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il viaggio con papà

natalia soloviova

Avevo dodici anni, quando all’inizio di settembre mio padre ebbe una settimana di ferie come premio per un lavoro urgente, svolto nei tre mesi precedenti: si doveva avviare un impianto importante, e lui tornava a casa solo per dormire. Non aveva idea di che cosa fare in quella settimana inaspettatamente libera, e la mamma gli suggerì di andare in campagna a trovare la sorella maggiore Katenna. La mamma non poteva lasciare il policlinico, non avendo un sostituto, e così partimmo io e lui.
Zia Katerina o Katia, come la chiamavamo noi, abitava nel paese natale di Pocrovo, nei pressi della città di Nerovsk, e dirigeva una grande fattoria. A diciotto anni si era sposata, e a ventotto era rimasta vedova. Il marito era stato gravemente ferito in guerra, e la zia aveva attraversato tutta la Russia per riportarlo a casa nonostante le enormi difficoltà. Lui morì poco dopo, e fu sepolto nel cimitero del paese.
Ogni giorno la zia andava al piccolo cimitero all’ombra di betulle e di salici piangenti per mettere fiori freschi sulla tomba del marito. Erano trascorsi circa venti anni dalla sua morte, aveva avuto parecchie proposte di matrimonio, ma non si era mai più risposata.
I primi giorni di settembre erano stati insolitamente caldi. Con mio padre scendemmo dall’autobus semivuoto alla fermata di Nerovsk e rimanemmo soli sulla piazza polverosa della cittadina. Dopo il fragore del vecchio motore dell’autobus il silenzio ci faceva uno strano effetto. Un leggero venticello mescolava i profumi degli ultimi fiori autunnali.
“Senti che aria buona! Viene voglia perfino di berla!” sorrise papà mettendosi sulle spalle lo zaino pieno di provviste. Bisognava attraversare tutta la cittadina, uscire dalla parte opposta e imboccare la strada di campagna per Pocrovo. Il furgone della fattoria, che avrebbe dovuto venirci a prendere alla fermata dell’autobus, era in ritardo. Tre volte al giorno portava le donne mungitrici di Pokrovo alla grande fattoria, situata a due chilometri da Nerovsk. Ci sedemmo sull’ erba ad aspettare il furgone che non arrivava.
“Andiamo a piedi: ci sono solo cinque chilometri; faremo prima che stare ad aspettare”, propose papà.
Per un attimo pensai: - La borsa mi peserà, sarò stanca, i piedi mi faranno male -, ma non volevo dire di no. Papà era cosi felice per questa gita, che non volevo infastidirlo con i miei capricci. Annuii, e cercai di camminare di pari passo con lui. Lasciammo la periferia con le casette in legno a un piano e i fiori sui davanzali ed entrammo nel centro dell’antica cittadina, con le due parti della strada principale collegate fra loro da una piazza. Nel secolo scorso la cittadina era stata un centro agricolo famoso per il commercio del grano. Infatti si vedevano ancora lunghi edifici grigi che erano i magazzini e portici che sovrastavano con le loro arcate i marciapiedi di pietrisco. Più oltre c’erano le case dei mercanti a due o tre piani, solide e robuste, costruite in mattoni.
Alcuni edifici erano in fase di ristrutturazione, ma altri erano completamente abbandonati. C’era poca gente per la strada, e a confronto con la capitale dove abitavamo noi, la cittadina sembrava spopolata e sonnolenta.
Ci incamminammo lungo la strada per Pokrovo.
Davanti a noi si stendevano vasti campi. Erano divisi in zone ben allineate. Alcune avevano il colore marrone scuro della terra appena arata, su altre erano rimasti residui del grano già raccolto, altre ancora erano in attesa della mietitura del grano saraceno. All’orizzonte si potevano distinguere gli alberi neri del bosco.
La vastità del panorama, il profumo di menta, il cinguettio degli uccelli nel cielo terso della campagna mi fecero dimenticare il peso della borsa e i piedi doloranti. Vedevo il volto raggiante di papà, e camminavo come se avessi avuto le ali. Mi sentivo leggera e felice vicino a lui, grata per questa nostra passeggiata lungo una strada di campagna in terra battuta.
Già si intravedevano le case di Pokrovo e le cupole dorate della chiesa, quando ci raggiunse il vecchio furgone con le mungitrici a bordo. L’autista chiese se volevamo salire e si scusò per il ritardo. Due mucche stavano partorendo, e lui era dovuto andare a prelevare il veterinario. Salimmo a bordo. Alcune assi di legno messe di traverso fungevano da sedili. Le donne si strinsero per farci posto: erano abbronzate, ridevano e odoravano di latte. Ci chiesero dove eravamo diretti.
“Da Katia Denisov” rispose papà. “Sono suo cognato”.
“La conosciamo bene. Ha sofferto molto, lo sappiamo tutte. Ha cominciato a lavorare come mungitrice, ed è diventata la direttrice della fattoria grazie al suo impegno. E poi è molto bella, anche adesso che non è più tanto giovane.”
“Sei sua nipote?" - mi chiese una. “Tua zia ormai è famosa, non per la sua posizione nella fattoria più grande della regione”- disse con un sorriso la donna.
“Fra un po’ la vedrete nei musei e nelle mostre di quadri.” Le altre risero.
Papà aveva lo sguardo interrogativo.
“Due pittori hanno lavorato qui tutta l’estate, e la volevano come modella”, spiegò un’ altra.
“Un paesaggio stupendo” - ripetevano, e pensavano di ritrarre anche il volto di Katerrna Petrovna. Ma lei non voleva. Il presidente del kolchoz personalmente dovette chiederle di posare per quei pittori. Il più anziano forse si innamorò di lei, ma lei, come al solito, niente. Oramai la conoscono tutti come "odnoliubka", cioè una che può amare solamente una volta nella vita.

Vidi la zia che ci aspettava davanti alla sua casa di legno, una “izba” come le chiamano nella campagna russa. Il furgone si fermò di fronte al cancelletto. DalI’izba usci Tania, la figlia della zia. Veniva spesso a Mosca da noi, studiava biologia, e viveva nel convitto universitario.
“Finalmente siete arrivati, cominciavo a preoccuparmi”, disse la zia, poi salutò le donne e l’autista.
Le mungitrici scesero dal furgone, che partì per tornare di nuovo verso sera e riportare le donne alla fattoria, per la mungitura serale.
Mi era sempre piaciuta la casa di zia Katia: davanti all’entrata crescevano i gladioli e piante di dalie in fiore; attraverso l’atrio buio si entrava nella cucina con la grande stufa a legna, il vecchio massiccio tavolo rettangolare disposto nell’angolo contro il muro con le panche ai due lati , tre grossi secchi di acqua fresca del pozzo e tante pentole e tegami messi un po’ dappertutto.
Una porta a sinistra si apriva sulla veranda che si affacciava sul giardino. Da un’altra porta della cucina si entrava in una saletta con un divano, un tavolo rotondo e una libreria. C’era anche una bellissima stufa russa ricoperta da piastrelle bianche e lucenti, e ai lati di quella c’erano due aperture coperte da pesanti tende che immettevano in due minuscole camere da letto, una per la zia, l’altra per Tania.
In ogni camera troneggiava un letto alto e bianco, che mi faceva venire in mente una montagna sotto la neve. Aveva due materassi in piumino d’oca, quattro o cinque cuscini di diverse misure, che messi uno sopra l’altro formavano una specie di piramide.
“E’ la nostra vecchia tradizione russa”, diceva la zia sorridendo, quando stendeva il candido copriletto bordato di pizzo e sistemava la piramide di cuscini.
“L’izba - qualcosa di vivo. I tronchi degli alberi le trasmettono la vita. Gli alberi non muoiono mai, e l’energia accumulata nel tempo passa nell’ambiente. Per questo si respira così bene in un’ izba”, aggiungeva.
Dopo il viaggio e la camminata eravamo affamati. La zia ci preparò una minestra di cavoli e barbabietole, il “borsh”. Dopo pranzo papà andò a riposare nel fienile, e io sul divano della veranda. Mi svegliai al suono dei campanacci della mandria che tornava a casa. Papà era già sveglio e stava seduto fuori su una panchina. Attraverso lo steccato della casa vedevamo le grosse mucche con le mammelle gonfie di latte proseguire verso le stalle, seguite dalle pecore e dalle capre dietro le quali trotterellavano i più piccoli. Il mandriano con una lunga frusta in mano fischiava ogni tanto per richiamare i due grossi cani che dovevano mantenere la mandria nei limiti della strada - un ragazzo aiutante aveva in braccio due agnellini. Il sole tramontava dietro il bosco lontano, l’aria era ancora tiepida, ma si cominciava a sentire un fresco venticello serale. Eravamo seduti sulla panchina di legno e papà mi raccontava della sua infanzia. Era nato nella famiglia di un ricco commerciante in un piccolo sobborgo di Mosca. La maggior parte della sua infanzia l’aveva trascorsa all’esterno della casa: nei boschi, nei prati e sul fiume. Aveva un amore innato per la natura, e d’estate passava intere giornate a pescare, a raccogliere funghi o a catturare gli uccelli per poi rilasciarli nel cielo.
Cadeva la sera, e tutto intorno a me era cosi bello che avrei voluto che durasse sempre.
Il giorno dopo papà mi svegliò alle cinque del mattino per andare a pesca. Il paese era già sveglio. La mandria si raggruppava per andare al pascolo. Le donne con frustini in mano accompagnavano le mucche fuori dalle stalle, seguite da pecore e capre. Arrivò Semion con il suo furgone, e le mungitrici partirono per la fattoria.
Fuori dall’ isba era umido, e sopra il fiume Nevca c’erano banchi di una leggera nebbia che sarebbe sparita completamente nella tarda mattinata. Ero insonnolita: non mi piaceva alzarmi cosi presto, ma c’erano troppe cose interessanti intorno a me, e mio padre me le faceva notare. Le ultime tracce del buio notturno lasciavano il posto ai primi chiarori. Il sole era ancora sotto l’orizzonte, ma già si percepiva a oriente il suo tiepido chiarore.
lo e papà indossammo vecchi giubbotti imbottiti, che erano appesi nel fienile, e stivali di gomma, senza i quali la rugiada ci avrebbe bagnato fino alle cosce.
Papà mi insegnò tante cose sulla pesca con l’amo, mi spiegò dei piccoli segreti sul comportamento dei pesci, sulla loro furbizia, e sugli accorgimenti che doveva prendere il pescatore.
Nascosti all’ombra dei salici piangenti, parlavamo a gesti per non segnalare la nostra presenza. Se prendevamo dei pesci grossi li mettevamo da parte per Tania; lei li avrebbe fritti nel burro, e un gustoso pranzo era assicurato. I pesci piccoli li ributtavamo nel fiume “perché dovevano crescere", e perché il gatto della zia era talmente sazio che ormai non li guardava più.
Dopo la pesca mattutina tornammo a casa. Facemmo colazione, papà andò a riposare nel fienile ed io sulla veranda. Sprofondai nel sonno come un sasso buttato nell’acqua, e mi svegliai solo verso mezzogiorno. Papà mi aspettava davanti all’izba per andare a fare il bagno nella Nevca. Corremmo giù dalla riva scoscesa e saltammo nell’acqua fresca. Sapevo nuotare da quando avevo sette anni, papà me l’aveva insegnato nel nostro laghetto a Mosca. Ma la Nevca era tutta un’altra cosa. La limpidezza e lo scorrere dell’acqua accendevano la mia fantasia.

La Nevca formava due piccoli stagni dove crescevano grosse ninfee bianche e altre più piccole, gialle; mi ricordavano le fiabe della mia infanzia. Ne feci un piccolo mazzo e chiesi alla zia un vaso per tenere le ninfee sulla veranda dove dormivo. L’otto settembre era la festa patronale del paese dedicata alla Vergine. La chiesa di Pocrovo era stata ricostruita e aperta da poco; era l’unica funzionante in tutta la zona. Situata sulla collina, era sotto la protezione dello Stato come monumento antico; le sue cupole dorate si vedevano da lontano.
Al mattino della festa le ragazze del paese preparavano delle ghirlande con i fiori raccolti nei prati, le buttavano nelle acque della Nevca e correvano lungo la riva per vedere fin dove sarebbero arrivate. Era un’antica usanza quella di presentare i propri desideri in forma di fiori. Anch’io avevo fatto la mia ghirlanda di ninfee: la buttai nell’acqua ed espressi un desiderio: “che mio padre e mia madre non morissero mai..., o che almeno la loro vita fosse lunga come la Nevca”. Seguii la ghirlanda il più lontano possibile, correndo finche sparì dalla mia vista.
Le campane della chiesa suonarono tutta la mattina; durante le feste la gente poteva salire sul campanile e ci andammo pure io e mio padre.
Eravamo in pochi. Da lassù si vedeva tutto il paese: le costruzioni di legno sembravano case di bambole. La Nevca somigliava al nastro azzurro con il quale mia madre mi faceva il fiocco in fondo alla treccia; i campi apparivano divisi con un righello, delimitati dal profilo frastagliato del bosco. C’era silenzio lassù, come al cimitero, dove eravamo andati con la zia a trovare suo marito. Solamente il vento muoveva leggermente i capelli di mio padre, che mi sembrò distratto e assorto nei suoi pensieri. Vidi la nostalgia nel suo sguardo, rivolto all’orizzonte, come se gli stesse domandando qualcosa. Alle dieci iniziò la messa. La piccola chiesa non poteva contenere tutta la gente che era arrivata dai paesi vicini, così furono aperte le finestre e le porte per coloro che erano rimasti fuori nel cortile.
Io, papà e zia Katia eravamo in piedi sulla sinistra dell’altare. L’aria che entrava dalle finestre aperte faceva tremolare le fiammelle delle candele. Zia Katia cantava le preghiere insieme col coro. La messa era lunga; non capivo le parole, ma la musica mi piaceva. Il pope era giovane, aveva una voce profonda e celebrava la messa con entusiasmo: le feste come questa, con tanta gente, erano rare.
Finita la messa, il pope parlò del suo predecessore, il prete Vassilj Denisov, che era mio nonno, e mi sentii molto orgogliosa. Invitò i fedeli a pregare la Vergine. Durante l’antico canto corale tutti i presenti si mettevano in ginocchio sulle dure mattonelle della chiesa, e vidi molte donne che piangevano.
Gli occhi della zia si arrossarono, e alcune lacrime le scivolarono lungo le guance. Papà stava vicino a me, e anche i suoi occhi erano lucidi; la sua mano ogni tanto accarezzava i miei capelli.
Finita la messa, uscimmo dalla chiesa, e molta gente venne a stringere la mano alla zia e al papà. Raccontavano dei loro familiari che erano morti nei campi di concentramento oppure erano stati fucilati negli anni dello stalinismo. Pensai che il dolore, come la gioia, accomuna le persone.
“Il babbo sarebbe stato felice di vedere tutta questa gente”, disse zia Katia. "Avevo dieci anni, quando un giorno lo portarono via, e non lo vedemmo più”. Il nonno era stato esiliato in Siberia, dove morì poco prima della sua riabilitazione. Il giorno dopo io e papà ci mettemmo in viaggio per tornare a Mosca, rifacendo in senso inverso la stessa strada di sette giorni prima. Guardavo papà e non lo riconoscevo. Era sempre bello e raggiante, ma ora vedevo le piccole rughe attorno i suoi occhi azzurri, sempre sorridenti, e quelle amare e più profonde attorno alla bocca. Lo ricordai sul campanile a guardare il cielo all’orizzonte, triste e indifeso davanti all’immensità del panorama. Quali cieli lontani aveva visto lui quel giorno? Non lo saprò mai. Anche le lacrime, notate di sfuggita durante la messa, mi avevano fatto cogliere quello che prima non riuscivo a capire di mio padre.
Mi sentivo cambiata. Mi sembrava che fosse passata non una settimana, ma almeno un anno dal giorno in cui eravamo arrivati. Lo stesso inverno andai con i miei genitori a visitare la mostra di quadri dove era stato esposto anche il ritratto della zia Katia.
La mostra era stata allestita in una grande sala nel centro di Mosca e si chiamava “Nuovi pittori del realismo socialista”. Comprammo tre biglietti e salimmo lungo la sontuosa scala di marmo. Fra tanti quadri trovammo quello intitolato “La direttrice” che ritraeva la zia. Mi ricordai di lei, del nonno, che non avevo mai visto, e sentii che qualcosa di nuovo stava crescendo dentro di me. Quando uscimmo, mi misi fra mio padre e mia madre, li presi entrambi per mano e pensai che da quel momento toccava a me badare a loro.
Vidi che mio padre aveva un bottone del capotto aperto e glielo allacciai. Notai che mia madre cercava di proteggere la gola dal vento, e allora tolsi la mia sciarpa e gliela misi attorno al collo.
“Io ho il dolcevita che mi protegge” - le dissi. I miei genitori mi guardarono sorpresi: non avevano capito quel mio improvviso tono protettivo che mi proiettava nello stato di adulta. Intanto tutti e tre camminavamo lungo una strada invernale di Mosca gremita di gente.

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Anno 1, Numero 7
March 2005

 

 

 

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