natale (ho portato Noreen a un party per la decorazione dell’albero. Si è divertita da matti. Fosse stato per lei saremmo rimasti tutti in disparte a guardarla imbellettare l’albero come fosse, per usare le sue parole, una sposa tradizionale, e poi avremmo applaudito fino a sentir male). Oltre al parlottio tipico di quei pranzi c’era anche lì un albero di Natale, il più stentato che avessi mai visto, ma pur sempre decorato qua e là con biscotti a forma di stella (che alla fine hanno distribuito agli innumerevoli bambini che fanno sempre un gran baccano a questi raduni... questa gente, davvero, non sa cosa significhi mandare a letto i figli a un’ora decente). E in cima all’albero: un’enorme mezzaluna.

A quanto pare il pino verde, le stelle e la luna stavano a simboleggiare l’unione tra la bandiera pachistana e quella americana o qualcosa di simile, e per quanto buffo mi fosse sembrato sul momento, una volta arrivata a casa non ridevo più. Proprio un bel coraggio, proprio una bella faccia tosta. Fosse stato ancora vivo mio nonno gliene avrebbe dette quattro per aver profanato così la nascita di Gesù, mentre noi invece dobbiamo avere rispetto per Maometto (il Santo Profeta, Noreen mi corregge sempre).

Questa fu l’ultima festa di Eid a cui accompagnai Noreen prima che restasse incinta e non avesse più un attimo di respiro. A saperlo, avrei fatto lo sforzo di non essere così di cattivo umore davanti all’albero dell’unione.

Noreen ha avuto il bambino e visto che avevano deciso di non farsi dire il sesso ero preoccupata che potesse venirgli un collasso se fosse stata una femmina. Mia sorella aveva visto uno speciale in TV in cui si diceva che queste comunità hanno una vera e propria fissa per i figli maschi; perciò quando Noreen cominciò a dirmi che a loro due non importava, e che anzi tutto sommato preferivano una bimba, e il tutto con l’entusiastica conferma di Mister Calzini di Seta, pensai: di sicuro muoiono dalla voglia di avere un maschio.

Nessuno avrebbe potuto essere più felice di me nel vederli così in estasi per aver avuto una femmina. Grazie alle mie sorelle ho visto abbastanza neonati pelati e bruttini da bastarmi per una vita intera, ma la figlia di Noreen era più carina di quanto mi aspettassi, una bambolina con una piuma soffice di capelli corvini. Le ho regalato una cesta piena zeppa di omogeneizzati biologici. Non avevo badato a spese e le avevo comprato vasetti “Prima pappa” di tutti i tipi.

*****

Come pensavo, con la gravidanza Noreen ha smesso di lavorare e dopo il parto abbiamo cominciato a perderci di vista. Non ci è voluto molto prima che le vecchie battute sui ratti morti e le cipolle di Ellen diventassero stantie. Certo quando Noreen viene in negozio adesso, bambinaia fissa al seguito che le spinge il passeggino, quasi tutte le nuove commesse part-time la fissano ma le stanno alla larga; incute timore, con quell’impeccabile matita da labbra, i guanti e la sciarpa.

Quando gli racconto che una volta lavorava qui e puliva gli scaffali delle erbe sfuse proprio come chiunque di noi, mi rispondono: «Non dire fesserie!», e persino quando viene alla cassa e scambiamo quattro chiacchiere mentre le faccio il conto, loro stanno lì a fissarci e dopo, con un fischio sonoro, mi dicono:
«Beh, guarda guarda. Allora c’è speranza per tutti».

Ultimamente ci ho riflettuto: guardando Noreen non credo si direbbe mai che possa aver lavorato qui, a pulire il pavimento come tutte noi ma sempre lì a cercare di scansarlo e raggiante ogni volta che mi offrivo di sostituirla. Mentre guardando me, credo, non mi si potrebbe immaginare da nessun’altra parte. Ultimamente ho addirittura preso a cucinare il curry un paio di volte l’anno; a Mike piace, e anche a me.
«Maledetti bambini» ho detto un giorno a Mike «Vengono al mondo solo per mettersi in mezzo tra amiche e sorelle affezionate».
«Stai cercando di dirmi» ha replicato lui deglutendo «che vuoi un figlio?»

Quel che nessuno vuole ammettere è che tutti possiamo fare a meno di tutti, che la maggior parte di noi passa la vita a immaginarsi come sarebbe vivere senza le persone che ha accanto e che, se potessimo ricominciare da capo, non sceglieremmo mai le stesse persone: neppure i nostri figli.
«Oh, tesoro» ho detto abbracciando stretto Mike «no».

*****

Le foglie stanno cambiando colore. Quest’anno io e Mike abbiamo pensato di arrivare fino ad Aspen in macchina e osservarle, fosse solo perché non c’è nient’altro da fare e perché possiamo.

Traduzione a cura di Lorenza Marini

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Anno 2, Numero 11
March 2006

 

 

 

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