El Ghibli - rivista online di letteratura della migrazione

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da un mondo all'altro

gabriella ghermandi

Vorrei raccontarvi un evento del luglio del duemila, una ventata di aria fresca che ha spalancato la porta a parecchie riflessioni: la visita di Abba.
Abba è un eremita cristiano copto di ottantacinque anni che, per scelta spirituale, vive in un cimitero nella capitale etiope, Addis Abeba.
Per quanto mi riguarda Abba è uno di famiglia, una di quelle persone che si vedono circolare per casa da sempre. Una persona a cui mi lega un profondo affetto, addolcito ulteriormente da ricordi d'infanzia impregnati della sua presenza.
Nel mio ultimo soggiorno in Etiopia avevo trascorso con lui parecchie giornate. Tra i vari discorsi che si erano fatti, spesso mi aveva espresso il suo enorme desiderio di visitare Roma. Da ormai dodici anni, mi aveva confidato, inseguiva un sogno: potersi inginocchiare almeno una volta, prima di morire, davanti alle tombe dei Santi Pietro e Paolo. Grazie alle donazioni ricevute da persone a cui aveva risolto parecchi problemi attraverso le preghiere, si era potuto recare in pellegrinaggio in quasi tutti i luoghi sacri al cristianesimo: Gerusalemme, il Giordano, Betlemme ... persino la Grecia, terra di San Giorgio, patrono d'Etiopia. All'elenco dei luoghi che si era prefissato di visitare in questa vita mancava solo Roma. Con strani giri di parole mi aveva detto che di recente aveva ricevuto in regalo soldi sufficienti ad acquistare un biglietto aereo per Roma. Aveva tutto, mancava solo qualcuno che potesse mandargli una lettera d'invito dall'Italia per ottenere il visto turistico. Non mi aveva chiesto apertamente se potessi essere io a scriverla, aveva solo lanciato il suo desiderio tra noi, lasciandomi libera di scegliere se propormi o meno. E io lo accolsi.
Tornata in Italia attesi qualche mese. Giusto il tempo necessario a far passare il periodo più freddo dell'inverno, in quanto Abba cammina rigorosamente scalzo. Poi gli inviai la lettera d'invito.
Era la fine di marzo.
Passarono alcuni mesi, arrivò luglio,il caldo.
Un lunedì mattina, per la precisione lunedì diciassette luglio, verso le dodici, nella mia segreteria telefonica c'era un messaggio. Ora vorrei aprire una parentesi. In Etiopia il telefono è presente in poche case, e di queste solo una piccola percentuale ha una linea che dà accesso alle telefonate interdistrettuali, internazionali ed intercontinentali dirette. Per il resto, come poteva succedere in Italia quaranta o cinquanta anni or sono, chi vuole telefonare fuori provincia o all'estero, si reca ad uno degli appositi uffici della telecomunication etiope, compila pazientemente i fogli scrivendo il numero telefonico al quale si vuole collegare, come si chiama la persona che dovrebbe rispondere all'altro capo del filo e quanto dovrà durare la telefonata. Poi si siede su una delle panche di legno dell'ampia sala d'attesa ed aspetta il suo turno. La fila, normalmente, è sorvegliata da un addetto che mantiene l'ordine e indirizza le persone alle panche del loro settore: destra interdistrettuali, sinistra internazionali e centro intercontinentali. Quando è il turno di qualcuno, il sorvegliante chiama e guida la persona ad una delle cabine di legno con un telefono nero, di quelli in bachelite, che trilla. Si alza il ricevitore ed inizia la telefonata. L'operatrice, di solito quella a cui si è consegnato il modulo con il numero da chiamare, esce ed entra dalla conversazione con grande naturalezza, segnalando all'utente ogni minuto che passa, aiutando coloro che hanno poca dimestichezza con le telefonate, commentando gli eventi narrati nella conversazione......! Insomma, una telefonata da noi non significa semplicemente alzare il ricevitore e comporre un numero, è un'intera mattinata in fila dalla quale si esce con le tasche parecchio alleggerite e con i fatti propri in piazza. Scusate la lunga digressione, ma volevo rendervi un immagine di ciò che poteva esservi dietro al messaggio nella mia segreteria.
Tornando a noi: "Pronto! - diceva Abba alla segreteria - Pronto! Chi sei? Parla! Io sono Abba, Abba Menghesà dall'Etiopia, parla ... ". A quel punto l'operatrice della telecomunication si introduceva nella conversazione:"Allora! - scocciata ad una terza persona - hai detto che avresti lasciato un messaggio alla macchina risponditrice, parla se no scade il tempo che hai a disposizione". Sentii la vocina flebile di Sentaiew, la discepola che accudisce Abba: "Siccome Abba parte, arriva in Italia, vallo a prendere all'aeroporto". Fine del messaggio.
Scoppiai a ridere. Abba che parlava alla segreteria convinto che fosse una parsona. Già, chi risponde non può che essere una persona. Solo per noi, da questa parte del mondo, è naturale il fatto che la voce appartenga il più delle volte ad un congegno elettronico.
"Abba arriva in Italia". Il messaggio non specificava né orario, né data e neppure la città d'arrivo. Nell'agitazione causata dalla centralinista della telecomunication Sentaiew si era scordata di lasciarmi i dati essenziali sul viaggio di Abba.
Pensai di rimediare telefonando per informazioni direttamente gli uffici dell'Ethiopian Airlines di Roma.
Molto gentilmente l'impiegata mi ricordò: "La legge sulla privacy mi vieta di fornirle indicazioni di questo genere". Provai a rispiegarle il problema e lei mi ripetè la stessa frase, con tono meccanico.
Esausta per l'incomprensione chiesi: "Mi passa il direttore", sperando di poter parlare con una persona più ragionevole. Il direttore, per mia fortuna, era etiope. Dico per mia fortuna per il motivo che poteva figurarsi la situazione: un vecchio ottantacinquenne etiope, e per di più eremita, in Italia, solo, perso in chissà quale aeroporto. Mentre gli illustro la questione mi chiede "Nome?". "Abba Menghescià Hailè" rispondo. Trasgredendo la legge sulla privacy ed applicando il buon senso mi rivela: "Roma Fiumicino, mercoledì diciannove luglio ore diciassette e quarantacinque". "Grazie, grazie mille".
Tirai un sospiro di sollievo, ma subito ecco assalirmi un altro problema: mercoledì... Mancavano solo due giorni! Come avrei fatto ad andare a Roma? Avrei dovuto chiedere un giorno di ferie. Me lo avrebbero concesso? "Mannaggia, mannaggia alla nostra gente che non ha idea di come si vive qui. Mica siamo liberi di prendere e partire quando ci pare. Tutto va organizzato con parecchio anticipo" pensai innervosita.

Abba arrivò a Roma con due ore di ritardo. Riuscii ad andare a prelevarlo grazie ad una serie di casuali incastri che mi permisero di ritagliarmi un giorno libero.
Nell'atrio dove lo attendevo, lo vidi apparire scortato dalla hostess dell'Ethiopian Airlines e da uno stuolo di agenti aeroportuali che vollero essere fotografati con lui. Gli stavano attorno come api al miele, ma appena chiesi loro se qualcuno poteva accompagnarci a Roma Termini si dileguarono adducendo mille scuse sui turni e roba varia. Io ed Abba andammo a ritirare i suoi bagagli. Pensavo che mi avrebbe atteso un carico degno di un asino da soma, invece c'erano due piccole borse, come quelle che in Italia si usano per andare in palestra o in piscina."Questa è per te" - allungandomene una - "i ragazzi ti mandano le spezie". Lo guardai sbalordita: "Abba non hai altre valige?". Sollevando la sua rispose: "No! Cosa dovrei portarmi, figlia. Figurati , in questa ho tre cambi", come se fosse una quantità spropositata.

Non voglio raccontarvi del suo soggiorno in Italia, non basterebbe un intero romanzo, e neppure tutte le situazioni che puntano il riflettore sul nostro modo di vivere. Solo un fatto tra i tanti che, assieme al subbuglio creato dalla sua telefonata e dal suo arrivo, mi ha restituito di più l'immagine del nostro mondo.
Abba non solo era arrivato senza un minimo di preavviso ma pure in piena estate, oltre la metà di luglio, quando ormai la maggioranza degli abitanti della penisola, io compresa, ha organizzato le proprie vacanze. E proprio quell'anno, nella programmazione delle mie ferie estive, avevo previsto di passare gli ultimi giorni di luglio da mia madre, nel campeggio al mare.
Nonostante la presenza di Abba, decisi di tener fede all'accordo preso con lei, onde evitare di risvegliare la sua proverbiale suscettibilità. Spiegai la cosa ad Abba e gli chiesi di venire con me. Lui accettò di buon grado, ne avrebbe approfittato per stare qualche giorno con mia madre, con la quale non si incontrava da parecchi anni, mi disse. Per Abba sarebbe stata una deviazione al suo pellegrinaggio, pensai, ma ne sarebbe sicuramente stato felice. Per la prima volta nella sua vita avrebbe visto il mare, a mio avviso una delle creazioni migliori di Dio.
A dispetto di ciò che mi aspettavo, quando lungo la strada, in prossimità di Ancona, avvistammo il mare, Abba non fece neanche una esclamazione di meraviglia. "Forse siamo troppo distanti" pensai.
Arrivammo in campeggio. Vedendo tutta quella gente, le tende, le roulottes, mi chiese: "Cosa fa qui tutta 'sta gente?". "Viene per il mare". "E cos'ha il mare di speciale?". Non sapendo cosa dire mi inventai una risposta in grado di suscitare il suo interesse: "E' come l'acqua benedetta delle nostre sorgenti, guarisce la gente". "E chi l'ha benedetto?". "Nessuno". "Allora non ha niente di particolare" mi zittì.
Abba non volle mai venire sulla spiaggia. Mi disse che quell'acqua in cui si bagnava così tanta gente non andava bene per lui, un eremita.
Se ne stava tutto il giorno seduto sotto la veranda della roullote a guardare la gente e commentare. "Poveretti questi bianchi - mi diceva indicandomi le persone in canottiera e pantaloncini - Non riescono a sopportare il caldo. Guarda, mettono in mostra tutte le grazie di Dio". E buttando gli occhi su di me proseguiva: "Tu sei Etiope, sei abituata al sole, al caldo, quindi copriti" e io ridevo, ridevo per le sue osservazioni.
Un giorno andammo a far visita ad un'amica, residente in un piccolo paese sulle colline marchigiane. La strada verso il suo paese costeggiava la spiaggia per un breve tratto. Era l'ultima domenica di luglio ed il litorale era sovraffollato. Quando Abba vide la quantità di macchine posteggiate lungo la strada e la moltitudine di gente sulla spiaggia mi gridò: "Frena, frena! Rallenta!". Si avvicinò una mano alla guancia e scosse il capo: "Mamma mia quanti sono. Un popolo di formiche - da noi, in Etiopia, le formiche girano in cordoni lunghi parecchi metri e larghi una decina di centimetri - Ammazza quanto popolo! O Dio mio! O Creatore! Ma cosa fanno al sole, ma si abbrustoliscono come le patate! Incredibile! E' incredibile, ma sono nudi, nudi come gli animali!"
Stette zitto qualche secondo e poi aggiunse: "Ti prego figlia, scatta una foto così ho le prove. Se lo raccontassi alla gente, in Etiopia, nessuno mi crederebbe. Madonna mia! Se son strani questi bianchi."
Qualche giorno dopo, a Roma, a casa di una sua parente lo sentii commentare: "Da noi, con il culo all'aria a prendere il sole ci stanno solo i babbuini la mattina presto".

Non voglio ora riempire pagine con riflessioni ed analisi su questo episodio, che per altro si commenta da solo, né sul nostro mondo, come farebbero grandi pensatori e filosofi del nostro tempo. Non è il mio ruolo. Però concluderei aggiungendo un piccolo quadro ancora, questa volta di pensieri.
Dopo qualche tempo che Abba aveva fatto ritorno in Etiopia, mi accorsi che la sua visita si era conclusa lasciandomi un regalo: un varco dal quale la luce, entrando, aveva illuminato le zone d'ombra a cui degnavo poca attenzione.
L'immagine restituitami da Abba del luogo in cui vivevo nel tempo si era andata delineando con sempre maggiore nitidezza.
Anche io andavo al mare e mi sdraiavo mezza nuda, impataccata di creme, a prendere il sole. Era normale, in questo paese progredito e civile, spogliarsi di uno stupido ed inutile pudore e godersi la libertà dell'aria. Non avevo mai considerato questo comportamento come strano. Strano è un termine che non si addice a noi, abitanti di questa zona del pianeta. Strane sono quelle popolazioni di cui trattano i documentari.
C'erano voluti gli occhi di Abba per scuotermi dalla presunzione e restituirmi la capacità di relativizzare. Quel comportamento era normale per noi, una piccola percentuale dell'intera popolazione terrestre, non per tutti; inoltre, quei culi al vento, ammassati sulla sabbia, non erano certo l'immagine della cultura e del progresso con cui ormai mi identificavo, ma piuttosto quella di un branco di "selvaggi". Non avevo mai fatto caso a tutto ciò, come non avevo mai fatto caso a quanto nella nostra vita tutto sia organizzato ad incastro. Neppure una molecola avrebbe lo spazio sufficiente per volteggiare libera tra un incastro e l'altro del tempo a nostra disposizione.
Viviamo senza lasciare l'indispensabile spiraglio affinché possano raggiungerci le sorprese. Appena arrivato in Italia Abba mi aveva suggerito: "Domani porta il mio passaporto al tuo lavoro, come testimonianza del mio arrivo. Se si renderanno conto che hai un parente, in visita, proveniente da un paese così lontano, sicuramente ti regaleranno qualche giorno di permesso."
Solo dopo alcuni giorni aveva compreso come gira la ruota da queste parti: "Siete progrediti ma non siete fortunati, perché non sapete come usare il vostro progresso per la vostra felicità. Eppure Dio è con la gente di questo paese, guarda il potere che ha messo nelle vostre mani!".

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Anno 1, Numero 6
December 2004

 

 

 

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