Per molti anni dopo aver lasciato l’Afghanistan ho provato quel sentimento di nostalgia derivante dal fatto che ritenevo l’Afghanistan l’unico paese dove potessi vivere felice e dopo 23 anni di esilio, quando sono ritornato per la prima volta nella mia terra, mi sono reso conto che non era lo stesso posto nel quale ero nato e avevo vissuto. Prima di lasciare l’Afghanistan credo di aver creato una patria interna. Questa patria si era delineata in me in modo confuso tant’ è che con l’esilio ho poi cominciato ad associarla con un luogo fisico preciso, ma non corrispondeva.
Bashir Sakhawarz, poeta e scrittore afghano esule dal 1979 è oggi portavoce di un popolo e di un paese, l’Afghanistan che, tra ostacoli e impedimenti, tenta di ridefinire il proprio patrimonio identitario e affermarsi sulla base di esso come entità politica, economica, culturale indipendente, slegata dal giogo di qualunque sottomissione. Non c’è dubbio che la sua produzione letteraria sia permeata dalla radicale esperienza dell’esilio, quando lasciare il proprio paese con il biglietto di sola andata, significa la perdita di una parte di sé. Un abbandono che spesso ha il sapore del tradimento forzato, dell’impossibilità di scegliere altrimenti. Sakhawarz racconta il dramma di un paese occupato, di un popolo tenuto in ostaggio da diversi “invasori” e che ancora oggi lotta per uscire fuori dal dimenticatoio dove è precipitato per favorire un disegno politico ed economico troppo grande di prendere forma.
E’ singolare il percorso di questo intellettuale e scrittore che l’esilio strappa alla notorietà acquisita negli anni in patria e senza mezzi termini lo spinge in fondo al pozzo del silenzio. In qualche modo l’esilio gli ruba la “voce”, del resto non era proprio Mandel’stam a dire che la separazione derivata dall’esilio è sorella minore della morte? Ebbene la voce di Sakhawarz vive una morte temporanea, in cieco conflitto tra due lingue, tra due luoghi, tra una memoria divisa e affetti lontani, in un momento dove erano le voci dell’”Altro” e dell’Altrove ad assediarlo. Bashir Sakhawarz lentamente riesce a ridefinire le coordinate di una esistenza che cerca di capire e riacquista quella voce perduta, una nuova consapevolezza sul potere che la scrittura ha per veicolare anche i conflitti interni prodotti da una esperienza sradicante come l’esilio. Ricomincia a scrivere, ad osservare, a meditare, nella scrittura e attraverso di essa, punti di vista diversi, uno sguardo critico su una realtà del suo paese e in genere su un ordine mondiale che sembra vivere un momento di declino della propria moralità e di perdita di coordinate di riferimento e che Sakhawarz racconta senza mediazioni, senza piegarsi all’opinione comune, senza cedere alle lusinghe dell’accondiscendenza. Un’onestà intellettuale che decide il ruolo stesso della sua scrittura come impegno verso la memoria del suo paese per le generazioni che dovranno prima o poi trovare il coraggio di guidarlo: la mia scrittura è una ricerca –afferma Sakhawarz -. Una ricerca di persone, luoghi e persino di cose che è impossibile trovare. Oggi Bashir vive la scrittura come luogo dell’incontro, del dialogo, dello scambio, dove lo sguardo e la lingua si tingono di lucida ironia, quella che riesce – secondo l’autore - a smussare la rigidità di certi aspetti drammatici della vita. Un modo per sopravvivere restando integri.
Valentina Acava Mmaka