Nota biografica | Versione lettura |
Dedico questo racconto a chi non riesce a scoprire quale immenso dono sia anche il solo poter vivere.
Il lavoro di segretaria è noioso. O cosi pensava la segretaria che in quel suo tempo libero stava
scrivendo sdolcinate storie d’amore o inventando strane e complesse fiction televisive. Si
sentiva una persona semplice e non poteva pensare che potesse esistere un’esistenza
complicata e travagliata come quella del sig. Malone.
Riconobbe la cadenza stanca di quel cliente 23enne. Come poteva essere sempre stanco quel
ragazzo? “Prego, il dott. Jackson la sta aspettando!”, disse da dietro il monitor dopo aver
riconosciuto Daniel Malone. Daniel si affacciò all’entrata, col fiato corto per i tre piani di scale
affrontati. “Prego, sig. Malone!”, ripeté la donna. Il giovane le passò davanti con un leggero
cenno del capo in segno di saluto, bussò alla porta dall’altra parte della spoglia sala d’attesa e,
non ricevendo risposta, entrò.
Lo psicologo era in piedi davanti alla finestra che copriva l’intera parete e dava sulla città.
Daniel chiuse piano la porta e avanzò senza fare rumore nello studio spazioso e luminoso.
Contemplò come sempre la libreria colma che raggiungeva l’alto soffitto. Poi si accostò al
dottore ammirando anche lui la magnificenza di quel porto. Pensò alla città e a come sarebbe
potuta apparire 200 anni prima. Da un piccolo centro di malviventi ed avanzi di galera era nato
un importante snodo commerciale dell’impero coloniale, ora scomparso. Oggi, poi, a quello
spettacolo facevano da cornice l’Operà diventata famosa per il suo stile architettonico e il
mitico Harbour Bridge. Si stagliava sul mare come un lungo braccio che teneva unite due
sponde di terra che altrimenti sembrava si sarebbero allontanate inesorabilmente.
Passò qualche minuto senza che i due uomini osservassero niente di particolare dall’alto di
quell’edificio, sul quale il freddo vento invernale, reso mite dal clima oceanico, si abbatteva
con stanca insistenza. “Cominciamo”, disse lo psicologo lasciando la finestra. Daniel usci dal
suo sogno e si avvicinò al lettino. “Aspetti un momento”, disse Jackson, “oggi vorrei
raccontare io la mia storia. Lei si sieda al mio posto, ho da narrarle una mia esperienza che
credo sia il momento di esternare. Sappia che lei è il primo uomo, inclusa la mia famiglia, a
conoscere ciò che le sto per dire. Ne faccia tesoro!” “Certo.”, disse il giovane imbarazzato e
prese posto sulla sedia. Con voce calda e fievole lo psicologo cominciò il suo racconto.
“Come lei sa io vengo da New York City. Mi trasferii qui per studiare psicologia non perché
trovassi il metodo di qui migliore, ma perché detestavo quello americano. Abitavo nella
“Grande Mela”, cosi la chiamano. Al contrario dell’opinione generale quella è la città
dell’infelicità, a mio avviso. Tutto a disposizione di tutti. Un felicità costruita per una società
credulona, che è convinta che tutto vada bene sempre, basta che ci sia qualcuno a dirglielo. La
felicità raggiungibile con ogni mezzo, ma che purtroppo illude. La felicità è ricchezza, svago,
libertà. Nessun sacrificio sembra essere necessario. In quel mare di illusi io ero cosciente, ma
infelice, molto infelice. Qualcosa mi mancava. Non le racconto tutto ma credo che lei possa
capire quanto la mia depressione fosse profonda e senza speranza.
La mia adolescenza era quasi passata e mi trovai la notte di Natale del 1971 in una piazza
piena di gente, vicino ad una fontana.”
Il dott. Jackson fece una pausa, respirò profondamente e prosegui la storia come se stesse
cominciando un nuovo capitolo di quella singolare avventura.
Con voce grave parlò: “Avevo un’arma con me. Sotto la giacca portavo con me lo strumento
che ha come unico scopo quello di togliere la vita. Volevo che tutti in quella piazza vedessero
come morivo. La folla, la società, il mondo, dovevano sapere che era per colpa loro se io quella
sera stavo morendo. Mi guardavo malinconicamente intorno. Forse cercavo un appiglio, un
qualcosa che mi dissuadesse dal compiere quel gesto. Incrociai lo sguardo di un bambino
seduto sul bordo liscio della fontana. Mi guardava in modo strano, era come se
improvvisamente nessuno fosse più in quella piazza, se non noi due. Un grande sconforto stava
per avere la meglio su di me. Pensai ancora al bambino e volevo dirgli: “Piccolo, vivi la tua
vita, la mia finisce qui”. Un sussulto dentro di me fece però un miracolo e mi assalì un
sentimento di felicità e voglia di vivere. Volli lanciare una sfida al mondo. Quel mondo che
sembrava volermi vedere morto: “Non mi avrai così facilmente”, gli sussurrai nella più piena
euforia. Dopodiché cercai con lo sguardo il bambino che mi aveva salvato, ma non lo trovai
più, né lì, né in alcun altro luogo dove speravo di rivederlo quella notte.”
Ci fu una pausa e all’improvviso, nello studio, il sole sembrava entrare più forte di prima.
“Torniamo al presente, sig. Malone. La mia vita privata non dovrebbe interferire con quella dei
miei clienti, ma le chiedo di riflettere su ciò che le ho appena detto, perché non ho potuto non
notare delle somiglianze tra lei e me in quella piazza in America. Le dirò solo una cosa ancora,
poi esca e consideri questa seduta un regalo. La vita è un dono prezioso che non possiamo
permetterci di perdere. Sarebbe l’unico errore al quale non troveremmo rimedio. Ci vediamo la
settimana prossima Daniel.”
Come il dottore aveva tristemente previsto, Daniel uscì senza dire niente e, passando davanti
alla segretaria, la ignorò e scese le scale. Il dottore stette a lungo appoggiato allo stipite della
porta che dava sulla sala d’attesa con lo sguardo fisso nel vuoto. Infine, scuotendo la testa,
rientrò nello studio e non volle più essere disturbato.
Daniel uscì dal grande edificio e si avviò verso il parco. Quella strada da lui ben conosciuta
sembrava quel giorno ancora più banale del solito. Quelle persone che lo incrociavano
apparivano strane. Si sentiva diverso, imbarazzato, con il gran desiderio di farsi piccolo e
scomparire senza traccia, senza lasciare stupore o rimpianti.
In silenzio.
Sapeva come far tacere quel senso d’inutilità, ma quel giorno rinunciò; voleva essere cosciente
e assaporare ogni ultimo singolo attimo di quell’avventura. Regalò tutti i suoi averi al terreno
imbiancato dalla neve, dove tutto si confondeva. Un ubriaco scriveva su una panchina, qualche
bambino giocava con la neve e il traffico nella vicina strada si faceva sempre più rumoroso col
calare del sole e con l’avvicinarsi dell’ora di punta. Daniel si avvicinò alla panchina. Lesse
piano le parole scritte poco prima. Dicevano: “Anche nel buio ho trovato una luce. Il bambino
dalla giacca rossa aiuta anche me”.
Daniel era sconvolto. Che fosse anche quel ragazzo cliente del dott. Jackson? Poi pensò alla
frase e si disse: “E se il bambino aiutasse anche me?” Tuttavia si accorse che rideva della
domanda stessa e si convinse che lui, in fondo, non aveva mai creduto alla storia di quel
bambino dalla giacca rossa. Pensò di usufruire del suo piccolo tesoro per dimenticare tutto,
almeno per un momento, e sentirsi più forte. Quel tesoro a cui ricorrere quando il proprio
spirito diventava troppo vigliacco per affrontare il mondo. Ma poi si ricordò di aver gettato
tutto il suo patrimonio a terra, poco prima, e ne fu felice.
Continuò a vagare senza particolare meta e osservò e contemplò molte scene di vita quotidiana
che lo fecero meditare. Gente di fretta, traffico, un’anziana al parco, una coppia su una
panchina. Si chiese se ci fosse qualcuno al mondo che provava gli stessi suoi sentimenti in quel
momento. C’era qualcuno in quel mondo che aveva avuto le stesse esperienze e che ora fosse
solo come lui in mezzo a tanta gente? Miliardi di esseri umani e nessuno che capisse
veramente la sua vita e gli insegnasse come viverla nel modo giusto.
Proseguì fino al ponte. Si fermo a guardare l’Operà dal parapetto su cui amava sedersi. Da lì si
sentiva il vento salire con un leggero boato dall’oceano a decine e decine di metri più in basso.
Il tramonto colorava di rosso le bianche ali del teatro. Daniel sarebbe voluto volentieri entrare,
una volta, ma non aveva mai avuto i soldi per comprarsi una cultura. Si guardava intorno come
spaesato. Tornò cosciente solo quando, di sfuggita incrociò lo sguardo di un bambino. Un
piccolo di sei o sette anni che lo guardava con una strana, calda accoglienza. Daniel si sentì
sollevato e cercò di ricambiare quegli occhi con una frase: “Ciao bambino. Sembri felice,
bravo!” Daniel sperava di parlargli con lo sguardo per dirgli: “Hai tutta la vita davanti, vivila al
meglio. La mia finisce qui.” E tutto intorno sembrava diventare surreale, con lo sguardo del
piccolo…
Daniel distolse lo sguardo, l’incanto svanì e si ritrovò addosso il solito senso di disagio; non
ebbe il coraggio di guardare ancora il piccolo.
E si lasciò scivolare verso il blu.
Si aspettava di morire come tutti gli altri, con le immagini della propria vita che ti scorrono
davanti agli occhi come un riassunto alla fine di una storia.
Ma non fu così.
Anzi, ebbe un pensiero felice guardando il teatro mentre cadeva. Volle tornare sul ponte. Il suo
più gran desiderio in quel momento era di tornare su, dal bambino dalla giacca rossa che aveva
visto. Avrebbe voluto dirgli: “Grazie, almeno tu ci hai provato!” Ma il desiderio svanì al
ricordo della storia dello psicologo. “Il bambino dalla giacca rossa scompare, proprio come
quello del dott. Jackson sulla fontana.”, pensò Daniel alla fine.
Ma sul ponte un bambino dalla giacca rossa guardava giù.
Paralizzato vedeva la vita di quell’uomo spegnersi.
Piangeva.