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l'africa è il tubo digerente del mondo: incontro con sembène ousmane a dakar

itala vivan

Il grande regista senegalese Sembène Ousmane ha il suo ufficio presso la sede della sua casa di produzione, la Film Doomireew, in un’ampia strada del centro di Dakar, proprio di fronte al teatro Daniel Sorano. Lo incontro nella stanza tappezzata di manifesti, diplomi, e fotografie, tracce di una lunga e straordinaria carriera cinematografica iniziata quarant’anni fa con Borom Sarret del 1963, seguito nel 1966 dal bellissimo La noire de…
Sembène è stato il primo regista dell’Africa subsahariana. Ma prima di prendere la via del cinema, e dopo una vita avventurosa in cui aveva fatto i mestieri più vari -- dal pescatore al meccanico allo scaricatore di porto a Marsiglia -- era divenuto uno scrittore importante. Cosa che non ha mai cessato di essere, pubblicando a intervalli regolari una serie di romanzi e racconti di eccezionale qualità letteraria. La svolta verso il cinema avvenne quando vinse una borsa di studio per la Scuola di Cinematografia di Mosca e decise di trasformare in immagini le mille storie e la folla di personaggi che gli premevano dentro. Sempre politicamente impegnato, prima e dopo l’indipendenza del Senegal (ottenuta nel 1960), a lungo militante nei sindacati e nel Partito Comunista Francese, Sembène Ousmane ha fissato lo sguardo sulla vita contemporanea che ha rappresentato con vivezza, intensità e humour, ma anche con profonda compassione, regalando una ricchissima galleria di tipi umani e di situazioni drammatiche alla storia del cinema e della letteratura.
Mi riceve in quel suo studio caotico da cui un balcone si affaccia sul brusio formicolante di Dakar. Mentre ricordiamo la sua lunga vicenda letteraria, un improvviso blackout interrompe la corrente elettrica -- fatto piuttosto frequente anche a Dakar, come un po’ dovunque nell’Africa subsahariana, ad eccezione del Sudafrica; e rimaniamo al buio, nella tarda serata tropicale. Continuiamo a chiacchierare di letteratura, riandando agli anni quando io avevo curato l’edizione italiana di Les bouts de bois de Dieu (Il fumo della savana), tradotto da Annamaria Gallone e uscito nella collana “Il lato dell’ombra” delle Edizioni Lavoro di Roma: un avvincente romanzo storico ambientato durante gli epici scioperi dei ferrovieri africani in epoca coloniale, quando le donne decisero di affiancare gli uomini nella lotta. Sembène ama molto quel suo libro, che racchiude e sviluppa in modo mirabile la sua estetica culturale e i suoi doni di grande narratore naturale.
Nel suo caratteristico tono brusco, Sembène mi parla della sua ultima trilogia cinematografica, intitolata Héroïsme au quotidien, che ha vinto il premio “Un certain regard” al 57°Festival di Cannes con il film della seconda parte, Moolaadé; e intanto, dal balconcino semicircolare, con sguardo addensato da crescente amarezza guarda alla sua Africa, alla città degradata in un unico, immenso mercato che sembra fatto di soli venditori di paccottiglia in gran parte d’importazione.

Il tuo ultimo film, Moolaadé, narra la storia di un gruppo di donne dell’Africa Occidentale, incentrata intorno al tema dell’escissione, o mutilazione genitale femminile, attualmente in uso nella regione. Perché hai scelto questo argomento e come lo ha trattato?

Il film fa parte di una trilogia sull’eroismo della quotidianità. Il tema generale, già annunciato nella prima parte della trilogia, Faat-Kiné, ritorna in Moolaadé e si riaffaccerà nel terzo film, La confrérie des rats, che sto attualmente preparando. Attenzione, però: l’argomento centrale non è l’escissione in sé, bensì la libertà. Quando nel film gli uomini confiscano la radio alle donne, compiono una violazione della libertà di ascolto: le radio infatti hanno un ruolo molto importante di informazione, e proibirne l’ascolto significa vietare appunto l’informazione. Quanto all’escissione, è una questione antica, che pone problemi gravi. La protagonista Colle Ardo, che ha una figlia femmina, organizza le cose in modo da evitare a questa figlia l’intervento di escissione, in nome dell’amore che le porta. Ed ecco che in un secondo tempo delle altre bambine che stanno per venire sottoposte all’escissione fuggono e si rifugiano da lei, in nome del Moolaadé, ossia del diritto d’asilo, che è inalienabile nella tradizione del nostro paese. La protezione di chi chiede aiuto è un principio che costituisce parte integrante della cultura africana e rappresenta un pilastro della tradizione: così ci si trova dinanzi a due fatti, da un lato il ricorso al Moolaadé, ossia al diritto d’asilo, dall’altro la confisca degli apparecchi radio da parte degli uomini: ma era proprio grazie ai servizi radio che le donne africane avevano cominciato a conoscere il proprio corpo e sé stesse, ed avevano rifiutato l’escissione.

Quindi il ruolo dei media è rilevante nel film. Tu hai scelto di raccontare storie attraverso un mezzo espressivo nuovo per l’Africa, il cinema; e però non hai cessato di scrivere romanzi. Che rapporto c’è per te, come artista, fra il linguaggio cinematografico e la scrittura narrativa? Perché hai deciso di fare cinema sin dagli anni Sessanta, e come mai continui a ricorrere ad entrambi i mezzi espressivi?

L’Africa ha bisogno di entrambi – ha bisogno sia del romanzo sia del cinema. Ma ancora oggi, nel 2004, quelli che leggono libri sono davvero pochi. Una manciata di privilegiati che amano la letteratura e possono permettersi l’acquisto dell’oggetto libro e il suo consumo. In generale la gente preferisce guardare anziché leggere, e soprattutto guardare e ascoltare la televisione; in Africa le speranze di un tempo si sono ormai logorate, e riscontriamo che la stragrande maggioranza degli africani sono analfabeti, sia in francese sia in wolof, in arabo o in italiano. Sono analfabeti anche nelle loro lingue africane, non meno che nelle lingue europee. E tuttavia il senso del valore della parola è ancora vivo in Africa: è qui che entra in gioco l’oralità. Occorre chiedersi se l’oralità ricopra lo stesso ruolo che aveva ai tempi in cui ero giovane io. Se guardo alla generazione dei nostri figli, capisco che la cultura orale è profondamente cambiata. Per me l’oralità era tutto, e creava l’immagine, generava le raffigurazioni dalla sua stessa sacralità; oggi invece l’oralità si sposa all’immagine. Ed ecco nascere il cinema. Questo è veramente il cinema.

Ma tu, Sembène, ami comunque ancora scrivere romanzi…

Oh sì, sempre, comunque. Io personalmente preferisco l’espressione letteraria a quella cinematografica. Ma è un lusso che mi concedo, e che mi posso concedere io, nella mia posizione unica. Riconosco che è un lusso: da un lato, infatti, i libri sono tremendamente cari, mentre dall’altro che se ne farebbero di un libro i molti, moltissimi africani che non sanno neppure leggere? Ma anche quelli che sanno leggere, quando mai si prendono la briga di entrare in una libreria e scegliere un libro, e comprarlo? ..e poi portarselo a casa, e leggerlo? Sì, anche se lo comprano e lo cominciano, poi si stancano e lo mettono da parte senza finirlo. Qui in Africa, come vedi – Dakar è un esempio caratteristico – l’ambiente è diventato una frenesia continua: una frenesia di ritmi, di musica, tutto di corsa, tutto insieme, affastellato, gettato addosso alla gente.

Ma dimmi, i tuoi film hanno una buona distribuzione in Africa? E vengono trasmessi dalla televisione pubblica senegalese?

No, i miei film non passano nei programmi televisivi nazionali. E sono poco o nulla distribuiti su territorio africano. Complessivamente, questo è un problema diverso, di natura commerciale ed economica. La distribuzione, qui in Africa, bisognerebbe crearla, spezzando il monopolio americano. Questo è un compito che tocca agli africani. E’ un problema loro, che comporta decisioni di scelta culturale rispetto all’Europa e agli Stati Uniti. Ma anche da voi in Italia, non mi pare che la produzione cinematografica nazionale abbia una distribuzione soddisfacente: i film americani sì che circolano dappertutto, ma non i film italiani. Qui in Senegal ci sono problemi analoghi, che in ultima analisi sono di natura politica. Se i dirigenti politici africani si sciogliessero dai vincoli che ancora li legano all’Occidente, allora…

...anche per quanto riguarda la lingua? Ossia, tu credi che sarebbe bene affrancarsi anche dalle lingue europee?

Oh no, la lingua è un’altra cosa. La lingua non appartiene più a voi europei, non appartiene a nessuno, o, meglio, appartiene a tutti. Figurati che qui in Senegal ci sono dei villaggi dove la gente parla italiano: gente che non è mai andata a scuola, che non sa né leggere né scrivere, ma che è emigrata a Milano o a Torino, e ha imparato l’italiano e se l’è portato a casa. Noi ci impadroniamo della lingua, e la possediamo.

Ritornando ai problemi politici, Sembène, che cosa pensi della situazione generale dell’Africa contemporanea, soprattutto qui in Africa Occidentale, in Costa d’Avorio, Sierra Leone, e nel Senegal dove ci troviamo?

L’Africa Occidentale è in una condizione assolutamente drammatica. E la colpa è degli africani, i cui pessimi governanti non sono all’altezza del compito. L’Africa non ha ancora fatto la sua rivoluzione. Occorre cominciare a rompere con un certo tipo di passato che non corrisponde più ai nostri bisogni, ai bisogni dell’oggi: ma i nostri dirigenti politici non sono in grado di farlo. Si lasciano fagocitare dalla Banca Mondiale, dal Fondo Monetario Internazionale e da tutti gli altri. Hanno trasformato l’Africa in un tubo digerente, il tubo digerente del mondo. La responsabilità, però, è degli africani.

E che ruolo avrà la cultura in una rivoluzione come quella che invochi?

L’antica cultura orale ha avuto finora una funzione importante, ma occorre andare oltre. Non si possono conservare le situazioni e fissarle nell’immobilità, perché l’Africa è cambiata. Per me e per la mia generazione le tradizioni orali hanno rivestito un ruolo fondamentale che però non trova più eco fra i nostri figli.

Però nell’Africa contemporanea la cultura orale antica si è riversata in altre forme …

Certo, come è avvenuto in Francia con le favole di La Fontaine. Il nuovo romanzo africano ha certamente assorbito il filo dell’antica oralità, come ha fatto e fa tuttora il cinema. Ma l’oralità antica non ci può aiutare su altri versanti: non può certo contribuire a sviluppare il progresso scientifico, ti pare? Da questo punto di vista hanno un ruolo primario le università e gli istituti di ricerca e di istruzione superiore in generale: le leggi della fisica e della chimica sono identiche per tutte le lingue e tutte le culture. E le istituzioni pubbliche debbono provvedere a sviluppare tutto ciò.

Quanto al tuo cinema, Sembène, tu stai chiudendo il terzo film della trilogia, La confrérie des rats. Quando conti di finirlo? Ce ne puoi parlare?

Non chiedermi questo: l’artigiano non può mai dire quando finirà il lavoro. La vicenda ruota intorno a un attentato spettacolare che scuote l’establishment politico e religioso, uccidendo un giudice che conduceva un’inchiesta sull’arricchimento illecito. Al suo posto viene nominato un nuovo giudice, le cui scoperte nel mondo della corruzione fanno uscire dalle loro tane gli animali immondi che ne sono responsabili – una vera confraternita, vedi, come quella che si rifiutò di guardare in faccia la realtà delle scoperte scientifiche, e condannò colui che disse “Eppur si muove”, il grande Galileo. Certo che si tratta di un film politico, come sempre: i miei film sono politici perché la vita è politica – sì, la vita è una faccenda politica.

Io ricordo quel tuo straordinario film sul rifiuto del dono – Guelwaar – in cui tu invitavi l’Africa a respingere i doni dell’Occidente; ricordo la sequenza finale, con i sacchi di farina sventrati, che rovesciavano il contenuto nella polvere arida della strada…

L’Africa trasformata in tubo digerente continua a domandare cibo; ma l’Europa potrà continuare a nutrire l’Africa, in un rapporto che non è alla pari, un rapporto infantile, come se l’Africa fosse un bambino da imboccare? Non si tratta più, ora, di aiutare qualcuno che si trova in pericolo o in un momento di emergenza: è ormai un rapporto chiuso in un circolo vizioso. Ma se da un lato l’Africa si presta al gioco, dall’altro l’Europa parte da una posizione di superiorità, un concetto che va decostruito — come quello del vostro Berlusconi che dice che l’Europa ha una cultura superiore.

E che cosa mi dici del rapporto dell’Africa con gli Stati Uniti?

Gli americani si muovono seguendo il proprio interesse, ma ahimè, con la continua complicità dei dirigenti politici africani. E utilizzano gli americani neri per fare il lavoro sporco, sia politico sia culturale. E religioso.
Attualmente l’Africa è più colonizzata di quanto lo fosse all’epoca del colonialismo. E se si mette insieme tutto quello che hanno inflitto all’Africa le potenze europee – la Francia, l’Inghilterra, Mussolini, tutti quanti – non si arriverebbe mai a pareggiare i danni che hanno creato quarant’anni di indipendenze africane. La responsabilità è degli africani, che devono prendere nelle proprie mani il destino di questo continente.

Hai mai pensato di fare un film sulla schiavitù?

Gli africani sarebbero felici se io facessi un film del genere, per poter scaricare la colpa sulla storia passata. Ma io ti dico che oggi, nel 2004, se esistesse ancora la tratta, i neri venderebbero ancora i loro compatrioti ai mercanti di schiavi. So che sto dicendo una cosa terribile. Ma quanto accade con i rifugiati, che vengono venduti e messi su imbarcazioni, e quindi gettati in mare, non è forse analogo a quel che accadeva un tempo, quando si vendevano i propri simili e li si consegnava alle piantagioni dei bianchi? E le donne, esportate, sfruttate, gettate sulla strada per guadagnare qualche dollaro? La ricchezza dell’Africa è l’inferno dei neri. Un inferno come quello di Dante, un cono tenebroso in cui tutti i neri precipitano all’ingiù finendo in fondo, con Lucifero. E io queste cose continuo a raccontarle, ma l’Africa non cambia. Mi applaudono, mi danno medaglie: ma l’Africa non cambia. E io continuo il mio lavoro.

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Anno 1, Numero 6
December 2004

 

 

 

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