El Ghibli - rivista online di letteratura della migrazione

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rimpatrio

julio monteiro martins

Povero me, non sono mai partito.
Eccomi lì, sepolto
sotto sommesse parole.


(Carlos Drummond de Andrade, L'illusione del migrante)



- Che paese è questo? - si domandava Jamil, amareggiato da quello che vedeva intorno: una folla compatta di perfetti sconosciuti, a spingersi lungo quella che in passato era stata la bucolica strada della sua infanzia.
Invece della scuola elementare, un palazzo di venti piani con videocamera al cancello. Invece del verduraio con i baffi bianchi, ragazze mezze nude a manipolare pompe di benzina. Invece della pizzeria dove aveva ricevuto il primo sì da una ragazza, una palestra attrezzatissima piena di tappeti elettrici come una stazione orbitale. Insomma, niente al posto giusto, da nessuna parte, quando uno se l'andava a cercare, tutto scomparso. Allora doveva scomparire anche lui? In verità, l'aveva già fatto quando era partito.
Prima di rientrare in albergo si fermò in una libreria mai vista prima, simile al reparto di un grande magazzino, e scelse otto titoli che potevano intrattenerlo i giorni seguenti. Quella mattina aveva cercato in tutti i modi di anticipare il volo di ritorno, ma i funzionari della compagnia aerea erano stati inflessibili: doveva per forza aspettare la data fissata, sei giorni dopo. E che non perdesse quel volo, perché sarebbe stato impossibile trovargli un altro posto nei mesi successivi, nemmeno in business class.
Jamil rientrò in albergo con i suoi libri, sentendosi sollevato di lasciarsi alle spalle quei marciapiedi ostili, dove si raggomitolavano gli occupanti di quella che un giorno era stata la sua città, la città che mentre l'aveva amata non sapeva di amarla, e che ora non amava più. Una città che un tempo aveva dominato al punto da sapere esattamente, imboccando una qualsiasi strada, chi avrebbe incontrato piegato alla finestra a chiacchierare, al balcone, o appoggiato all'uscio di qualche negozietto.
Da dietro la finestra della sua camera refrigerata, protetto e immunizzato dall'impersonalità dello stile cosmopolita, ora Jamil poteva vedere la foce del fiume e seguire con lo sguardo i battelli, i rimorchiatori e i pescherecci, tutto come in un film proiettato senza sonoro. Anche la superficie dell'acqua di quei tempi era sovraffollata, le barche erano almeno tre volte più di prima, e più di tutto lo colpì un ferry-boat bianco che si spostava a gran velocità ritto sulle zampe da cavalletta. Sullo sfondo, un nuovo ponte pensile, color arancio, sovrastava il paesaggio e inquadrava il suo vecchio fiume.
- Che paese è questo? - si chiese nuovamente. E senza trovare risposta, si sdraiò sul letto, accese la lampada e aprì il primo libro del suo pacco, La rapidità dello spirito, di Elias Canetti. Voleva allontanarsi rapidamente dal corpo sfigurato e imbalsamato di quella città. Aveva paura, in fondo, di trovare il suo stesso corpo imbalsamato e sfigurato riflesso in qualche vetrina di quelle strade inquietanti.

Nei primi due giorni di reclusione volontaria, Jamil ordinò i pasti in camera, ma la sua fame cresceva: il ristorante dell'albergo, insistendo in una sorta di nouvelle cuisine, offriva sempre porzioni piccolissime al centro di enormi piatti di porcellana bianca, costringendo così i poveri clienti a ordinare tutto il menu in una volta se volevano un pasto decente. Perciò, prima che il suo conto gonfiasse all'inverosimile, e nostalgico di una bella bistecca al sangue con le patatine, Jamil si rimise le scarpe ed uscì in strada in cerca di un vero ristorante.

Camminò lungo il fiume fino a dove ricordava che in passato ve ne era uno grande, con terrazza. Lì una volta aveva conquistato una ragazza svizzera in vacanza. Era stato così facile risvegliare dei sentimenti romantici su quella terrazza illuminata dal chiaro di luna... Ma ora invece del ristorante si ergeva un altro di quei palazzi che sembravano pietre tombali per giganti, sorvegliati come penitenziari.
Jamil continuò a camminare lungo il fiume, un isolato dopo l'altro, incrociando per strada una folla di venditori ambulanti, addetti alle pulizie, ragazzi della pizza, poliziotti e idraulici, mentre i residenti entravano e uscivano dai palazzi solo dentro le loro macchine refrigerate dai vetri oscurati, senza farsi mai vedere.

A poco a poco le luci si affievolirono e si diradarono, le poche persone visibili camminavano ora più lentamente, o erano ferme, appoggiate ad un palo della luce, a fumare. I palazzi erano più bassi, con le facciate scrostate, i cancelli spesso aperti, oppure non c'erano nemmeno cancelli. Ci si avvicinava alla zona portuale, e più avanti si potevano scorgere capannoni industriali, depositi di merci, un cimitero di macchine e trattori. Proprio in quella zona di confine tra due mondi che, nonostante contigui, facevano finta di ignorarsi a vicenda, Jamil trovò un ristorantino aperto. Non aveva un nome, almeno non visibile dall'esterno. Sulla porta una scritta al neon viola recitava semplicemente "ristorante". Ma da dentro veniva un profumo di arrosto e cipolla fritta così seducente che subito si impadronì dei movimenti delle sue gambe.
Jamil cercò un tavolino d'angolo, vicino alla finestra, e guardò la copertina del menu, con scritto soltanto "menu". Poi chiamò il cameriere, un ragazzo magro con un grembiule a scacchi, forse il figlio del proprietario, chiese una birra e una bella bistecca con le patatine, e si mise ad aspettarla guardando dalla finestra: all'angolo della strada i poliziotti, con in mano delle torce elettriche, fermavano qualche macchina in cerca di droga, armi o documenti falsi. Uno spettacolo monotono, un rito del potere a riconfermare quella zona come di frontiera tra connazionali che non dovevano mischiarsi né avventurarsi dall'altra parte.

Poi i poliziotti si ritirarono e Jamil, dopo la mousse al cioccolato preconfezionata, continuava a guardare dalla finestra le strade deserte, provando a riconoscere almeno così quella che un giorno era stata la sua terra. Ma era inutile. Una nuova città, con nuove luci, era cresciuta sovrapponendosi all'altra, come certi funghi che ricoprono interamente il tronco marcio di un albero abbattuto.
Allora gli tornò alla mente un'antica leggenda africana, letta da qualche parte: se uno se ne va e compie un lungo tragitto, può accadere che incontri al mercato di una lontana città individui che a casa loro sono morti e lì si sono ritirati per restare sconosciuti. Così, se per caso vede un conoscente del suo paese d'origine, si tira da parte in gran fretta cercando in ogni modo di non farsi rivedere.
A servirgli il cognac che lui aveva chiesto, non era stato il ragazzo del grembiule, ma una giovane seminuda con pelle olivastra abbronzata e ricci biondi mèchati. Gli aveva portato due bicchierini di cognac, uno per lui e uno per lei, e si era seduta al suo tavolo senza chiedere il permesso. Lui la lasciò fare, guardandola in silenzio, per niente sorpreso, quasi come se l'aspettasse. Poi Jamil si avvicinò il bicchiere al naso, lo girò delicatamente e annusò.
- Perché annusi? - chiese la ragazza.
- Perché non hai portato la bottiglia? - ribatté lui.
È buono, è francese. Puoi fidarti di me. Lo bevo anch'io, vedi? Mi piace.
Sì, lo vedo.
- Mi chiamo Chantal. Ciao.
- Questo chiaramente non è il tuo vero nome.
- Infatti. L'ho adottato qualche tempo fa. Ti piace?
- No.
- Pazienza.
- Che vuoi da me, Chantal?
- Cominciamo da ciò che non voglio da te. Non sono una prostituta, né una squillo, né una zoccolona, niente del genere, ok? Sono la ex-nuora del proprietario di questo ristorante e a volte vengo a dargli una mano in cucina. Tutto qua.
- Non mi sembri una che sa cucinare.
- Era buona la bistecca che hai appena mangiato?
- Ottima.
- L'ho preparata io. Ho messo pepe nero, sale, aglio macinato e un pizzico di zucchero sopra, per darle un tocco speciale. È il mio segreto. Ora non ce l'ho più.
- Brava.
- Poi, ti ho visto tutto solo a guardare fuori e ho deciso di farti un po' di compagnia. Ho fatto male?
- No, affatto.
- Benissimo. Ora ti lascio al tuo cognac. Il mio lo berrò in cucina, con i miei amici.
- Puoi berlo qui con me, se ti va.
- No, grazie. Non mi va più.
- Come vuoi.
La ragazza si alzò dal tavolo e dopo qualche passo verso la cucina si girò con noncuranza e sorridendo gli disse:
- Il cognac lo offro io, comunque.
Jamil annuì con la testa, divertito. Poi tornò a guardare i riflessi sull'acqua del fiume, oltre le gru e i capannoni. Quello con Chantal era stato il primo incontro umano e personale nella sua città, e proprio con un essere così inverosimile, con il nome di una cantante country. Lei non era ancora nata quando lui aveva dovuto espatriare. Era uno di quei funghi proliferati in sua assenza. Una straniera per lui, e ancora più straniero lui per lei e per tutti gli altri. Tutto ciò che lui aveva visto in vita sua non si era mai presentato al cospetto di lei, e loro due non erano mai stati nello stesso luogo allo stesso tempo. Eppure li avevano partoriti le stesse strade, figli di quella città la cui storia recente e quasi comica sembrava promettere che tutto stava ancora per accadere, che loro due sarebbero stati inconsapevolmente parte della sua preistoria, i primi abitanti del nucleo di una futura metropoli che fra poco li avrebbe interamente dimenticati. Per quanto riguardava lui, la dimenticanza si era già consumata con un anticipo di qualche decennio.

Era ancora immerso in queste disincantate riflessioni quando la ragazza tornò con il conto. Ora vestiva una maglietta verde più discreta, e sembrava agitata. Lui non fece in tempo a posare sul tavolo una banconota che lei, prendendolo per il braccio, lo condusse verso l'uscita e la strada.
- Mi puoi accompagnare un attimino in un posto, per favore? Ho bisogno che qualcuno venga insieme a me. Ti sto chiedendo troppo? Scusami, allora. Posso darti del tu, vero? Io do del tu a tutti, giovani e vecchi, ricchi e poveri, non me ne frega niente, è il mio modo di fare, e se si incazzano peggio per loro.
E Jamil si lasciò dolcemente trascinare da Chantal verso l'ignoto, come se fosse stata un'ingenuità, una sciocchezza, pensare di muoversi da solo in quello spazio, in quell'imponderabile labirinto.

I giorni successivi all'invito, forse dovrei dire alla "convocazione", di Chantal sono stati frenetici, assurdi, sconvolgenti. Giorni in cui mi trovavo in una giostra accelerata: le immagini, i suoni, le sensazioni giravano attorno a me e il mio sguardo non catturava niente oltre a dei flash, a dei bagliori. Il mio cervello era sempre più immerso in una sorta di nebbia e la volontà fratturata mi lasciava in balìa dei desideri altrui. Tutto quello che suppongo sia accaduto allora è rimasto nella mia memoria con una nitidezza non superiore a quella della lettura affrettata di un racconto in mezzo ad una massa umana in fuga.

Quel poco di cui mi ricordo, cercherò di descriverlo in queste scene:

Prima scena:
Eravamo, io e Chantal, su un fuoristrada di non so chi. A volte guidava lei, a volte io. Abbiamo girato dentro la città per ore, ad alta velocità, forse per tutta una giornata, compiendo sorpassi rischiosi, passando i semafori col rosso. A volte mi sembra che cercavamo qualcuno, a volte che eravamo inseguiti e cercavamo di scappare in quel modo.
Viali illuminati del centro, con insegne al neon e grandi schermi luminosi dal volto di donne seducenti, quartieri di lusso, popolari, con i loro sciami di bambini, e una zona periferica, brutta e puzzolente, con fogne a cielo aperto e famiglie a litigarsi la spazzatura con gli avvoltoi e i topi. Ci siamo fermati in quel posto, stranamente proprio lì ci sentivamo più tranquilli. Eravamo esausti, con i muscoli indolenziti da quell'insana corsa.
Abbiamo fatto sesso per la prima volta in quelle condizioni, sul sedile della macchina. Per qualche ragione lo scenario ci eccitava. Quando abbiamo finito e io ho alzato la testa, una folla di veri disperati circondava l'auto. Con movimenti molto misurati, già sudando freddo dalla paura, mi sono rimesso in posizione al volante, ho chiuso i finestrini, ho girato la chiave e sono avanzato lentamente a fari spenti.
Sentivo le botte, le urla, e infine il rumore di un sasso che ha rotto il parabrezza posteriore. Ma a quel punto eravamo nuovamente per strada, e niente poteva più fermarci.

Seconda scena:
Una donna enorme, bionda, con la pelle molto bianca, i capelli lunghi, le labbra dipinte di un rosso vivo e le unghie altrettanto rosse, si è spogliata ed è rimasta nuda, con solo la collana di perle nere addosso, al centro della pista da ballo di una sorta di club privé per stranieri e ricconi ubriachi o drogati o entrambe le cose. Si chiamava Lili, era un'intima amica di Chantal e diventava per lei un "guru" infallibile dopo una certa ora della notte.
Lili mi ha visto al bar, insieme a Chantal, e ha detto: "Ehi!" e, tutta nuda, mi ha preso per la mano e mi ha fatto ballare un ritmo compassato, un mambo o qualcosa di africano molto allegro. Dovevo girare attorno a lei, mano nella mano, come in un minuetto. Lei rideva, ridevano tutti in quella filiale dell'inferno, e anch'io ridevo, credo.
Poi ne è venuta un'altra, una nera nuda, obesa, seni giganteschi, la pancia che le cadeva a strati su un ipotetico pube, i capelli in lunghe treccine. Era molto eccitata, ballavamo tutti e tre insieme, io in mezzo, senza via d'uscita, le luci gialle e azzurre e rosse giravano sul soffitto e sul pavimento mentre una luce bianca molto forte ci lampeggiava addosso.
Chantal rideva, batteva le mani, ballava da sola, ballavano tutti, e le due donne si abbracciavano, io in mezzo, e sono scomparso interamente tra quei due corpi, mi sentivo annegare, protetto, mi sentivo quasi bene lì, respiravo profondamente, quando ci riuscivo, e aspiravo il forte odore di quelle due donne, aceto e talco profumato, e la musica non si fermava, non si fermava nessuno, non si vedeva nessuno, e tutto girava, il pavimento sembrava dondolare, anch'io giravo, e ridevo, e la donna bionda mi guardava dentro gli occhi da vicino, la bocca enorme spalancata, gli occhi azzurri, sgranati, cristallini, e poi un buco nero totale. Totale.

Terza scena:
In un grande appartamento decorato con mobili e quadri cari e di cattivo gusto, un uomo grasso e pelato, senza la camicia, con una grossa catena d'oro sopra il petto peloso, ci mostrava un video nel quale una macchina di grossa cilindrata arriva in un terreno deserto. È l'ora del crepuscolo. Dalla macchina scende lui con altri tre uomini.
Apre il bagagliaio e gli uomini ne tirano fuori un giovane alto e magro, nudo, imbavagliato e avvolto nel filo spinato dalla testa ai piedi.
La camera sposta il suo fuoco verso un chiarore rosso in fondo. È un falò, acceso già da un po': alcuni pezzi di legno bruciano ancora sopra un mucchio di brace e cenere. Poi compaiono sullo schermo due uomini con dei grossi guanti che trascinano l'uomo nudo e posano il suo corpo sulla brace. L'uomo si contorce come un verme spaccato, ma poi si ferma, nonostante le bruciature, perché il filo spinato lo fa sanguinare da tutte le parti. Gli altri uomini, accovacciati intorno al falò, accendono delle sigarette.
Mi sono alzato dal divano scandalizzato e mi sono incamminato verso la porta d'uscita. Volevo chiamare la polizia. Chantal è corsa e si è fermata di fronte a me, bloccandomi la strada verso l'ascensore. "Sono io la polizia", diceva l'uomo già alzato, mentre rideva : "Lascialo andare... Dài, lascialo andare, figliola..."

Quarta scena:
Siamo scesi dal taxi davanti a una chiesa dall'architettura moderna e monumentale, che sembrava un gigantesco tulipano senza stelo, ogni petalo alto una quarantina di metri.
Non si vedevano campane né crocifissi sulla cima, e poteva benissimo trattarsi di un teatro o dell'agenzia centrale di una banca importante, non fosse altro che già da fuori si scorgevano le sedie in fila, i corridoi, le immagini di santi un po' cubisti, le vetrate astratte in toni scuri, con la predominanza del viola, e in fondo, sull'altare, di fronte al giovane sacerdote in jeans che celebrava messa, non una scultura lignea, ma un Cristo vivo, con le braccia aperte, legato alla croce con delle corde: era un ragazzino mulatto, di circa tredici anni. Indossava solo dei calzoncini luridi fino alle ginocchia e scarpe da tennis. La testa rasata, con chiazze più chiare sparse sul cuoio capelluto, pendeva di lato, e ci guardava con dolcezza e un profondo dolore, proprio come un Cristo vero.
Chantal mi ha spiegato che il ragazzo era il migliore amico di un certo suo compagno ammazzato da degli sconosciuti due notti prima, vicino al ristorante del suocero. Era solito fermarsi per ore sull'uscio in attesa di avanzi, a volte di interi vassoi praticamente intatti, che divideva con gli altri. E quando entravano o uscivano clienti, lui chiedeva loro degli spiccioli in un modo sempre garbato, senza minacce di sorta. Spesso dormiva proprio lì, sul marciapiede, avvolto in giornali o nella carta degli scatoloni, quando soffiava il vento dal fiume.
La mattina del giorno prima l'avevano trovato impiccato al ramo di un albero del playground. Gli avevano rubato le scarpe e gli avevano infilato la maglietta della squadra di calcio locale, appena sconfitta da un'altra in trasferta. Attorno al collo gli avevano appeso un cartello che diceva: La prossima volta prometto di fare il tifo per la squadra giusta. E poi qualcuno con un pennello aveva aggiunto: Via Mug. Mug era il soprannome dell'allenatore della squadra locale caduto in disgrazia.
Abbiamo assistito in piedi alla messa, appoggiati al muro in fondo al tulipano. Sopra le nostre teste pendeva una grossa colomba dello Spirito Santo costruita interamente con piastre, viti e bulloni dei cantieri navali.
Alla fine il prete, invece della solita ostia di farina, ha consacrato e distributo noccioline tostate, le stesse che i ragazzi vendono in strada per sopravvivere. Prima che il rito finisse, siamo scappati discretamente, passando in mezzo alla folla di bambini stracciati e mocciosi accalcati all'ingresso del tulipano, reticenti ad entrare in quel castello ombroso, in quella grotta che pareva abitata da fantasmi.

Quinta scena:
Nuovamente su quel fuoristrada, abbiamo proseguito lungo il fiume, dopo aver passato i vecchi cantieri abbandonati, con navi mezzo smontate, arrugginite, qualcuna affondata quasi fino al livello del ponte, e siamo arrivati al cimitero. Era una città dentro la città, sterminato, deserto, silenzioso. Si sentiva solo il rumore del traffico lontano e la puzza di iodio e olio bruciato che una brezza tiepida portava dal molo fino a noi.
Era difficile non perdersi nei meandri delle viuzze pavimentate tra le tombe con sbiadite fotografie dentro cornici ovali. Il nostro faro era la lampadina rossa sull'alto della ciminiera di una fabbrica vicina. Ma dopo un quarto d'ora che camminavamo, era diventata una fioca luce, lontana, e non si poteva dire dove fosse posizionata. Chantal però sembrava conoscere bene la strada. Si orientava a partire dei mausolei più alti, quelli coi tristi angeli anneriti sulla cima, a deporre una corona d'alloro sulla testa di marmo di qualcuno ormai annientato dalla vera maratona.
La ragazza si muoveva velocemente. Il chiaro di luna sulla tombe bianche creava un'alba pallida e tutto era perfettamente visibile. Un bambino nudo era seduto sul bordo di una lastra di granito, la testa china, le manine sulle cosce. Due passi più in là e gli si vedevano le ali. Sopra di lui, nello stesso bronzo verdognolo, c'era scritto: È tutto finito, amore mio, e ora puoi riposare come tanto hai desiderato.
Ero stanco di marciare impudentemente tra i morti, e cominciava a sembrarmi tutto una provocazione. Non è molto intelligente fare arrabbiare i defunti, umiliare la loro obbligata orizzontalità. "Siamo quasi arrivati", disse Chantal indicando un chiarore opalino in fondo a un viale alberato.
Ci fermavamo per qualche secondo a riprendere fiato prima di proseguire. Io mi sono seduto sui gradini di un mausoleo in stile gotico, con finestrelle dalle inferriate ogivali. Mi asciugavo il sudore della faccia, del collo, mentre Chantal, con gli occhi chiusi, si concentrava prima dell'incontro. A quel punto non ansimavo più - Dio, non ho più l'età per queste avventure - e così potevo arrivare all'arena del camposanto senza sembrare io stesso un maratoneta sconfitto.
E chi c'era lì ad aspettarci? Un vecchietto nero con i capelli tutti bianchi, seduto sul selciato ai piedi di un tumulo, che fumava la sua piccola pipa. Attorno alcune persone immobili portavano in mano lampade a cherosene e candele.
Chantal mi ha chiesto di aspettarla fuori dal circolo, seduto su un sarcofago qualsiasi, mentre lei si avvicinava con grande riverenza al vecchio, consegnandogli una scatolina, uno scrigno d'argento, che gli poggiava tra le mani, per poi avvolgergliele con le sue. E gli ha parlato con voce molto bassa, la testa chinata, per qualche minuto. Alla fine lui le ha risposto qualcosa che non ha capito, e lei gli ha chiesto di ripetere, avvicinando la testa alla sua bocca. Lui si è levato la pipa e in quel momento lei ha ascoltato qualcosa che l'ha fatta rabbrividire e sussultare. Alzatasi di scatto, si è messa a camminare da un lato all'altro di fronte a lui, che fumava in silenzio. È tornata per dirgli un'ultima cosa, poi è venuta da me, lo sguardo sconvolto.
- Cosa c'è? Che ti ha detto?
- Niente.
- Come, niente?
- Non posso dirtelo, non so se potrei dirlo nemmeno a me stessa.
- Ma cosa dici, Chantal?
- Esther.
- Cosa?
- Mi chiamo Esther. Ora lo sai. Facciamo una cosa, se non ti dispiace? Usciamo di qua, con calma, senza fretta, e soprattutto senza domande, per favore.
E non abbiamo più visto nessuno né detto uno sola parola tra di noi, anche se quella notte bianca era ancora molto lontana dalla sua fine.

Sesta scena:
Eravamo ospiti nella villa circondata da quel terreno dove si bruciavano uomini vivi. Non mi ricordo come o perché eravamo finiti lì, nella fattoria degli assassini, dopo la notte del cimitero. Chantal, o Esther, non parlava quasi mai, travolta dai suoi pensieri, e io ero nel panico, perché il giorno dopo partiva l'aereo che mi avrebbe riportato finalmente a tutto quello che ero, o credevo di essere, e mi balenava in testa l'ammonimento della funzionaria della compagnia, che se per caso lo perdevo non ce n'era un altro, non avrei più potuto tornare a casa. Quell'aereo mi sembrava ora l'ultima scialuppa di salvataggio, mentre ero ancora lì, cretino che sono, chiuso in quello squallore con quella gente sordida, e non capivo perché non trovavo le forze per andarmene subito, per fare una corsa all'albergo, e da lì all'aeroporto. Avrei dovuto dormire sulla panchina dell'aeroporto per non rischiare di perdere quella nave, ma non riuscivo a muovermi, le ore stavano passando e io non affrontavo il naufragio. Non capivo me stesso, le mie gambe non mi ubbidivano, ed era tutto inutile, una catastrofe iniziata dalla voglia di mangiare del cibo vero, come ai vecchi tempi, rivelatasi poi una mela avvelenata, o meglio ancora, la mela di Adamo, la mela interdetta.
Quando quell'aereo fosse decollato senza di me avrei perso per sempre il paradiso e me lo sarei meritato.
Quella maledetta bistecca era stata più di una bistecca, la chiave del vortice, del ritorno impossibile. Non potevo non tornare, e al contempo non potevo tornare in un mondo che non esisteva più. Il risultato di questa equazione è zero, il vortice di cui parlavo.
Chantal, la bistecca, la città, erano tutte la stessa e sola cosa, che cominciavo a capire solo ora, troppo tardi, ahimè!
Un cane è passato dinanzi alla villa con in bocca un braccio umano, trovato forse tra la cenere di uno di quei falò. Si è avvicinato a noi, c'era ancora un anello attorno a un dito, con una piccola pietra rossa. Quell'immagine mi ha lasciato del tutto indifferente, talmente era naturale e in sintonia con la mia vita di allora. Nemmeno il mio appetito ne è stato condizionato: in quella casa abbiamo mangiato abbondantemente carne alla brace preparata da Chantal, in fondo al cortile. Al pranzo hanno partecipato anche il ciccione con gli occhiali neri che comandava quel dannato covo e il cane, lì in attesa di un boccone, di una salsiccia.
Abbiamo bevuto birra, e un po' brilli siamo andati a letto, io e quella Chantal - che pure si chiama Esther ma questo non interessa affatto - e ci siamo accoppiati in un sesso selvaggio, folle, insaziabile, su un materasso di paglia sporco e senza lenzuola, con la rete che scricchiolava sotto i nostri corpi sudati, poi io ho dormito un sonno profondo e senza sogni, una morte voluta, e quando mi sono svegliato presagivo che il mio aereo era partito senza di me. Che non ci sarebbe più stata salvezza.

Settima scena:
Un complice del ciccione, un uomo grasso anche lui, con la testa rasata e brillante a forma d'uovo e il collo rugoso come fango screpolato dal sole, frastornato forse dalla vicinanza con quella femmina accaldata nella casa dove lui era l'ospite di riguardo, ha cominciato a fare avance sempre più sfacciate a Chantal. Inizialmente quando la trovava sola in corridoio o in bagno, e poi, aggressivamente, anche di fronte a me e al padrone di casa, che a sua volta credeva che tutte le donne fossero, o dovessero essere, donne pubbliche, accessibili ai forti, e che il suo ospite non dovesse essere contrariato. Non era difficile prevedere che sarebbe stata una vera impresa sfuggire alle sue grinfie.
Abbiamo quindi deciso di lasciare quella casa a piedi, alla chetichella, per guadagnare tempo prima di essere scoperti, e mentre loro facevano la siesta dopo il pranzo, a russare e a scorreggiare in un'inconscia gara, noi due ci siamo incamminati per una strada sterrata che sembrava non finire mai. Eravamo coperti ormai da una polvere rossa quando abbiamo deciso di imboccare una stradina secondaria, timorosi che testa d'uovo venisse a cercarci. Infine abbiamo tagliato per un sentiero attraverso una piantagione di granturco, fino al bosco sui colli.
Conoscendo bene quegli scellerati, Chantal non voleva prendere un autobus per tornare in città. Secondo lei, così facendo li avremmo avuti addosso in meno di ventiquattro ore. Il bosco era più sicuro e se fossimo riusciti ad attraversarlo tutto, saremmo usciti non lontano dalla foce del fiume, o del mare.
Io pensavo che non doveva essere molto diverso dal cimitero di prima, cominciavo ad abituarmi a cacciarmi nei guai e nei labirinti. Tutti quegli anni pacati, di letture e di studi, di autoanalisi psicologiche, di poltrone e telecomandi, non erano altro che la lunga preparazione a perdermi in quella foresta insieme a quella donna. Avrei dovuto saperlo. La vita è sempre incinta. Ma i figli poi, chi saranno?
Tanto, tanto tempo prima - di lì a poco avrei dovuto lasciare per sempre quella città e non lo sapevo - ero solito camminare disperato per le strade deserte, fino quasi all'alba, tentando di esaurire le mie energie, per poi tornare a casa, una casa altrettanto deserta, crollare sul mio letto e svenire nell'unico tipo di sonno che l'angoscia mi concedeva, un sonno breve e minerale, il sonno dei sassi.
Allora avevo perso tutto: persone, cose, scommesse. Tutto ciò che conoscevo era dietro di me. Di fronte solo un tempo indeterminato e l'ignoto, che a quel punto più ignoto era, tanto meglio. Camminavo lungo il fiume fino al vecchio ponte, fino a rovinarmi i piedi, fino alla nausea.
Camminavo da un lato all'altro della gabbia in cui si era trasformata la città. Ma in fondo presentivo che dietro una porticina era sempre aperta, e si chiamava aeroporto. Da lì sarei scappato, mi sarei allontanato migliaia di chilometri da quel mucchio di cadaveri, di rovine e di cianfrusaglie, cresciuto non sotto i miei piedi, ma sopra le mie spalle, schiacciandomi sotto il suo peso, per seppellirmi e farmi scomparire tra le macerie.
Poi, in una di quelle notti di crepacuore, sono svenuto davvero. È successo così: erano già ore che camminavo lungo il fiume, e dopo aver oltrepassato gli ultimi palazzi del mio quartiere, già vicino al molo dov'erano i grandi capannoni, ho visto, o meglio, ho annusato il piccolo ristorante da dove proveniva un odore inebriante di carne al fuoco, di burro e di cipolle fritte. Ma non avevo più un centesimo in tasca e niente in banca. Sono rimasto lì, imbambolato ad annusare mentre la testa girava, tutto girava, fino a che il mondo intero non si è spento all'improvviso.

Ottava scena:
Ero un povero fantasma, a infestare due paesi senza essere vivo in nessuno dei due.
Da moltissimo tempo ormai. Ed era il tempo ciò che più mi pesava, la mia nuova età, il corpo diventato ingovernabile, troppo grande per me, la facile estenuazione che lo dominava.
Per due giorni io e Chantal abbiamo vagato dentro quella foresta sempre più densa di liane, di rami bassi, di foglie spinose, di insetti, di radici che spuntavano da terra all'altezza delle mie caviglie per poi sprofondare nuovamente più avanti, il tutto a formare una massa compatta, ostile e afosa, un confuso mioma vegetale. Ogni metro in più era un sacrificio. Mica come il cimitero. Piuttosto come la tomba stessa.
Finalmente siamo arrivati ad un ruscello benigno proveniente da una cascata, il suo mormorio sembrava calmare le forze della natura. Ho chiesto a Chantal di proseguire da sola e lasciarmi lì, seduto per terra - ero ben rannicchiato tra due grosse radici. Poteva tornare più tardi con qualche aiuto e riscattarmi. Allora forse, riposato, sarei stato in grado di seguirla. Ma in quel momento non c'era un solo muscolo del mio corpo che non mi facesse male.
Lei ha capito subito che non esisteva altra soluzione, e si è incamminata lungo il ruscello. Rimasto solo, ho osservato meglio quel luogo improbabilissimo e sono scoppiato a ridere. Ma guarda un po' quel vortice, in pochi giorni, dove mi aveva portato! Non ero rimpatriato. Ero stato parzialmente digerito, bloccato in un punto qualsiasi dell'intestino crasso della madre patria.
Ridere, che altro? E' scesa la notte e ho dormito seduto nello stesso punto in cui mi ero fermato, con la mente lontana dai ragni e dai serpenti, posata su uno scenario diverso in cui le bestie erano solo immagini virtuali.
La mattina le gambe mi obbedivano di nuovo. Sono riuscito a alzarmi a raggiungere l'acqua. Avevo sete, anche fame, ma non sapevo che fare, cosa mangiare.
Mi sono bagnato il volto e la testa. Mi sentivo lucido e leggero, agile. Forse era l'effetto stesso dell'affanno, una specie di isteria, di reazione euforica alla paura.
Ho deciso di seguire il fiume nella direzione opposta a quella presa da Chantal. Ho camminato verso il mormorio della cascata, alla fine più lontana di quanto sembrasse dall'intensità del suo tuono. Le acque cadevano dall'alto di una roccia nera, dilatandosi poi come il velo di una sposa. Dal punto dove toccavano terra, si alzava una nebbia fine, minuscole gocce sospese in aria, a riflettere il sole in un arcobaleno in miniatura. La visione di quella cascata aveva qualcosa di sacro, che mi ha pietrificato. Immobile, osservandola, ho capito che quel velo d'acqua era una tenda. Vi ho scorto, dietro, la macchia scura dell'entrata di una grotta.
Mi sono avvicinato ancora, lasciandomi bagnare interamente la testa che vibrava dal rumore, e ho visto uno spazio libero di forse mezzo metro, tra la cascata e la roccia. Mi sono avventurato attraverso quel varco, comprimendo il mio corpo contro la parete rocciosa, fino all'ingresso della caverna.
All'interno, una luce algida penetrava profondamente quegli spazi. Il rumore dell'acqua si era d'un tratto attutito, nient'altro ora che un motore lontano. La prima sala dopo qualche metro si allargava, come un vero salotto, non fosse stato per i pipistrelli appesi al soffitto. Coni e colonne d'antichi sedimenti sporgevano dall'alto e dal pavimento, e dietro una colonna, ancora, c'era una crepa come una porta stretta che conduceva ad un'altra sala, più grande. La luce del giorno vi arrivava debole come il primo minuto dell'alba. Sono entrato e subito ho visto i riflessi dell'acqua ballare sulle stalagmiti. Al centro di quella sala un laghetto emetteva luce propria, turchese, come se l'acqua fosse satura di un plancton fosforescente.
Ascoltavo ora un rumore familiare che veniva da lontano. L'abbaiare di un cane: da un altro tempo, ma era come se l'avessi ascoltato per l'ultima volta meno di un'ora prima.
Di corsa, dall'altra sponda del laghetto è arrivato Twist, il basset della mia infanzia, e mi è saltato addosso. Il mio amico Twist! E subito, dietro di lui, Ulla, il fox-terrier di mia nonna, morto di freddo in una notte d'inverno e portato via sul camion della spazzatura davanti ai miei occhi di bambino. Erano tutti lì!
E poi mia nonna, con le sue mani forti che mi mancano tanto, allegra, insieme a mio nonno, con i capelli pettinati all'indietro e le scarpe nere. E alla fine è arrivata lei. Il bagliore turchese la illuminava, così bella, il corpo snello, la pelle di seta, e il mio cuore ha accelerato all'impazzata, pericolosamente, allora, sul punto di rivedere da vicino, dopo tanto tempo, quegli occhi neri brillanti di mia madre, che quasi si chiudono quando sorride.

Jamil rialza dal petto il libro di Canetti. Cerca l'ultima frase letta: "Tutto è ancora lì. Il mondo è intatto. Nessuno l'ha afferrato. Ma in te, ora, c'è tanto che potresti tirar fuori il mondo da te."
È già notte fonda. Jamil ha fame, ma sa che a quell'ora è troppo tardi per il ristorante dell'albergo. Chiude il libro con il segnalibro regalatogli dal libraio, si alza dal letto e fruga sopra il frigobar finché non trova un pacchettino di noccioline avanzate dal viaggio in aereo.
Guarda di nuovo il biglietto sul comodino. Ancora cinque giorni. Deve confermare ad Esther la data del suo arrivo. Lei verrà a prenderlo all'aeroporto, come sempre. Vuole telefonarle ora, ha bisogno di ascoltare la sua voce, la sua lingua, ma è troppo presto nel suo paese, e in casa sua Esther e i ragazzi probabilmente stanno ancora dormendo.
Spegne la luce e va alla finestra. Un silenzio irreale lo avvolge mentre osserva i piccoli fari delle barchette che si spostano sulla superficie nera del fiume - quel vecchio fiume che non è più il suo - attraversandolo da una sponda all'altra, come se quegli spostamenti, quel continuo andirivieni, facessero una qualche differenza. Pensando alla frase di Canetti, conclude che si sbaglia, che il mondo non è intatto, che non c'è più niente ancora lì.

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Anno 1, Numero 7
March 2005

 

 

 

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