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il respiro del diavolo

ingrid beatrice coman

"È finita”, pensò Marta mentre varcava la soglia del confessionale.
Dentro l’abito grigio da suora che l’aveva resa invisibile agli occhi della gente, Marta portava tante cose.
La solitudine, leale compagna di cella nelle notti lunghe del convento, quando aveva imparato a piangere così piano che nemmeno Dio avrebbe potuto sentirla.
Il ricordo, così chiaro e presente, di quella notte gelida quando aveva fatto entrare Anna nel suo letto. Non avrebbe saputo dire perché. Forse perché fuori pioveva e Anna era entrata nella sua cella piangendo. Forse perché nel buio di quella notte avevano paura di tutto. La pelle di Anna sapeva di cera. Ognuna aveva bisogno di sentire che l’altra era lì, che il buio si fermava fuori dai loro corpi, che nel letto di ferro battuto diventato di colpo piccolo la solitudine non aveva più dove fermarsi. Si erano poi addormentate come due cuccioli estranei che per una notte si ritrovano nella stessa tana.
Così le aveva trovate Madre Agnese verso l’alba. Dopo un lungo e complicato discorso in cui aveva mescolato Dio, Diavolo, purezza e peccato tutti insieme, aveva punito Anna con inutile violenza buttandola fuori dal convento, non perché fosse più colpevole di lei, ma semplicemente perché la sua famiglia era molto più povera e non avrebbe potuto protestare.

Quanto a lei, Madre Agnese aveva trovato il modo per spezzarla dentro.
Trenta giorni di autoflagellazione avrebbero tolto il vizio dalla sua anima e fatto tornare il suo corpo puro.
Così lei doveva punire il suo corpo frustandosi fino a perdere i sensi tutti i giorni, sotto l’occhio vigile di Madre Agnese che scendeva ad assisterla personalmente. Un po’ di acqua, pane e preghiere dovevano bastarle per tutte quelle ore che non passavano mai. Non c’era notte perché non c’era giorno e l’arrivo di Madre Agnese, puntuale come la morte, era l’unico indizio di un’altra giornata.
Quella donna la guardava compiere il suo atto di penitenza quotidiana, poi se ne andava senza una parola, lasciandola ogni volta con la schiena che le bruciava e un odio nuovo nel cuore.
Non c’ era Dio in quella stanza, solo un odio infinito che aveva impregnato i muri e reso l’aria di piombo.
Verso la fine dei trenta giorni, quasi non sentiva più il dolore. Si toccava le lunghe cicatrici sulle spalle, sulle braccia, sulla schiena e sul seno, addormentandosi con la sensazione di tenere tra le braccia il corpo di un’estranea.

Quando Madre Agnese era venuta a dirle che poteva tornare nella sua cella, non aveva avuto nessuna reazione. Si era lasciata condurre come un piccolo animale addomesticato.
Avrebbe ripreso la sua vita nel convento con una docilità inaspettata, sotto lo sguardo compiaciuto di madre Agnese che celebrava la sua vittoria sulle inclinazioni diaboliche di quella ragazza.
Ma il Diavolo sembrava non si fosse mai mosso dalla sua cella. Dio e Diavolo avevano perso i contorni nella sua mente e si erano dissolti l’uno nell’altro. Nel suo letto c’era ancora il profumo di Anna, e Marta accarezzava il cuscino, le lenzuola e l’aria in cerca disperata di un’illusione. Anna, dolce Anna, la sua pelle di cera calda, il suo corpo che tremava.
Dolce respiro del Diavolo che custodiva gelosamente perché il freddo, il buio e l’oblio non glielo cancellassero dal cuore. Anna, preghiera al contrario, perché quella cosa che chiamavano vizio non l’abbandonasse, perché la tenerezza e il calore restassero ancora con lei.

In ginocchio dentro il confessionale, sentiva il peso di ciò che aveva fatto sulle spalle magre piegate in avanti, e la paura le stringeva il cuore.
“Ho peccato, Padre”, cominciò, con una voce che anche lei faticava a sentire.
“Cercavano la medicina, Padre. La sua medicina per il cuore. Madre Agnese stava morendo e la medicina non si trovava. Stava soffocando, le mani strette sulla gola. E io tenevo in mano la sua medicina, Padre. Era come se avessi la sua vita nella mia mano. Tenevo il pugno così stretto che mi faceva male. Lei moriva. Ma io non lo aprii. Che Dio mi perdoni, Padre”.
“Dio ti perdona, Dio ti perdona...”
Era come se qualcuno le avesse improvvisamente tolto il peso che la schiacciava. Ora era libera. Non aveva più paura. Poteva partire.

* * *

Anna si era messa l’unico cappotto sobrio che aveva sopra il vestito rosso fuoco. Era rimasta sveglia fino all’alba in attesa che l’ultimo cliente se ne andasse, poi si era affrettata verso la cappella del convento. Aveva ancora addosso gli odori dei clienti e nel cuore una stanchezza nuova.
“Vado a un funerale” aveva risposto a Madame, che voleva sempre sapere dove andava.
“Ma se non hai nessuno! Chi può morirti, a te?” l’aveva sentita borbottare prima di chiudere la porta.
Dentro l’abito rosso che l’aveva resa un giocattolo nelle mani degli uomini, Anna portava tante cose.
Il suo corpo, provvisorio rifugio di desideri clandestini, appassito sotto mani frettolose.
La solitudine, leale compagna della stanzetta rossa in fondo alle scale, dove aveva imparato a fingere così bene che a volte faticava a riconoscersi anche lei.

Il ricordo, forte come non mai, di quella notte in cui per l’unica volta nella sua vita qualcuno era stato gentile con lei. Il temporale scuoteva le finestre della sua cella e lei si era rannicchiata sul letto stringendo il cuscino e pregando che la notte finisse in fretta. La paura entrava nelle sue ossa con la stessa violenza con cui i fulmini entravano nella stanza.
E quando era diventata insopportabile, era scappata a piedi nudi sul corridoio e, entrando nella camera di Marta, si era precipitata nel suo letto tremando come un animale braccato.
Marta non l’aveva sgridata e non l’aveva respinta. Le aveva fatto posto nel suo letto e le aveva asciugato la faccia con la camicia.
“Non piangere” le aveva detto, “ora siamo in due. Non ci succederà niente”.
Anna aveva bisogno di crederci, nonostante la voce di Marta tremasse più della sua. E lì, sotto le coperte di lana ruvida, avevano dimenticato per un po’ il freddo, il buio, il temporale che faceva tremare le finestre e Madre Agnese che sembrava il fantasma di un mondo remoto. Si era addormentata con il viso schiacciato contro il collo caldo di Marta, immersa nel suo odore rassicurante.

Quando si era sentita trascinare brutalmente giù dal letto dalla mano robusta di Madre Agnese, aveva intuito che qualcosa di irrimediabile le stava succedendo. In un attimo la pelle di Marta era lontana, qualcuno le metteva addosso pochi vestiti e con un discorso che lei non capiva la stessa mano la spingeva fuori dal convento chiudendole dietro la porta.
Ancora stordita, si era incamminata verso quella che forse una volta era stata casa sua. Ma le parole avvelenate di Madre Agnese l’avevano preceduta. Così lei era improvvisamente diventata la prova vivente che una figlia illegittima portava in sé il seme del peccato, e che niente avrebbe potuto cambiare la sua natura viziosa. Un’altra porta le si chiudeva in faccia. Si era trascinata dietro la sua disperazione, camminando per le strade della città finché la fame le aveva indebolito il corpo e il freddo le aveva fatto ammalare le ossa.
L’unica che non le aveva chiuso la porta in faccia era stata Madame Georgette. La sua casa era l’unico posto dove poteva barattare la morte con qualcosa di più velato, più lento, che si prendeva parti di lei un po’ alla volta.
Ora era lì, chiusa nel suo paltò nero, nella piccola cappella che custodiva la bara di madre Agnese. Ora il cerchio si stava chiudendo.

“Ho peccato, Padre. Le mie mani sono sporche di morte. I dolcetti, i dolcetti che Madre Agnese riceveva ogni domenica mattina, li mandavo io. Sapevo che li avrebbe custoditi nel suo comodino. Sapete, lei non divideva mai niente con nessuno. Li avrebbe mangiati la notte, quando non riusciva a dormire. Lo zucchero velato era avvelenato, Padre. Dolce veleno per il suo cuore. L’ho uccisa, Padre. A poco a poco, come lei ha fatto con me. Per lunghissimi anni ho aspettato la notizia del suo funerale. Chiedo perdono, Padre”.
“Dio ti perdona, Dio ti perdona...”
Anna uscì, con la sensazione che un’altra donna uscisse da quel confessionale. Anna era diversa. Anna poteva partire.

* * *

La chiesa era vuota, avvolta nel gioco di luce filtrata dalle finestre colorate. Aveva ancora un po’ di tempo prima che arrivassero quegli stupidi contadini a disturbarlo con i loro peccati meschini. Si avvicinò al confessionale quasi trascinandosi. Il suo corpo massiccio si muoveva a fatica sotto la tunica nera.

Quando aprì la tenda, un brivido di orrore gli attraversò la schiena. Un vecchio barbone si era accovacciato sulla sedia, con i pedi nudi e sporchi raccolti sul suo cuscino di velluto.
“Lurido barbone, cosa ci fai tu qui?”
“ Niente, Padre. Avevo freddo”.
“Questo è un confessionale, non una tana per vagabondi. Va via, vecchiaccio!”
“Ora vado, Padre. Non Vi arrabbiate. Volevo solo scaldarmi un po’”.
Stupido barbone! Fortuna che non è entrato nessuno!, pensò il prete sistemandosi il cuscino comodamente sulla sedia. L’ora del confessionale si stava avvicinando.
“Speriamo che non duri tanto” disse piano, pensando al pranzo che lo aspettava a casa del Sindaco.

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Anno 2, Numero 11
March 2006

 

 

 

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