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dissacrare la lingua

ubax cristina ali farah

La questione della lingua, che da sempre accompagna la storia della letteratura italiana, diviene argomento di interesse centrale nell’ambito di quel corpus di scritture catalogato sotto la generica etichetta di letteratura migrante. È in primo luogo il significato stesso del termine “migrante” ad essere oggetto di discussione, racchiudendo al suo interno la rievocazione di un’assenza, del carattere deturpante dell’esilio, piuttosto che la ricchezza della metamorfosi e del viaggio. Nati per necessità, i primi testi della migrazione sono stati perlopiù accolti come interessanti documenti sociologici, testimoni di una nuova era, e non come precursori di un movimento in salita verso un’acquisizione progressiva in cui i singoli protagonisti, fatto tesoro dell’esperienza che attraverso la frattura li obbligava a prendere atto di sé, lavoravano per una rivitalizzazione linguistica e culturale.
Le prime autobiografie pubblicate testimoniano un lavoro a quattro mani in cui la collaborazione tra autore nativo e migrante, pur aprendo un tavolo di confronto e condivisione, volge la lingua dello straniero secondo il codice del coautore, fattosi da ascoltatore a depositario della testimonianza.
Il cammino è tortuoso e pur affrancandosi da un appoggio collaborativo, gli scrittori migranti privilegiano la fedeltà alla norma, rifuggendo da ibridazioni linguistiche ed eliminando le tracce della lingua materna.
Alcuni studiosi sostengono che la responsabilità principale dell’appiattimento linguistico della scrittura migrante sia, in primo luogo, da addebitarsi a coloro che lavorano direttamente sui testi, standardizzandoli in nome di una correttezza formale. Talvolta ciò si accompagna al comprensibile pudore da parte degli autori stessi che preferiscono eliminare le imperfezioni linguistiche considerate poco attraenti.
D’altra parte, se il crescente numero di autori di seconda generazione che si sta affacciando sul panorama letterario italiano può godere di una maggiore competenza linguistica, disponendo degli strumenti per operare un cosciente lavoro sulla lingua, è anche vero che la loro esperienza non si può assimilare a quella dei primi.
L’Italia, infatti, a differenza di paesi come la Francia e il Regno Unito, non ha coltivato i rapporti culturali con i paesi delle ex colonie, favorendo il formarsi di un’élite culturale italofona. Di conseguenza l’incidenza del bilinguismo non è significativa tra gli scrittori “migranti”, che appartengono ad uno spettro abbastanza ampio di regioni di provenienza. Esiste poi una diffusa ed erronea percezione per cui la lingua italiana, pur avendo rivestito in passato il ruolo di lingua di cultura, oggi non è considerata degna di interesse come altre, a causa della scarsa diffusione che la rende meno appetibile da un punto di vista utilitaristico.
Tuttavia ciò non è necessariamente negativo, poiché la maggior parte degli autori che optano per l’italiano come lingua di espressione letteraria lo fanno per scelta e non per costrizione, mettendo in rilievo la connotazione affettiva di tale inclinazione.
Diversamente, le principali lingue coloniali pur vedendo riconosciuta la propria funzione unificante, sono spesso interiorizzate in modo conflittuale, poiché sono percepite come una sopraffazione linguistica della lingua dei dominanti su quella dei nativi.
Forse è questo il motivo per cui molti autori post-coloniali francofoni o anglofoni sentono la necessità di manipolare e di trasformare la lingua: ne conoscono i dettagli più intimi e possono dall’interno destrutturarla, essendo un oggetto di loro appartenenza. L’interiorizzazione linguistica è ciò che permette alla scrittrice camerunese Calixthe Beyala di dire “il francese è francofono, ma la francofonia non è francese”.
È anche vero che l’unità d’Italia è un evento storico relativamente recente ed è ancora in divenire la diffusione capillare dell’italiano cosiddetto standard. Ciò avviene in grandissima parte ad opera dei mass media che contribuiscono alla diffusione di un linguaggio monocolore.
Tenendo conto di queste questioni è doveroso ritornare sul tema dell’editing della cosiddetta scrittura migrante, ponendosi il quesito su quale sia lo standard o la norma a cui generalmente la lingua scritta mira, sia per gli autori nativi che migranti.
Risulta complesso distinguere in quali casi alcune forme lessicali o sintattiche rappresentino un arricchimento stilistico e in quali non risultino invece solo pesanti e poco efficaci.
Chi lavora direttamente sui testi impara a riconoscere quali siano le sbavature formali, acquisendo intimità con la lingua del singolo scrittore, per cui diviene quasi naturale riconoscere l’intenzione dall’errore.
Auspicabile sarebbe, per alcuni addetti ai lavori, la creazione futura di un’agenzia specializzata che si occupi di “editare” questo tipo di testi, promovendo la diretta collaborazione tra un autore ed un editor specifico. In tal modo si ritornerebbe, con ruoli diversamente definiti, al precedente legame tra autore e coautore, per cui un lavoro come quello della scrittura che rischia spesso di scivolare nell’autoreferenzialità, potrebbe spogliarsi di tutto ciò che contiene di individualistico, per uscire allo scoperto su un campo di lavoro comune.
Il fine ultimo sarà quello di preservare il valore dell’atto di trasporre i pensieri in una lingua altra poiché, come dice Tahar Lamri, "Scrivere in una lingua straniera è un atto pagano, perché se la lingua madre protegge, la lingua straniera dissacra e libera."

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Anno 1, Numero 7
March 2005

 

 

 

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