El Ghibli - rivista online di letteratura della migrazione

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un sorriso in prestito

chika unigwe

Non puoi descriverlo, se non ci sei mai stato. Ma tu lo sai com’è, perché ci hai vissuto. È quel che si dice un quartiere ghetto. Una fila di lamiere inchiodate insieme. Il metallo è rugginoso e scuro. Come le vite vissute lì dentro. Vite che sembrano volgari e grezze come le nocche di Sunday, logorate dal lavoro. Sunday è il tuttofare del circondario. Lava. Pulisce. Strofina. Dicono che abbia solo mezzo cervello. Allora ti domandi se è per quello che ha il cranio sbilenco; insomma, un po’ come una bilancia a due piatti con troppo peso da una parte e niente dall’altra.
Comunque, a prima vista, non sembrerebbe. Ha la testa tonda, con un fitto cespuglio di capelli neri. Il mezzo cervello non impedisce alla gente di chiamarlo per i lavori pesanti che nessuno ha più voglia di fare. Di certo non ha impedito a lui di mettere al mondo un figlio che gli assomiglia molto. Nessuno sa chi sia la madre; dicono solo che un giorno Sunday s’è presentato con un fagotto di stracci e ossa. Alle donne piace raccontare che si prendono cura della salute del bambino. Che la madre di Udo, che ha appena avuto un altro figlio, li allatta entrambi al seno, un neonato per parte.

È un bimbo affamato
Un bimbo ingordo
Si attacca forte al capezzolo e non lo molla più
Succhia come se non avesse mai visto cibo
Probabilmente è così. Povero piccolo
E chi è poi la madre?
Chi andrebbe a letto con Sunday che ha mezzo cervello?
Tufia! Certe andrebbero a letto con chiunque, Sunday kwa!
Povero bellissimo bambino

Ma Sunday con mezzo cervello ha un bellissimo maschietto con le fossette alle guance e le cosce grasse grasse. E tutte le mamme adorano prendersene cura. Lo osservano agitare le braccine e ridere compiaciuto quando con fatica fa i primi passi, saltellando sui piedini come un grosso piccione azzoppato. E Sunday dice che un giorno lui volerà. Volerà sulle baracche di lamiera dove si tira a campare. Dice che volerà oltre i cieli. Tuo padre dice che non è vita quella che si vive lì. Non è possibile, perché la vita dev’essere piena e appagante. Deve confortare. Come un bicchiere d’acqua gelata in un giorno caldo e secco. E invece non fai altro che lottare per sopravvivere. Per svegliarti ogni mattina e uscir fuori nel fetore di urina e sabbia.
Vorresti volare come Sunday dice che farà suo figlio. Volare alto sopra la baracca. Confonderti tra le nuvole. Fuggire verso una vita piena. E appagante. Come la Coca Cola dopo un panino.
È questo che ti porta ad Anversa.
Un giorno in cui ti ritrovi sedicenne e con tutte le curve al posto giusto, si fa vivo un uomo. Ha i baffi sopra labbra scure e carnose e le scarpe di vernice. Scarpe che dalle tue parti sembrano fuori posto. Abiti nuovi. Con la freschezza immacolata del nuovo. Non come quelli lavati e stinti che di solito vedi in giro. Si fa notare come una festa mascherata in un giorno normale. Ti dice che ti ha visto in giro e ti vuole conoscere meglio.
Anche tu vuoi conoscerlo meglio. Per annusargli le scarpe e alimentare il sogno della tua vita. Non hai mai sentito prima l’odore del cuoio laccato. Vuoi sfiorargli i baffi e vuoi essere sfiorata da lui.
Il suo nome è Bob. Breve e dolce, ti dice. Proprio com’è lui. Che è basso, lo vedi. Che sia dolce lo devi ancora scoprire.
Ti parla di luoghi vicini al cielo. Lontano da questo posto che puzza di cose morte e marcescenti: topi. Ratti. Scarafaggi. Cani. Gatti. Odori acri che si mescolano l’uno con l’altro. Posti che hai già sentito nominare. E molti altri dai nomi che non hai mai neppure sognato. Nomi che non riesci a far scivolare sulla lingua.
Ti dice che quei posti non hanno odore. O almeno non puzzano. Non ci sono pozze di urina stagnante fuori dalla porta. Non ci sono mucchietti di feci canine davanti alla tua finestrella. Niente vermi che s’agitano eccitati sull’immondizia.
Ti chiama la sua ninfetta. Non hai mai sentito quella parola. Non sai cosa significa. Ma ti piace il suono che fa uscendo dalle sue labbra. Giunge come la pioggia dopo una stagione di tremenda siccità. Quel tipo di stagioni che per i contadini sono una maledizione. Ninfetta!
Dice che ti porterà ovunque tu voglia andare mentre culla i tuoi seni, come fossero due gemelli appena nati. Baciandoti le orecchie ti dice di scegliere. Anversa. Bruxelles. Milano. Madrid. Barcellona. Amsterdam. Berlino. Francoforte. Il mondo è nelle tue mani. Devi solo dire dove. E lui ti ci porterà.
Non sai nemmeno dove sia Anversa. O Bruxelles. Sai che le sue scarpe vengono da Milano e hanno un enorme “Made in Italy” stampato sotto la suola. Le altre città non significano nulla per te. Non hai mai lasciato Enugu dove sei cresciuta. Come farai a scegliere se non distingui l’una dall’altra? Ti fanno lo stesso effetto della tavoletta di cioccolato che hai mangiato una volta. Dolce. Leggera. Cioccolatosa. Chiudi gli occhi e conficchi uno spillo su un foglio di carta con quei nomi pigramente scarabocchiati a mano. Lo spillo decide la tua sorte. Il fato decide per te: Anversa. La città con la Cattedrale, dice. Ti piacerà. Vedrai. Un sacco di africani. Non ti mancherà casa tua, ti sussurra all’orecchio mordicchiandoti il lobo. Ma tu vuoi scordartela, casa tua. Vuoi che nulla ti ricordi quello che stai lasciando. Che nulla ti ricordi la sporcizia, la ruggine e la morte. Vuoi dimenticare e dar vita a nuovi ricordi.
“Ti manderò a scuola” sussurra come se pregasse. È facile: così. Schiocca le dita per farti vedere quant’è facile. Lo guardi negli occhi, che hanno il colore del petrolio raffinato, e non vuoi chiedere come faranno ad ammetterti a scuola se non ci sei mai andata prima. Tuo padre è sempre stato troppo povero per permettersi qualsiasi cosa. Meno che mai la scuola. Per una femmina poi. Avesse avuto un maschio, forse.
Quando tuo padre – che perde i capelli, è fragile e logoro – ti proibisce di andar via, gli dici che non vuoi rimanere e ridurti come lui. Vedi i suoi occhi chiudersi dal dolore come se l’abbagliante luce del sole li avesse colpiti all’improvviso. Ma non ti importa. E quando tua madre, gli occhi colmi di lacrime come se ne avesse una riserva di scorta, ti trattiene e ti prega di non spezzarle il cuore, tu la spingi via e parti nelle tenebre verso la tua libertà. La sua voce ti rincorre in quelle tenebre:

Non sai nemmeno chi sia, kedu onye obu?
Se ti ama dovrebbe sposarti
Dovrebbe pagarci il prezzo della sposa
Dimostrerebbe che fa sul serio
Non conosciamo la sua famiglia

Senza voltarti ti dirigi verso la casa di Bob, da dove domani partirai per il Belgio. Nella borsa hai il passaporto nuovo di zecca con la tua foto sorridente. Lo tiri fuori e lo apri alla pagina dov’è stampato il visto. Ci affondi il naso e aspiri. Sa di sogni che stanno per nascere. Un profumo inebriante che ti fa fluttuare in aria.
Parti dall’aeroporto di Ikeja in una delle notti più calde dell’anno. Bob dice che è un caldo da cuocerci il pane. La maglietta bianca ti si appiccica addosso, proclamando audace che sei “Fantastica”. Il sudore ti pizzica le cosce e ti fa rimpiangere di esserti infilata i jeans nuovi. Ti cola sulle guance, e lo asciughi di tanto in tanto col fazzoletto bianco e profumato, uno dei tanti regali che ti ha fatto Bob. Sei felice quando arriva il momento dell’imbarco e sali decisa come la caposala di un ospedale. L’aria condizionata dell’aereo ti colpisce e ti asciuga il sudore. Nelle sei ore sul volo Sabena, il cuore ti volteggia incessante, come in una danza atilogwu. Non ti lascia dormire. Non che tu voglia dormire: non vuoi perderti niente del viaggio.
Anversa è fredda. E piovosa. E vecchia. Come una bisnonna. Certe zone sembrano essere invecchiate con grazia. Altre con asprezza. Come dopo una vita difficile. Ed è in una di quelle zone che ti porta Bob. Un appartamento con le finestre dipinte di verde squillante e la maniglia della porta consumata per tutte le volte che le hanno chiesto di aprirsi. Cigola penosamente quando ti fanno entrare in una stanza troppo ammobiliata, e le pareti rosse che sembrano fissarti. Dentro c’è un divano di pelle nuovo di zecca, tre sedie spaiate con le gambe di metallo e un enorme sgabello di legno dalle gambe scolpite a forma di zampe d’elefante. Fai un commento in proposito, ma il padrone di casa, un tizio corpulento di nome Simon, abbaia "Tutti chiedono dello sgabello. Tutti i bianchi, chiedono sempre di quello. Offrono soldi, un sacco di soldi. Ma io, io non glielo vendo." Ti chiedi perché è così arrabbiato, ma poi capisci che è il suo modo di parlare. Chissà se è nato così. Con la voce che pare un latrato rabbioso. La tua istruzione inizia prima di quanto ti aspetti. Bob ha ragione: puoi andare a scuola. Solo che non ti ha detto di che scuola si tratta. E cosa ti toccherà imparare. In vetrina con la sola biancheria addosso, che copre appena l’essenziale, un sorriso che ti marchia la faccia mentre dentro avvampi, le labbra rosse come fuoco.
All’inizio sei furiosa con Bob. Ma la rabbia se ne va quando ti lascia digiuna per due giorni (ti si torcono le budella per la fame). La rabbia diventa un vuoto che vuoi solo colmare. Ti chiedi che altra scelta avresti, non vuoi tornare alla vecchia vita in Nigeria. E poi Bob ha il tuo passaporto, te l’ha preso subito dopo che sei uscita dall’ufficio immigrazione.
La prima notte di lavoro ti vergogni, ma ben presto impari a gettar via la timidezza, la lasci ammuffire. Col tempo, impari a essere diversa per uomini diversi. Una schiava. Una padrona. Una cagna. Ad ascoltare chi vuole parlare. C’è quello che sua moglie è una stronza e lui non avrebbe mai dovuto sposarla. Quello che ama soltanto toccare il corpo di una donna nera. Sua moglie è troppo bianca, più bianca del latte e lui vuol vedere il contrasto tra l’interno delle sue cosce e l’esterno delle tue. Un altro che vuole solo verificare se davvero le donne nere sono delle tigri a letto. Ti chiede di ruggire e anche se ti senti ridicola lo accontenti, e ti lascia una bella mancia.
Ai clienti piaci e fai un sacco di soldi. Più di quanti tu abbia mai pensato ne potesse avere una persona sola. Guadagni quanto basta perché Bob possa comprarsi scarpe nuove di vernice e riesci anche a mettere da parte qualcosa. Lavori sette anni prima di trovare il coraggio di tornare a casa. All’arrivo sei il ritratto del benessere. Tailleur blu. Scarpe nere col tacco alto. Una borsetta di pelle nera che ti dondola sul fianco, come una top model in passerella. I vicini accorrono a darti il benvenuto con fischi e canti. I bambini si spingono a vicenda, fanno a gara per portarti le tre Samsonite che rotolano fuori dal taxi.

Sorella, falle portare a me
Sorella, guarda, io molto molto forte
Sorella, io c’ero prima. Lascia perdere questi qua.
Sorella, guarda, io aiuto sempre tua madre quando va al mercato
Sorella, sono il tuo nwanne, abbiamo lo stesso sangue.

Sorridi con indulgenza. Ostentatamente, conti gli spiccioli sul palmo dell’autista, poi guidi la truppa degli accoliti fino all’unica stanza dei tuoi genitori, dove tuo padre aspetta, dignitoso. Più fragile, più calvo, assiso sulla sua sedia come un re sul trono. Ti fa appena un cenno col capo.
Non ti ha perdonata per essertene andata. Tua madre è in piedi accanto a lui, incerta, ti studia cercando di non perdersi nemmeno un dettaglio. Fa scorrere lo sguardo da te a tuo padre e poi di nuovo su di te. Distribuisci denaro ai bambini e ti lasci inghiottire dalle braccia tese di tua madre che alla fine ti barcolla incontro come fosse ubriaca. Con un gemito ti stringe a sé. La sua felicità ti sommerge e le affondi il viso nell’incavo del collo. Rimani a casa due settimane, a lamentarti delle stesse cose di cui si lamentano tutti gli espatriati. Il clima, troppo caldo. L’acqua, pericolosa. La corrente elettrica, che va e viene. Le zanzare, insopportabili.
I vicini che conosci, e anche quelli di cui nemmeno ti ricordi, fanno la fila per vederti, per rammentarti quanto eravate amici, si mangiano con gli occhi i tuoi vestiti, le mani avide tastano la stoffa, i volti lucidi di sudore e aspettativa. Vogliono toccarti, sentire il paradiso attraverso di te. Ti chiedono com’è la vita laggiù e gli racconti storie per soddisfare le loro orecchie fameliche.
Viene anche Sunday con mezzo cervello, trascinandosi appresso il suo bellissimo bambino che non è più bambino e non è più nemmeno bellissimo, adesso è così magro che il più leggero soffio di vento potrebbe farlo volare via come un foglio di carta.
Come fosse manna, distribuisci indumenti, e denaro. Tua madre incombe come una guardia del corpo, per assicurarsi che tu non dia via troppo. Quando tiri fuori una mazzetta di banconote nuove di zecca, per un anziano vicino disoccupato da tre anni che non ce la fa più a sfamare la famiglia, tua madre ti sfiora un braccio. È un tocco leggero, le sue dita ti sfiorano appena. Quanto basta per farti capire che il dono le pare eccessivo. Allora dividi la mazzetta in due e al vicino deluso ne porgi la metà. Ti ringrazia comunque, ma lancia un’occhiataccia a tua madre. Lei lo ignora e sibila qualcosa sulle persone ingrate. Quella stessa sera ti mette in guardia dall’elargire troppo denaro, "Se ne dài troppo, domani questa casa sarà piena di gente e delle loro lamentele. Non dimenticarti che ce l’hai anche tu una famiglia. I soldi servono anche a noi." Non mi ricordo quand’è l’ultima volta che mi sono comprata un vestito. Tuo padre ha ben pochi clienti, ultimamente, l’hai visto da te. Le rispondi che starai più attenta, e che domani deve assolutamente comprarsi dei vestiti, i soldi non ti mancano. Lei alza le braccia al cielo e danza contenta.
Hai colmato di felicità la stanza dei tuoi genitori ma tuo padre rimane impassibile. Ti rivolge appena la parola. Quando te ne lagni con tua madre, ti dice di non pensarci, prima o poi gli passerà. È un uomo e ha il suo orgoglio dice, e ti chiede di dargli tempo.
Alla fine tuo padre cede e ti perdona, dopo che gli hai infilato nei pugni stretti più soldi di quanti ne abbia mai avuti in tutta la sua vita di ciabattino. Gli prometti una casa nuova. Una bella casa con quattro stanze e il televisore a colori. E guarnisci la promessa con quella di un’auto nuova, osservando il suo sorriso allargarsi ad ogni promessa. Gli brillano gli occhi, come stelle in un cielo limpido. Sai che nella sua mente vive già nella casa nuova col televisore e un’auto nel garage, probabilmente nel GRA, l’ex quartiere dei bianchi. O in Independence Layout, quello nuovo, costruito per festeggiare l’indipendenza. Via dai bassifondi di Obiagu. Una nuova vita lontana dal bugigattolo addossato alla casa, dove passa la giornata seduto al deschetto di legno in attesa di clienti che arrivano sempre più radi. Lui sarà un oga, il padrone di una casa indipendente con quattro stanze con la moquette. Tua madre preparerà i pasti in una cucina grande quanto l’attuale abitazione, su fornelli a gas, non sulla stufa a cherosene. E lui non dovrà più lavorare perché gli hai promesso un assegno mensile.
Sai bene che i tuoi genitori non ci credono che fai la dattilografa in una grande azienda. A volte sorprendi lo sguardo di tua madre che ti segue per casa come un cane fedele. Sai che riescono a indovinare quel che fai dall’aria logora che il tuo corpo ha assunto negli anni, dalla stanchezza involontariamente rivelata dall’ondeggiare dei fianchi. Ma sai anche che hanno troppa paura di chiederti cosa fai davvero.
Ben presto le due settimane sono volate ed è ora di andare. Quando il tuo taxi parte per l’aeroporto, saluti come una regina dal sedile posteriore, e sorridi con un sorriso preso in prestito.

Traduzione di Ludovica Pisano

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Anno 2, Numero 8
June 2005

 

 

 

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