El Ghibli - rivista online di letteratura della migrazione

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intervista ad amara lakhous

ubax cristina ali farah

Amara Lakhous percepisce il primo ottobre del 1995, data del suo arrivo in Italia come momento imprescindibile, quasi fosse la data della propria nascita. Aveva venticinque anni e portava nella borsa il suo primo romanzo, più prezioso di un passaporto. In fuga dall’Algeria vi è tornato solo nel febbraio del 2004, dopo otto anni di assenza. Con sé portava un nuovo romanzo scritto in arabo come il precedente, tributo di amore e di fedeltà per quella terra che l’aveva respinto per non condividerne più il progetto sociale e politico. Continuare a scrivere in arabo ha significato e significa tutt’ora continuare a vivere in Algeria, mantenere vivo un rapporto che è necessario ricucire.
Nato ad Algeri nel 1970, Amara Lakhous vive a Roma. Si è laureato in Filosofia presso l´Università di Algeri e in Antropologia culturale presso La Sapienza di Roma. In Italia ha pubblicato il suo primo romanzo Le cimici e il pirata (Arlem ed.1999, in arabo con traduzione in italiano) e in Algeria il secondo, ambientato a Roma, Come farsi allattare dalla lupa senza essere morso. Lo scrittore, in più di un’occasione, ha espresso le sue perplessità riguardo l’abitudine diffusa di aspettarsi dagli scrittori migranti frammenti di verità e storie di emarginazione sociale e di disagio. E’ tuttora aperto il dibattito sulla cosiddetta ricetta della letteratura della migrazione. E discussa è la lettura in chiave essenzialmente autobiografica.

E’ possibile una distinzione tra chi scrive per necessità, per l’urgenza di comunicare e chi usa la scrittura in modo più consapevole?

Ci sono certamente delle differenze tra chi ha cominciato a scrivere prima di arrivare in Italia e chi ha iniziato a scrivere direttamente in italiano, magari perché è arrivato da bambino, o per altri motivi. Per me la prima categoria è più problematica, perché comprende scrittori che partono da una lingua precedente per entrare in un’altra lingua. Non c’è un fenomeno ben chiaro quando si parla di letteratura della migrazione.

Parlando del tuo recente viaggio hai detto che tornando a casa, hai portato con te la lingua italiana come bottino d’amore. È una lingua con cui non hai sviluppato un rapporto conflittuale e che hai adottato per scelta e non per imposizione. Tuttavia sottolinei come con una lingua l’intimità e l’intesa vadano maturate con il tempo e non possano bastare otto anni per essere in grado di gestirla con sufficiente disinvoltura. Che cosa intendi quando dici che riscrivi il tuo romanzo in italiano?

È un processo lungo che prevede diverse fasi. Prima scrivo il mio testo in arabo. Poi dico che lo riscrivo in italiano, perché non si tratta di una semplice auto-traduzione, non essendo obbligato a rispettare il testo originale, lo ricreo a mio piacimento. In tal senso godo di una libertà che il traduttore normalmente non ha.
Nel romanzo che sto riscrivendo ci sono alcune cose che non ci sono nel testo in arabo o perché non le ritenevo opportune o perché si tratta di battute che non avrebbero avuto alcun senso per un pubblico arabo. Fonte di ispirazione è per me la Commedia all’italiana: per esempio nel mio lavoro di riscrittura ho inserito la famosa battuta di Sordi nel Marchese del Grillo che dice “Io sono io e voi non siete un cazzo!” Una battuta del genere detta ad un pubblico arabo non vuol dire nulla, mentre per un pubblico italiano ha un significato, non ho neppure bisogno di citare il film, perché è una battuta nota.
Esiste poi un altro vantaggio. La riscrittura offre un’occasione in più, perché capita molto spesso che quando si pubblica un lavoro ci si penta per quello che si sarebbe potuto fare e non si è fatto. Invece, nel testo in italiano, ho la possibilità di soddisfare questa esigenza.
Ho parlato della prima fase del processo della riscrittura. Una volta finita la prima stesura, ci sono un gruppo di amici che leggono il testo. Dalla lettura nascono discussioni, suggerimenti, suggestioni e osservazioni che prendo in considerazione, analizzo e in seguito opero una scelta.
Qui vorrei fare una riflessione sulla questione fondamentale dell’editing. Io preferisco non dare il mio testo ad un editor di una casa editrice che ne può fare quello che vuole. Questo è noto e succede ai migliori scrittori, soprattutto per quel che riguarda la struttura del linguaggio. Ci sono autori che riescono a negoziare, perché alla fine si tratta di una questione di potere. Credo che la decolonizzazione consista in questo, nel non lasciarsi colonizzare da altri. Voglio essere io il comandante della nave. Sono io che decido quali modifiche apportare al mio testo.
Finita questa seconda fase ne inizia una terza che è quella a cui sto lavorando ora ed è la più delicata, perché prende in considerazione i vari linguaggi.
Questa operazione si fa su due livelli. Il primo livello riguarda i vari dialetti (uso la parola dialetto per semplificare, perché anche la distinzione tra lingua e dialetto sottende una gerarchia, è il potere che decide qual è la lingua e qual è il dialetto). Cerco di usare il napoletano, il milanese a seconda del linguaggio che usano i diversi personaggi. Questa è una grandissima avventura che da solo non posso affrontare, quindi ho bisogno di una figura come quella che Emilio Gadda ha usato per il Pasticciaccio, romanzo per il quale ha avuto bisogno della consulenza di un romano. Questo per quanto riguarda i vari dialetti.
Il secondo livello riguarda i personaggi. Una ottantenne napoletana non parla come un giovane di vent’anni, una portiera non parla come un giornalista televisivo, quindi dovrei trovare il registro linguistico adatto ai vari personaggi. Ricapitolando quindi la prima stesura la porto a termine io, la seconda mi serve a decidere quanto le frasi siano comprensibili o meno, nella terza fase entro nel vivo del linguaggio.

Questo processo è quello che hai utilizzato anche per la stesura del tuo primo romanzo, Le cimici e il pirata?

In quell’occasione per la traduzione sono stato un consulente, un aiutante, naturalmente il traduttore su alcune cose ha insistito. Al tempo non ero ancora in grado di fare questo tipo di lavoro. Per questo parliamo tanto della decolonizzazione: essere dipendenti da altri fa parte del progetto coloniale. Gran parte degli scrittori della migrazione necessitano di un editor e di interventi massicci, questo non va bene. Quella volta me lo sono potuto permettere perché partivo da un testo già scritto.

Nei tuoi interventi spesso sottolinei l’importanza che riveste per te il fattore linguistico, come veicolo attraverso cui offrire un doppio sguardo, una diversa visione dei fatti. L’arabo stesso è una lingua dotata di sfumature linguistiche complesse che tu stesso hai distinto individuando l’arabo classico, del Corano, l’arabo dei mass media e l’arabo parlato nelle diverse realtà territoriali.

Io sono cresciuto in una situazione interculturale, perché mia madre mi parlava berbero e da piccolissimo sono andato in una scuola coranica imparando l’arabo. Ho poi studiato il francese durante gli anni della scuola. Sai, la lingua è importante, delle volte la gente la sottovaluta, la lingua è il pensiero, quando parliamo pensiamo, la lingua porta con sé tutto anche la riflessione. Per me il bilinguismo, il trilinguismo sono una cosa spontanea.

Il tuo nuovo romanzo è basato su anni di ricerca a Piazza Vittorio. Intendi questo quando dici che l’elemento fondamentale per poter scrivere è la conoscenza? Nella costruzione del testo quanto ha influito la tua possibilità di osservare la società con occhi diversi, con uno sguardo che, come hai detto, ti ha permesso di vedere qualcosa che chi è all’interno di quella società non riesce a decifrare? Nella tua scrittura inoltre si sente molto forte la componete verbale, il ricorso al dialogo. Questa tua rielaborazione sembra derivare da un ascolto attento a cui sembra seguire una trascrizione fedele nel testo scritto.

Fedele è una parola molto impegnativa: certo il punto di partenza è la conoscenza il che significa per me osservare, comunicare, parlare, ascoltare e tutto questo diventa un materiale. Noi siamo dei traduttori, cerchiamo di tradurre quello che ascoltiamo e cerchiamo di trasferirlo in qualche altra cosa. La nostra è più che altro una re-interpretazione. Hai un materiale e fai una riproduzione di questo materiale. Ci sono scrittori che portano con sé un quaderno e scrivono le cose che ascoltano per strada o nei vari luoghi. Io invece tendo ad immagazzinarle nella mia memoria e poi ad un certo punto escono. Ovviamente l’esperienza di piazza Vittorio è stata fondamentale, perché ho vissuto per due anni in un centro d’accoglienza con immigrati e rifugiati con cui dividevo lo spazio, il tempo, il cibo, l’emozione e questo mi ha cambiato veramente la vita.
Dico spesso che non sono stato in Bangladesh, non sono stato in Pakistan fisicamente, ma posso dire che conosco i bengalesi e i pakistani più di moltissimi turisti. Ho vissuto con loro. Quando un turista va in un paese non sta con la gente, pensa a divertirsi. Io invece li ho visti piangere, ridere.

In passato hai messo in luce come i tuoi personaggi non siano mai degli intellettuali, ma personaggi semplici, più funzionali alla comunicazione. Hai mantenuto questa scelta anche in questo nuovo romanzo?

Nel caso della scrittura c’è la grandissima possibilità di entrare dentro vari personaggi. Questa è la grandezza della scrittura in generale e in particolare del romanzo che è il genere che prediligo, perché mi dà la possibilità di identificarmi in diversi personaggi che possono essere indistintamente donne, bambini, criminali, buoni, cattivi, poliziotti ecc. Questa possibilità spinge a comunicare ancora di più. Per cui non basta leggere libri ma occorre parlare con la gente, cercando di ascoltare. In francese c’è un bellissimo proverbio che dice “La professione è la seconda religione” Quando uno esercita un mestiere, quel mestiere diventa qualcosa di più grande. Ho notato che un meccanico romano parla quasi lo stesso linguaggio del meccanico algerino. Le loro metafore sono quasi le stesse. “Si è fermato il motore” per entrambi significa che si è fermato il cuore. Hanno un immaginario e gli stessi punti di riferimento. Lo stesso si può dire per una portiera algerina e una portiera napoletana.

Qual è il titolo del tuo nuovo romanzo?

Come farti allattare dalla lupa senza che ti morda. È un titolo che vuole essere ironico, perché se vai nelle librerie troverai tantissimi libri con titoli di questo tipo Come imparare l’inglese in una settimana, Come fare la pizza in cinque minuti …
Tutto serve a promuovere la cultura della facilità, come se fosse tutto scontato, tutto si potesse fare senza stancarsi. Il titolo nasce da quel contesto.
Adesso vado in Algeria, quando torno dovrei completare il lavoro, definire meglio, per lo meno, i tre personaggi principali. Se ti dicessi che sono personaggi esistenti mentirei, perché alcune cose sono realmente accadute ma non esattamente a quella persona che descrivo. Poi ci sono situazioni portate all’estremo. C’è per esempio un personaggio bengalese che ha tutta una storia che gira intorno ad un problema che ha avuto, cioè l’inversione del nome con il cognome sul permesso di soggiorno. Per lui questo è un disastro, perché non è lui quella persona … Il poliziotto non riesce a capire. Certamente ho incontrato situazioni del genere, quello del nome è un problema enorme. Questi sono i vari malintesi. Io ho giocato su questi, sullo specchio. Questo è solo l’inizio, non so dove andrò a finire. La cosa certa è che non ho fretta e che la casa editrice a cui proporrò il mio testo lo dovrà prendere così come l’ho scritto: non sono d’accordo nel dare un testo e lasciarlo rimaneggiare da altri.

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Anno 1, Numero 7
March 2005

 

 

 

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