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viaggio sui respiri d'ombra

marco testasecca

La fine delle nostre serate estive era sempre quella. Dopo aver corso tutto il giorno, a piedi o su due ruote. Dopo esser stati ben rifocillati dalle rispettive famiglie e lavati a dovere, il nascondino era la conclusione preferita al giorno. Il farsi della notte ci affascinava non poco e noi godevamo, nel nostro gioco, tutti gli anfratti che il paese ci offriva con la complicità dell’oscuro. Anche le ombre sparivano grazie alla notte. Che inghiottiva i nostri corpi, liberi di trovare un angolo qualsiasi cui adattarsi e dove attendere la scoperta da parte di colui che si era “accecato”. Il preludio al ritrovamento aveva sapore magico. Restavamo immobili, silenziosi e preparati. Pronti a scattare verso il luogo deputato per la “tana” che in quel posto - chissà per quale origine linguistica - chiamano “tingolo”. Chi veniva scoperto e tanato non perdeva però la speranza di salvezza. Essa poteva arrivare dall’ultimo che era rimasto ben nascosto e non era stato trovato ancora. L’ultimo poteva trarre in salvo tutti coloro che erano stati scovati e fatti fuori dal gioco. L’ultimo aveva la possibilità di essere la creatura della liberazione. Ed era bello essere ultimo, in quel caso. Era il desiderio più interiore e forte di tutti. Era ciò che tutti avremmo voluto essere per raccogliere la genuina gratitudine che quel gioco permetteva di esprimere al suo culmine. Per ricominciare. Fino al momento di andare a rivivere i sogni.
All’ora stabilita - molto flessibile - da ogni finestra o portoncino giungevano ancora rumori di dopocena: bicchieri tintinnanti e tentennanti ancora sulle tavole sgombre a metà. Piatti che annegavano nell’acqua saponata per essere salvati e puliti da mani veloci. Posate che s’intrecciavano accompagnando il ritmo dei nostri passi sulle pietre levigate, dalle quali volavamo verso i nostri rifugi.
Io - come molti altri – avevo il mio luogo preferito. Inoltre, una compagna con cui condividere il nascondiglio. Era Anna, la figlia di Bruno il falegname, dalle mani enormi e scure. Il posto in cui ci accovacciavamo, stretti l’uno nel respiro dell’altra, era dietro i sambuchi che costeggiavano il muro di mattoncini, lungo la discesa più in discesa che offriva il villaggio: La “Portella”. Così i paesani chiamavano quel luogo ameno e oscuro, tanto oscuro, durante la notte. E alla Portella molti erano i bambini che dirigevano i propri passi durante lo svolgimento del gioco.
Alla Portella, trovato per la prima volta il coraggio di afferrare la mano di Anna – precedendo l’altro cittadino come me, quel Luca il cui solo nome m’evocava un suono poco amato – sentii il respiro dell’amica poco più che bambina entrare dai lobi deputati all’ascolto. Quel ritmo vitale si diresse verso le mie budella e le sconquassò, come fulmine che attraversa una quercia secolare. Il fulmine: un bagliore d’emozione da parte del cielo, una foto scattata all’anima delle nuvole, uno sguardo immediato sull’energia impressionante delle gocce di pioggia. Ho amato tanto il fulmine fino allo sgomento suscitato da quello che, pochi anni prima, aveva trapassato l’enorme e isolata quercia nel campo verso Ovest.
D’un tratto provai di nuovo orrore, misto a senso d’impotenza, al ricordo sopraggiunto del corpo riverso su zolle inzuppate d’acqua e morte. Nel tardo pomeriggio d’un paio d’anni prima il tuono annunciò l’ultimo suono udito dal mio amico Orlando. Dopo il rombo, la sua freccia visibile - attraversata la quercia - fece sussultare il trattore del contadino mentre arava. Perso d’improvviso il guidatore sbalzato, il mezzo si diresse verso il pagliaio, lo rovesciò e produsse il rumore assordante di pistoni impazziti: emissione del suo pianto da parte del trattore. Al lamento metallico seguirono le grida di coloro i quali accorsero invano in aiuto di Orlando.
Anna era spesso con me anche durante il giorno. Anche quello in cui, dietro al campanile della chiesa, vidi svolazzare un foglietto. Lo raccolsi con un inchino inconsapevole e con una forte sensazione di dolcezza da condividere. Un pezzetto di carta colorata grazie al quale immaginai i colori dei dolciumi che avrebbe permesso di sgranocchiare sui sorrisi e sulle gote di Anna. Una banconota da cinquecento lire, di piccolo taglio. Agli occhi e alle emozioni di un bambino sembrarono un tesoro di grande valore. Un tesoro che spinse il bambino alla riconoscenza verso l’angolo di mondo in cui era stato trovato regalando felicità. Momentanea. La deliziosa circostanza durò brevi attimi. Giusto quelli che dal campanile portano in pochi passi verso il piccolo arco di travertino che segna l’ingresso al borgo vecchio. È lì che si fece incontro un uomo dal nome che ispira pace. Provocò in me, però, una guerra interiore. “Ehi ragazzino, vieni un po’ qui,” - intimò particolarmente serio -“fammi vedere cosa hai trovato.” Mostrai sorridente al signor Placido il regalo della fortuna per quel giorno e lui quasi lo strappò dalla mia mano. “Aaah, queste sono le cinquecento lire che ieri, mentre vendevo un pollo, mi sono volate via.” Non mi ringraziò nemmeno per averle trovate e se le cacciò, voltandomi le spalle, nella saccoccia dei pantaloni di pelle di diavolo, consunti e sporchi dal merdicchio di pollame. Mi resi conto allora che la merda ha un suo inconfondibile colore. Che da quel giorno seppi individuare negli sguardi di chiunque si avvicinasse per rubarmi emozioni. Così, ora, sentirne la puzza è quasi sempre una mia scelta.
Condivisi anche quella sensazione e quella lezione con Anna. Non parlammo più per il resto del pomeriggio andandoci a rifugiare nel covo sotto la Portella, quello del gioco notturno. Anche durante il giorno quel luogo è dominato da oscurità che invogliano a scoprire.
Solo pochi raggi di sole filtravano dalle foglie e giungevano a terra o sulle piccole rocce come una rete. Su cui contare per proteggere il volo di due anime bambine.
Nel nostro riparo ci guardammo. Un sorriso amaro solcò liquido il volto di Anna e mandò in aria le mie zolle interiori. Le porsi la mano e con un movimento congiunto ci sedemmo a terra. Anna poggiò la testa sul mio torace e, dopo pochi istanti, m’accorsi che dormiva. Il suo respiro era in accordo con il tremolio del fogliame mosso dalla brezza. I suoi capelli si spandevano sul mio petto come una corazza della quale mi vestii. Non pensavo più, non avevo ricordi o progetti. Godevo il sonno di Anna e, con la tricologica armatura, entrai nelle immagini d’ignoto. Guardavo la mia amica e - pur nella totale e percepita assenza di un ruolo - mi sentii, per un attimo, guerriero messo di guardia ad un portale. Proprio quello ero in quel momento. Una serena e sicura sentinella sulla porta del mondo interiore di Anna. Ero il protettore del suo sonno. Per un momento.
Pomeriggio. Sera. Sera fatta notte in fretta, troppa fretta. Ma s’era aperto il sipario. Si svelava la nudità priva di pudori del viaggio che stavo per compiere. Anna mi prese per mano e spinse con il corpo un portoncino che non avevo mai notato nel muretto della Portella. Entrammo a passi lenti e paralleli. O meglio uscimmo. Credo.
Una luce intensa, una luce blu, ci accolse e ci presentò il paese come un vecchio villaggio del Far West ricostruito dagli scenografi del cinema. Un polveroso e selvaggio villaggio blu. Sotto di noi vedemmo ciò che sembrava il mare. Una lunga distesa con mille differenti sfumature di azzurro. Innumerevoli puntini colorati rendevano il mare simile a un cielo costellato di fuochi artificiali. I nostri passi leggeri ci portarono verso quella distesa, passando dall’interno del paese truccato dalla luna. Giunti alla rocca dov’era la bicocca di Silvano, il pastore sardo emigrato anni addietro in quella parte di “continente”, ci fermammo allo strapiombo. Anna strinse di nuovo la mia mano e chiese: “Sei pronto?”
“Pronto a cosa?”
“Ancora non hai capito?”
“Capito cosa?”
“Oh ma tu sei proprio tonto eh?”
“Sono tonto.” Non feci in tempo a superare la soglia del rintontimento. Anna, prendendomi per un braccio con le mani che sembrarono quelle di suo padre, spiccò un salto in avanti. Di certo non potevo fare a meno di seguirla. Feci solo in tempo a vedere il suo sorriso che si stampava sul mio terrore, cancellandolo. I belati delle pecore di Silvano sembravano risate. Lo strapiombo che vedevo sotto di me, sempre più vicino, non mi spingeva a unirmi al gregge.
Anna invece non solo rise, appena toccato terra, ma rivolse uno sguardo luminoso e divertito. Mi accarezzò i capelli (“Belli i tuoi capelli blu,” mi disse) e commentò il mio stupore per essere ancora intero dicendo: “Guarda.” Vidi solo in quell’istante l’enorme mucchio di paglia blu sulla quale eravamo ammarati. “Adesso svegliati amico caro!” Già, dovevo svegliarmi e farlo in fretta perché Anna stava già correndo. Io sembravo qualcuno che porta al guinzaglio un alano partito come una freccia dopo aver visto e fiutato una cagnetta in calore. Volavo grazie alla corsa di Anna che teneva ancora nella sua morsa il mio braccio. Finalmente riuscii ad abbandonarmi a quel volo. “Scuoti le ali porcamiseria! Ti stai facendo trascinare troppo!” “Le ali?” Questo fu solo un pensiero e non mi sembrò opportuno chiedere ad Anna di fugare il mio dubbio. Cominciai a dimenare le braccia dispiegando le ali. “Le ali?” Anche questo, di nuovo, fu solo un pensiero. Così non chiesi più neanche a me stesso.
Fendevamo l’aria come aquiloni sulla grande distesa blu piena di puntini colorati. Percorrendola in lungo e in largo i puntini si rivelavano fiori, delle specie più disparate, e la distesa mutò spesso il suo blu diventando anche verde. Ogni volta che ci spingevamo in basso quel mare rivelava la sua morbidezza e ricambiava la leggerezza con la quale anche noi ci muovevamo. Un mare d’erba e fiori, sul quale nuotare, camminare e volare, a nostra scelta. Comandando i movimenti con uno sguardo reciproco. Io e Anna eravamo compenetrati nei nostri occhi che si specchiavano in quei fiori. Non dovevo neanche chinarmi a raccogliere quelli che più mi piacevano. Ogni fiore che guardavo più intensamente d’un altro, ogni fiore che mi guardava regalando un’emozione, si coglieva d’incanto da terra e veniva a posarsi sulle mie mani. Come un uccellino che si approssimi a beccare cibo, presentato per lui col palmo aperto. Non sentivo più la pelle. Non sentivo più suoni. Non vedevo più Anna!
Osservando intorno a me sembrava impossibile poterla vedere. Anna poteva essersi fatta fiore in mezzo ai fiori. Tra quell’erba magica non sarei davvero stato in grado di scovarla. Ma provai, continuando il volo solitario, o meglio, insieme ai fiori.
Non la chiamavo. Un po’ perché non volevo inquinare la pace del luogo. Poi perché non volevo dare soddisfazione ad Anna, pensando ad un suo scherzo. Immaginando un nascondino giocato solo in due. Anzi, mi piaceva stare a quello scherzo. Mi piaceva condividere solo con lei il gioco preferito, quello di solito svolto in branco. M’abbandonai alla sua ricerca trasportato dal profumo dei fiori. Una loro linea di colore, prevalentemente blu, m’invitò a seguirla. La percorsi ancora più leggero di prima nei movimenti, scrutando intorno (la cercavo Anna, la cercavo). In quel tragitto iniziai a sentire una musica. Ci volle poco per capire che proveniva proprio dai fiori blu che sorvolavo. Ci volle poco per riconoscere note di chitarra in sussurro. Le avevo già sentite e ricordai subito dove. A casa di Filippo, il cui fratello maggiore era un grande estimatore di quel musicista americano che, negli anni a venire, avrebbe eseguito spesso la colonna sonora per alcune fasi d’esistenza. Era uno dei fratelli Allmann, Duane, uomo blu, di sicuro. M’avevano detto che era morto Duane Allmann. Morto, forse, solo per provare il gusto di morire. M’avviluppò di nuovo quella chitarra tra le sue braccia pentagrammate e irrigai di lacrime i fiori musicanti.
“Ehi, le tue lacrime sono dolci!”
“Come potrebbero essere salate lacrime sgorgate grazie a una melodia blu?” risposi senza conoscere il mio interlocutore e, soprattutto, senza vederlo. Spuntò dal nulla, sorridente, tenendo in mano un gallo variopinto. Le sue penne più belle e lucenti erano – manco a dirlo – blu come il cielo. Penne strane però. A ben guardarle erano tutti plettri da chitarra. “Vieni un po’ qui ragazzino, che tieni tra le mani?”
“Ho fiori che hanno raccolto se stessi e si sono donati.”
“Dai, fammeli vedere.” Non puzzava, no, quell’uomo non puzzava. Così risposi: “Mmm … ehm … eccoli, ne vuoi uno?”
“Si ne vorrei uno, li vendi?”
“No, questo te lo regalo.”
“Anch’io voglio farti un regalo, anzi due.” Detto questo lo spilungone biondo prima strappò, con delicatezza, un plettro dal gallo. Poi trasse dalla tasca dei pantaloni azzurri – che sembravano fatti di leggerissime piume – una moneta luccicante. Strabuzzai gli occhi ed esclamai: “Cinquecento lire, e d’argento poi! È davvero per me la moneta?”
“Si è per te. L’ho trovata in mezzo a una distesa di campanule e io non ne ho bisogno.” “Ah grazie, io però non ho bisogno di un plettro, mica suono la chitarra io.” Sorrise, il barbuto. “Chissà, forse un giorno lo farai. Ma tienilo comunque. Il mio gallo ne avrebbe a male se lo rifiutassi”. Ringraziai anche il gallo che mi guardava con occhio da ubriacone attento e aggiunsi: “Sai, mi piacciono tanto i tuoi calzoni, non ne ho mai visti così.”
“Eeeh lo credo, sono in piuma d’ala di fantasia, adatti per ogni stagione. Io ci andavo anche in moto.“
“Hai una moto? Anche mio padre ne aveva una, rossa e bellissima. Io l’ho vista solo in foto. Fammi vedere la tua ti prego, mi piacciono tanto le moto”. Un bagliore, come se qualcuno lanciasse luce da uno specchietto mi fece perdere il contatto con quell’uomo dall’accento strano. L’attimo bastò perché si prolungasse il non vederlo più. Scomparso nel tutto dal quale proveniva. Scorsi qualcosa che, lentamente, galleggiava ancora in aria. Riconobbi subito una piuma dei suoi psichedelici pantaloni. Lo considerai il suo terzo regalo e lo raccolsi al volo, prima che toccasse terra.
Il bagliore di prima tornò ad accecarmi. Mi riparai con le mani e riuscii a vedere, percorrendo a ritroso il fascio di luce, la sagoma di qualcuno che sembrava divertirsi a infastidirmi. Non distinsi se uomo o donna. Dapprima sembrava una tendina da indiano d’America. Una tendina posata su uno sperone di roccia chiarissima, che prima non avevo notato. Poi, man mano che m’avvicinavo, vidi una coperta a scacchi ricoprire la figura che emetteva una risatina divertita. Dal fagotto giunse una voce: “Avvicinati.” Giunto sotto lo sperone di roccia tentavo di sottrarmi alla luce dello specchietto senza successo. L’individuo chiese: “Sei un folletto tu?” “No, non lo sono. Sono un bambino.”
“E allora non farmi perdere tempo, prendi questo e vattene. Io ho da fare, devo aspettare i folletti per parlarci” e così detto calò un cestino che conteneva una pagnotta di pane. Identico nelle fattezze e nel profumo a quello che sfornava la Signora Irene. Tutti in paese avevano eletto il suo pane come il migliore di tutti i pani sfornati. Tutte le altre massaie s’erano provate invano a riprodurne la bontà e tutte avevano smesso quando la Signora Irene si addormentò per sempre, portando con sé il segreto del pane da sogno.
Avvolsi in un sorriso la pagnotta, la presi sottobraccio e, mentre tentavo di allontanarmi per ricominciare la ricerca di Anna, l’uomo che aspettava i folletti mi rivolse altre parole: “Non mangiarlo finché qualcuno ti chiederà di condividerlo con lui.” Dissi subito di si. Non avevo certo fame, non avendo bisogni. Anzi, sentendo come unico bisogno quello di ritrovare Anna. Così, mi allontanai, mentre l’uomo-tendina bofonchiava qualcosa che non capii, riguardo un incontro. Dovevo continuare il mio viaggio. La ricerca non si poteva fermare.
Che profumo il pane della Signora Irene! Si mischiò con quello di mosto che proveniva dai fiori scarlatti sulla mia sinistra. Per un attimo ebbi la sensazione di vedere le mani di mio nonno che pigiavano l’uva. Il nonno, che pigiando l’uva nei recipienti messi sul rimorchio del trattore, sembrava un esperto nocchiero posto sulla barca che trasporta i sogni dei bambini. E forse proprio questo era mio nonno. Come molti nonni. Ebbi l’impulso di prendere un morso di pane. Pensai ad Anna di nuovo e sperai che uscisse subito, affinché me ne chiedesse un po’. Pensai ad Anna troppo forte. Pensai e il mio pensiero fu mutato in suono e amplificato tanto da produrre un grido. A bocca chiusa. Urlo che non emettevo ma subivo. Assordante, insopportabile. Se Anna non veniva fuori con quel richiamo voleva dire che davvero non c’era più.
M’assalì il primo istante di razionalità. Il dato di fatto della sparizione di Anna spezzò il mio volo. Cominciai a correre all’impazzata berciando di nuovo. Stavolta il vuoto che sentivo dentro. Inciampavo ovunque e iniziai a sentire un forte dolore alle gambe e alle braccia. Più il dolore aumentava più la mia corsa era scomposta e indebolita. Non vedevo più fiori ma avevo l’impressione di correre su un deserto di stelle doloranti. Allo stremo delle forze m’accorsi troppo tardi di un avvallamento nel terreno e la mia corsa andò a insaccarsi in quella buca. Cercai di compiere un balzo estremo ma caddi pesantemente a terra.
Intorno a me, ora, danzavano girasoli. Sotto di me un vuoto, poi un altro ancora. E un altro. Un sasso tondo e levigato, forse l’unico all’intorno, udì per primo il tonfo della mia testa sopra di lui. Non si fermò la danza dei girasoli. Non parlava più il silenzio. Non sentivo più energie. Un forte tuono mi scosse. Lo seguì la pioggia. “Libera tutti, libera tutti!” mi gridava Anna ma io non potevo muovermi. “Libera tutti, libera tutti!” ma io non …
“Non ne avevo dubbi, sei proprio un cretino!” Era Luca a urlare, non dovevo essergli simpatico neanche io. Proseguì: “Imbecille, eri ultimo, avevi la possibilità di liberarci tutti e non l'hai fatto. Neanche a nascondino sei capace di giocare. Tu sei proprio l’ultimo degli ultimi.”
Tenendo la mano di Anna si avvicinò al mio viso ma io non sentivo più ciò che continuava a gridare. I miei occhi (e tutto il resto) s’erano fermati su quelle due mani allacciate.
Mi girava la testa, avevo voglia di vomitare, ero bagnato come un pulcino. Ero nel mio rifugio alla Portella. Mio e di Anna. Che faceva Luca nel mio spazio e nel sogno di Anna? Che faceva la mano di Anna nella sua? Perché si avvicinava così tanto a me quel viso di ragazzino che non amavo e non mi amava?
Non doveva farlo, non doveva. La manata con la quale fece rotolare a terra gli oggetti che custodivo nel pugno sinistro mi fece trasalire. Guardai il plettro di gallo, la piuma d’ala di fantasia e la moneta d’argento. Nutrito dal profumo dei fiori che avevo nell’altra mano e da quello del pane della Signora Irene sottobraccio, ritrovai energia. Non doveva farlo, non doveva. M’alzai di scatto, in volo. Se non si fosse avvicinato così tanto per urlarmi in viso la sua sciocca rabbia Luca si sarebbe risparmiato l’involontaria testata che atterrò sul suo naso, piegandolo da un lato. Non mi avrebbe spaccato il labbro inferiore quel naso fracassato. Il terreno della Portella, poi, non si sarebbe imbevuto del sangue di due esseri che non avrebbero mai fatto alcun tipo di patto. Ne uscì di sangue dal suo naso spaccato! Anche per questo non doveva farlo Luca. Non avrebbe nemmeno sentito la mia risata coprire i suoi lamenti mentre m’allontanavo dalla Portella con due propositi ben precisi. Uno fu una promessa fatta a me stesso. Una promessa poi mantenuta. Da quel giorno, infatti, non giocai più a nascondino.
Giorno per giorno.
L’altra intenzione era più immediata. Tutti accorrevano alla Portella, bambini e adulti, richiamati dal pianto di Luca e dalle mie sonorità. Raccolti i doni ricevuti seguii la mia risata sanguinolenta che mi condusse verso il fontanile fuori dal paese. Si specchiò il mio ghigno nell’acqua in cui volevo pulirmi dal sangue. Un riflesso di luna s’aggiunse e prese le forme guizzanti d’un delfino blu. Dietro di me un uomo, avvolto in una coperta a scacchi, bussò alle spalle. “Ehi ragazzino, ho molta fame!”.
Respirò anche l’ombra delle nuvole.

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Anno 1, Numero 7
March 2005

 

 

 

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