El Ghibli - rivista online di letteratura della migrazione

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mezzo sole giallo

chimamanda ngozi adichie

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Gli Igbo dicono che la penna di un’aquila adulta rimarrà sempre immacolata.

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Era uno di quei giorni, nel pieno della stagione delle piogge, in cui il sole sembrava una fiamma arancione accostata alla pelle, malgrado piovesse, e mi ricordai che da bambina, in giornate come quella mi sarei messa a correre e a cantare canzoni sulla sfida tra il sole e la pioggia, facendo il tifo perché vincesse il sole. Le gocce tiepide si mescolavano al sudore e mi scorrevano sul viso, mentre me ne tornavo al dormitorio dopo la manifestazione. Tenevo ancora in mano il cartello con la scritta ricorda i massacri, ancora stupita per la mia, la nostra, nuova identità. Era la fine di maggio, Ojukwu aveva appena dichiarato la secessione, e noi non eravamo più nigeriani. Eravamo biafrani. Quando ci riunimmo a migliaia in Freedom Square per la manifestazione, noi studenti cominciammo a cantare a squarciagola canti Igbo, ondeggiando come un fiume, qualcuno disse che al mercato fuori del campus le donne danzavano, e regalavano arachidi e manghi. Nnamdi e io stavamo uno accanto all’altra sfiorandoci con le spalle, mentre facevamo oscillare verdi fronde di dogonyaro e cartelli di cartone. Sul cartello di Nnamdi c’era scritto secessione ora. Pur essendo uno dei capi degli studenti, aveva scelto di rimanere con me tra la folla. Gli altri leader stavano davanti e portavano una bara con la scritta NIGERIA fatta col gesso bianco. Quando scavarono una fossa poco profonda e seppellirono la bara, un’acclamazione si levò snodandosi tra la folla, rendendoci uniti, innalzandoci, finché fu tutto un tripudio, finché noi tutti diventammo uno solo.

Io li acclamavo ad alta voce, benché quella bara mi ricordasse zia Ifeka, la sorellastra della mamma, la donna che mi aveva allattato al seno perché quello della mamma si era prosciugato dopo che ero nata io. Zia Ifeka era stata uccisa durante i massacri al nord. Come sua figlia Arize, che era incinta. Per prima cosa dovevano aver sventrato Arize e tagliato la testa al bambino: era quello che facevano alle donne incinte. Non dissi a Nnamdi che stavo pensando di nuovo a zia Ifeka e Arize. Non perché avevo perduto soltanto due parenti mentre lui aveva perso tre zii e sei cugini, ma perché mi avrebbe accarezzato il viso dicendo, «te l’ho già detto, non soffermarti a pensare ai massacri. Non è forse per questo che abbiamo fatto la secessione? È nato il Biafra! Pensa a questo, piuttosto: trasformeremo il nostro dolore in una nazione potente, trasformeremo il nostro dolore nell’orgoglio dell’Africa».

Nnamdi era fatto così; a volte lo guardavo e vedevo quello che avrebbe potuto essere duecento anni prima: un guerriero Igbo che conduceva il suo villaggio in battaglia (ma solo guerre giuste), che urlava e attaccava col suo machete arroventato, tornando poi con il maggior numero di teste ciondolanti dai bastoni.

Ero davanti al dormitorio quando smise di piovere; il sole aveva vinto la sua battaglia. Dentro al salone, una moltitudine di ragazze stava cantando. Ragazze che avevo visto bisticciare alla pompa dell’acqua e colpirsi a vicenda coi secchi di plastica, ragazze che avevano tagliuzzato i reggiseni delle altre stesi ad asciugare, ora si tenevano per mano e cantavano. Anziché «Salute a te Nigeria», cantavano, «Salute a te Biafra». Anch’io mi unii a loro a cantare, a battere le mani e a parlare. Non ritornammo sui massacri, sul modo in cui gli Igbo erano stati cacciati casa per casa, trascinati giù dagli alberi su cui si erano ranicchiati, da uomini dagli sguardi accesi che gridavano Jihad, che gridavano nyamiri, nyamiri. Parlammo invece di Ojukwu, dei suoi discorsi che ci facevano venire le lacrime agli occhi e la pelle d’oca, della facilità con cui il suo carisma spiccava in mezzo agli altri leader: Nkurumah accanto a lui sarebbe sembrato una bambola di plastica. «Imakwa, ci sono più medici e avvocati in Biafra che in tutta l’Africa Nera!», disse qualcuno. «Il Biafra salverà l’Africa!», disse un altro. Ridevamo, orgogliosi fino al delirio di persone che non avremmo mai neppure conosciuto, gente che un mese fa non portava l’etichetta ‘nostro’ che avevano adesso.

Ridemmo ancora di più nelle settimane seguenti-ridevamo quando i nostri professori espatriati tornarono in Gran Bretagna in India e in America, perché anche se la guerra fosse arrivata, ci avremmo messo solo una settimana per schiacciare la Nigeria. Ridevamo delle navi della marina nigeriana che bloccavano i nostri porti, perché il blocco non poteva durare a lungo. Ridevamo quando ci si trovava sotto gli alberi di gmelina per discutere il futuro della politica estera del Biafra, mentre toglievamo l’insegna «Università della Nigeria, Nsukka», per rimpiazzarla con quella che diceva «Università del Biafra, Nsukka». Era stato Nnamdi a piantare il primo chiodo. Fu anche il primo ad arruolarsi nell’esercito del Biafra, prima che il resto dei suoi amici lo seguisse. Lo accompagnai all’ufficio di reclutamento, che odorava ancora di vernice fresca, a ritirare la divisa. Con l’uniforme addosso sembrava così largo di spalle, così in gamba, che -più tardi- non volli che se la togliesse del tutto, e mi aggrappai alla ruvida camicia kaki mentre lui si muoveva dentro di me.

La mia vita -le nostre vite- avevano assunto una patina lucente, come coppale. Ci sembrava di avere dell’acciaio liquido, anziché sangue, che ci scorreva nelle vene, di poter stare a piedi nudi sui tizzoni ardenti.

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Gli Igbo dicono- chi saprà mai come l’acqua è entrata nello stelo di una zucca?

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Udii i cannoni dalla mia stanza del dormitorio. Sembravano vicini, come se il tuono salisse incanalandosi dal salone. Fuori, qualcuno gridava in un altoparlante. Evacuate subito! Evacuate subito! C’era un suono di passi, di passi frenetici, nel corridoio. Buttai delle cose in valigia, scordandomi quasi della biancheria intima nel cassetto. Mentre lasciavo il dormitorio, vidi un elegante sandalo da donna abbandonato per le scale.

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A Enugu l’aria odorava di pioggia, d’erba fresca, di speranza e di formicai nuovi. Guardavo gli ambulanti e le nonne e i ragazzini che abbracciavano Nnamdi, carezzando la sua divisa dell’esercito. Eroismo per legittima difesa, come lo chiamava Obi. Obi aveva tredici anni, era il mio fratellino occhialuto che leggeva un libro al giorno e frequentava la Scuola Superiore per Ragazzi Dotati e stava conducendo delle ricerche sull’origine africana della civiltà greca. Lui non si limitava a toccare la divisa di Nnamdi, voleva anche provarla, voleva sapere con esattezza che rumore facessero i fucili. Mamma invitò Nnamdi a casa e gli preparò la torta di mango. «La tua divisa è così attraente, caro», disse, e gli girava intorno come fosse suo figlio, come se non avesse avuto da ridire che io ero troppo giovane e che la sua famiglia non era adeguata, quando ci eravamo fidanzati l’anno precedente.

Papà suggerì che io e Nnamdi ci sposassimo subito, così Nnamdi avrebbe potuto indossare l’uniforme al matrimonio e il nostro primo figlio si sarebbe chiamato Biafrus. Naturalmente papà scherzava, ma forse proprio perché qualcosa mi opprimeva il petto da quando Nnamdi si era arruolato, immaginai di avere un bambino ora. Un bimbo con la pelle del colore del mogano lucidato, come la scrivania di Nnamdi. Quando lo raccontai a Nnamdi, quando gli dissi di quel vago desiderio che sentivo da qualche parte dentro di me, lui si punse il pollice, poi punse il mio, e mescolammo il nostro sangue, per quanto lui non fosse mai stato particolarmente superstizioso. Poi scoppiammo a ridere, perché non eravamo nemmeno sicuri di sapere cosa diavolo significasse.

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Gli Igbo dicono che chi ha creato il leone non vuole che il leone mangi erba.

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Vidi Nnamdi andar via, lo guardai finché la polvere rossa non ricoprì le orme dei suoi scarponi, e sentii l’umidità dell’orgoglio sulla pelle, negli occhi. Orgoglio per la bella uniforme verde oliva con l’immagine del sole nascente sulla manica. Era lo stesso simbolo, un mezzo sole giallo, cucito sulla sgargiante cravatta di cotone che papà portava tutti i giorni al suo nuovo lavoro alla Direzione delle Ricerche Belliche. Papà ignorava tutte le sue altre cravatte, quelle di seta, quelle prive di simboli. E la mamma, l’elegante mamma dalle unghie curate, vendette alcuni degli abiti comprati a Londra e organizzò a St. Paul un gruppo di donne che cuciva per i soldati. Anch’io mi unii al gruppo; cucivamo camiciole e cantavamo canti Igbo. Poi la mamma ed io tornavamo a casa a piedi (non andavamo in auto per risparmiare benzina) e quando papà rientrava la sera, in quei mesi tranquilli, ci mettevamo a sedere in veranda e mangiavamo anara fresco con pasta di arachidi e ascoltavamo Radio Biafra, con la lampada a kerosene che gettava tutt’intorno ombre giallastre. Radio Biafra riportava storie di vittoria, di cadaveri nigeriani allineati lungo le strade. E dalla Direzione delle Ricerche Belliche, papà riferiva aneddoti sulla genialità della nostra gente: sapevamo ricavavare olio per i freni dalle noci di cocco, creavamo motori di auto da rottami metallici, raffinavamo il petrolio greggio in pentoloni da cucina, avevamo messo in piedi una miniera locale. L’embargo non ci avrebbe scoraggiato. Concludevamo spesso quelle serate dicendoci, «Abbiamo una giusta causa», come se già non lo sapessimo. La dovuta dichiarazione solenne, la chiamava Obi. Fu una di quelle sere che capitò un amico a dirci che il battaglione di Nnamdi aveva conquistato il Benin, e che Nnamdi stava bene. Brindammo a Nnamdi con vino di palma. «Al nostro futuro genero», disse papà, sollevando il boccale verso di me. Papà permise a Obi di bere quanto voleva. In realtà, a papà piaceva il cognac, ma a causa dell’embargo non riusciva a trovare il Remy Martin neppure al mercato nero. Dopo un po’ di boccali, papà disse, col labbro superiore coperto di schiuma bianca, che adesso preferiva il vino di palma, almeno non doveva berlo nei bicchierini. E ridemmo tutti, troppo rumorosamente.

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Gli Igbo dicono-lo scoiattolo di terra che cammina, a volte comincia a trottare, quando si presenta la necessità di correre.

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Enugu cadde in uno di quei giorni in cui l’harmattan, il vento del deserto, soffiava forte, portando con sé polvere, pezzi di carta e foglie secche, ricoprendo capelli e vestiti di un’impalpabile pellicola marrone. Mamma e io stavamo preparando la zuppa piccante- io tagliavo la trippa mentre mamma macinava i peperoncini- quando udimmo gli spari. Dapprima pensai che fossero tuoni, quei tuoni assordanti che precedevano le bufere di harmattan. Non potevano essere i cannoni federali perché Radio Biafra diceva che i federali erano lontani, che venivano respinti. Ma alcuni istanti dopo papà irruppe in cucina, la cravatta tutta storta. «Entrate subito in macchina!» disse. «Adesso! La Direzione sta evacuando».

Non sapevamo cosa portar via. La mamma prese l’occorrente per la manicure, la radiolina, dei vestiti, la pentola con la zuppa piccante mezzo cucinata avvolta in un canovaccio. Io afferrai un pacchetto di cracker. Obi i libri sul tavolo di cucina. Mentre fuggivamo con la Peugeot di papà, la mamma disse che comunque saremmo tornati presto, perché le nostre truppe avrebbero riconquistato Enugu. Quindi non le importava di lasciare tutte le sue porcellane, il radiogrammofono, la nuova parrucca arrivata da Parigi in una scatola dallo strano color lavanda. «E i miei libri rilegati in cuoio», aggiunse Obi. Ero grata che nessuno parlasse dei soldati biafrani che vedevamo passare veloci, in ritirata. Non volevo immaginare Nnamdi in quel modo, correre come un pulcino bagnato sotto il temporale. Papà fermava spesso la macchina per ripulire il parabrezza dalla polvere, e guidava a passo d’uomo a causa della folla. Donne con lattanti assicurati alla schiena, che trascinavano per mano quelli che appena camminavano e trasportavano pentole sul capo. Uomini che si tiravano dietro capre e biciclette, portando scatoloni di legno e patate dolci. E bambini, tantissimi bambini. La polvere mulinava tutt’intorno, come un lenzuolo marrone trasparente. Un esodo rivestito di speranza polverosa. Ci misi un po’ a rendermi conto che anche noi, come tutta quella gente, adesso eravamo dei profughi.

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Gli Igbo dicono che casa è dove ci si risveglia.

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Akubueze, il vecchio amico di papà, era un uomo dal sorriso triste il cui consueto saluto era «Dio benedica il Biafra». Aveva perso tutti i figli nei massacri. Mentre ci mostrava la cucina annerita dal fumo, la latrina col buco e la stanza con le pareti macchiate, mi veniva da piangere. Non tanto per la stanza che ci avrebbe affittato, ma per Akubueze stesso. Per lo sguardo di scusa nei suoi occhi. Distesi le nostre stuoie di rafia agli angoli della stanza, vicino alle borse e al cibo. Al centro campeggiava la radio e noi ci giravamo attorno tutti i giorni, la ascoltavamo, la lucidavamo. Cantavamo in coro quando trasmettevano le marce militari. Siamo Biafrani, combattiamo per la salvezza, nel nome di Gesù, vinceremo, op-là, un-due. A volte i nostri nuovi vicini, quelli che abitavano nel nostro stesso cortile, si univano a noi. Cantando, evitavamo di chiederci che ne era stato della nostra bella casa con la scalinata di marmo e le luminose verande. Cantando, non eravamo costretti ad ammettere ad alta voce che Enugu era ancora occupata e che la Direzione Bellica non pagava più gli stipendi e tutto quello che papà riceveva era un’indennità. Papà dava ogni banconota alla mamma, perfino il foglietto col suo nome e il numero di matricola stampato in inchiostro sbavato. Io guardavo i soldi e pensavo a quanto erano più belle le sterline biafrane di quelle nigeriane, le scritte più eleganti, i volti più arditi. Ma al mercato ci si comprava ben poco, con quelle sterline biafrane.
Il mercato era un grappolo di bancarelle polverose e semivuote. C’erano più mosche che cibo, le mosche ronzavano rumorosamente sulla carne grigiastra, sulle banane macchiate di nero. Le mosche sembravano più sane e più fresche di carne e frutta. Io osservavo bene tutto, indugiavo, come se fosse un mercato in tempo di pace e avessi ancora la possibilità di scegliere. Alla fine compravo sempre manioca, perché era la cosa più nutriente ed economica. Tuberi stentati, quelli con la buccia di un rosa orrendo. Non li avevamo mai mangiati prima. Alla mamma dissi, quasi per scherzo, che potevano essere velenosi. E la mamma rideva dicendo, «la gente mangia le bucce adesso, tesoro. Una volta era cibo per le capre».

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I mesi scivolarono via e me ne accorgevo quando mi venivano le mestruazioni, scarse, di un colore più simile al fango che rosse. Mi preoccupavo per Nnamdi, che non ci trovasse, che potesse accadergli qualcosa e nessuno avrebbe saputo dove trovarmi. Seguivo attentamente le notizie di Radio Biafra, anche se Radio Nigeria interferiva sempre più spesso. Sabotaggio deliberato, così Obi ci aveva detto che si chiamava. Radio Biafra descriveva le migliaia di corpi dei federali che galleggiavano sul Niger. Radio Nigeria elencava le migliaia di morti e disertori tra i soldati biafrani. Io ascoltavo entrambe le versioni con la stessa attenzione per poi crearmi le mie verità, in cui indugiavo e credevo.

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Gli Igbo dicono che se un serpente non mostra il suo veleno, i bambini lo useranno per legare la legna.

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Nnamdi comparve alla nostra porta in una mattina dall’aria asciutta, con una cicatrice sull’occhio e la pelle del viso troppo tesa e i pantaloni consunti che a stento si reggevano alla vita. La mamma si precipitò al mercato a comprare tre colli e due ali di pollo, che fece friggere in un po’ d’olio di palma. «Specialità per Nnamdi», disse tutta allegra. La mamma, che sapeva preparare il Coq Au Vin senza bisogno della ricetta.

Portai Nnamdi a una vicina fattoria dove il raccolto era stato fatto troppo presto. Tutte le fattorie avevano quell’aspetto ormai, razziate nottetempo, razziate dei cereali così teneri che non avevano ancora formato i semi, e di patate dolci che arrivavano a malapena alla grandezza del mio pugno. Raccolto di disperazione, lo chiamava Obi. Nnamdi mi tirò in terra, sotto un albero di upaka. Gli sentivo le ossa attraverso la pelle. Lui mi graffiò la schiena, mi morse il collo sudato, mi tenne giù così forte che sentivo la sabbia che mi bucava la pelle. E mi rimase dentro così a lungo, così stretto, che sentii i nostri cuori pompare sangue all’unisono. Desideravo in maniera contorta che la guerra non finisse mai in modo da avere sempre questa qualità, come di noce moscata, dolce e durevole. Dopo, Nnamdi si mise a piangere. Non avevo mai neppure immaginato che potesse piangere. Disse che gli inglesi stavano dando più armi alla Nigeria, che la Nigeria aveva aerei russi e piloti egiziani, che gli americani non intendevano aiutarci, eravamo ancora sotto embargo, nel suo battaglione c’era un fucile ogni due uomini, alcuni battaglioni si erano ridotti a usare machete e roncole. «E non ammazzano forse i bambini solo perché sono nati Igbo?» chiese.

Premetti il mio viso sul suo, ma lui non smetteva di piangere. «C’è un dio?» mi chiese. «C’è un dio?» Allora lo tenni stretto e lo ascoltai piangere, e ascoltai lo stridere dei grilli. Si congedò da noi due giorni più tardi, tenendomi stretta un po’ troppo a lungo. La mamma gli dette un sacchetto di riso bollito.

Serbai quel ricordo, e ogni altro ricordo di Nnamdi, usandoli con parsimonia. Li usavo durante le incursioni aeree, quando lo stridulo ta-ta-ta della contraerea veniva a scompigliare un caldo pomeriggio e tutti nell’aia si precipitavano nel rifugio-un buco nel terreno grande quanto una stanza e ricoperto di tronchi-e scivolavano nell’umido terriccio sottostante. Entusiasmante, diceva Obi, anche se si riempiva di tagli e ferite. Annusavo l’odore organico, di campi appena arati, e guardavo i bambini strisciare alla ricerca di grilli e lombrichi, finché il bombardamento non cessava. Strofinavo la terra tra le dita e assaporavo i ricordi dei denti di Nnamdi, la sua lingua, la sua voce.

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Gli Igbo dicono-rendiamo onore ai sordi, perché se il cielo non sente, allora sentirà la terra

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Tante cose diventavano transitorie, e quindi più preziose. Non che avessero valore in sé, ma era la precarietà che pendeva sulla mia testa, sulla vita, che conferiva loro valore. E quindi assaporavo un piatto di polenta, malgrado il sapore di stoffa, proprio perché potevo essere costretta a lasciarla per correre nel rifugio, perché all’uscita un vicino avrebbe potuto averla mangiata, o averla data a uno dei bambini.

Obi propose di fare scuola a quei bambini, molti dei quali correvano per l’aia a caccia di lucertole. «Pensano che i bombardamenti siano normali», disse Obi scuotendo la testa. Per la nostra classe, scelse un punto fresco sotto l’albero di cola. Sistemai delle assi su blocchi di cemento a fare da sedie, una tavola di legno appoggiata all’albero a fungere da lavagna. Io insegnavo inglese, Obi insegnava matematica e storia e con lui i bambini non parlottavano e ridacchiavano come facevano alle mie lezioni. Riusciva in qualche modo a catturarli, mentre parlava, gesticolava e scribacchiava col carbone sulla lavagna (poi si passava le mani sulla faccia sudata e lasciava delle strisce nere, come un disegno). Forse perché mescolava la lezione col gioco-una volta chiese ai bambini di mettere in scena il Congresso di Berlino; diventarono europei che si spartivano l’Africa, scambiandosi colline e fiumi pur non sapendo dove fossero quelle colline e quei fiumi. Obi faceva Bismarck: «è il mio contributo ai giovani Biafrani, i leader di domani», disse, raggiante di malizia.

Risi, perché sembrava dimenticare che anche lui, sarebbe stato un futuro leader. A volte anch’io mi dimenticavo quanto fosse giovane. «Ricordi quando ti masticavo la carne e poi te la infilavo in bocca perchè fosse più facile inghiottirla?» lo canzonavo. Obi faceva una smorfia e diceva di non ricordareselo.

Le lezioni erano al mattino, prima che il sole del pomeriggio si facesse spietato. Dopo la scuola, Obi e io ci univamo alla milizia locale-un misto di ragazzi, donne sposate e uomini invalidi-e facevamo ‘rastrellamenti’, per scovare i federali o sabotatori biafrani che potevano nascondersi nella boscaglia anche se tutto quello che riuscivamo a trovare erano frutti secchi e arachidi. Parlavamo dei morti fra i nigeriani, parlavamo del coraggio dei francesi e dei tanzaniani nel sostegno al Biafra, della malvagità degli inglesi. Non parlavamo mai dei morti biafrani. Parlavamo anche delle misure contro il kwashiorkor, di come funzionavano, di come molti bambini alle fasi iniziali erano stati curati. Sapevo che quella cura era una sciocchezza, le foglie di quell’albero non erano nemmeno commestibili, riempivano la pancia dei bambini, ma non davano alcun nutrimento, non c’erano proteine. Ma noi avevamo bisogno di credere in storie come quella. Quando non mangiavi altro che manioca malsana, approfittavi di tutto il resto in maniera egoista e feroce. Soprattutto della capacità di decidere in cosa credere o non credere.

Mi piacevano le storie che ci raccontavamo, la tranquillità delle nostre voci. Finché un giorno, eravamo in una fattoria abbandonata e vagavamo a fatica tra l’erba alta, quando inciampammo in qualcosa. Un cadavere. Ne sentii l’odore prima di vederlo, un odore che mi soffocava, un puzzo così termendo che faceva svenire. «Ehi! È un nigeriano!» disse una donna. Un nugolo di mosche s’alzò dal corpo rigonfio del soldato nigeriano mentre ci avvicinavamo in cerchio. La pelle era cinerea, gli occhi spalancati, i segni tribali erano spesse linee misteriose che gli percorrevano la faccia gonfia. «Avrei preferito incontrarlo da vivo», disse un ragazzino. «Nkakwu, brutto sorcio», disse qualcun altro. Una ragazza sputò sul cadavere. Gli avvoltoi si posarono pochi metri più in là. Una donna vomitò. Nessuno suggerì di seppellirlo. Me ne stavo là, stordita dall’odore, dal ronzio delle mosche e dal caldo, e mi domandai com’era morto, come aveva vissuto. Mi chiesi della sua famiglia. Una moglie che guardava fuori dalla porta, gli occhi fissi sulla strada, in cerca di notizie di suo marito. Dei figli piccoli ai quali raccontare, «papà tornerà presto». Una madre che aveva pianto quando lui era partito. Fratelli, e sorelle e cugini. Mi immaginai le cose che si era lasciato dietro-abiti, un tappetino per la preghiera, una tazza di legno usata per bere il kunu.

Mi misi a piangere.

Obi mi abbracciò e mi osservò con tranquillo disgusto. «È gente come questa che ha ammazzato zia Ifeka», disse Obi. «Gente come questa ha decapitato i bambini non ancora nati». Spinsi via Obi e continuai a piangere.

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Gli Igbo dicono che un pesce che non mangia gli altri pesci non diventa grasso.

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Non c’erano notizie di Nnamdi. Quando a un vicino arrivavano notizie dal figlio o dal marito al fronte, indugiavo per giorni attorno alla loro abitazione cercando di attirare su di me la loro fortuna. Nnamdi sta bene, diceva Obi in un tono così naturale che volevo credergli. Lo diceva spesso in tutti questi mesi di manioca bollita, mesi di tuberi ammuffiti, mesi in cui condividevamo sogni d’olio vegetale, di pesce e di sale.

Nascondevo ai vicini il poco cibo che avevamo, avvolto in un panno e infilato dietro la porta,. Anche i vicini nascondevano il loro. La sera toglievamo il cibo dall’involucro e ci raggruppavamo in cucina, a cucinare e a parlare del sale. In Nigeria c’era il sale, il sale era la ragione per cui la nostra gente passava il confine per andare dall’altra parte, era per il sale che una donna che abitava in fondo alla strada, si diceva, era corsa fuori dalla cucina si era strappata gli abiti di dosso e si era rotolata gemendo nella polvere. Seduta sul pavimento di cucina ascoltavo le chiacchiere e cercavo di ricordarmi il sapore del sale. Sembrava così surreale, ora, pensare che a casa avevamo una saliera di cristallo. E che ne avevo addirittura sprecato, risciacquandone il fondo grumoso prima di riempirla. Sale fresco. Inframmezzavo i pensieri di Nnamdi coi pensieri di cibo salato.

E quando Akubueze ci disse che il nostro vecchio pastore, padre Damian, lavorava in un campo profughi ad Amandugba, una città poco distante, pensai al sale. Akubueze non ne era sicuro, circolavano un sacco di storie di gente vista in tanti luoghi diversi. Ciò nonostante, proposi a mamma di andare a trovare padre Damian. La mamma acconsentì, saremmo andati a vedere se stava bene, erano due lunghi anni che non lo vedevamo. La feci sorridere quando affermai che era davvero un mucchio di tempo-come se potessimo ancora permetterci visite di cortesia. Non dicemmo niente del cibo che la Caritas Internazionale mandava ai preti con voli notturni segreti, il cibo che i preti davano via, la carne in scatola, il glucosio, il latte in polvere. E il sale.

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Padre Damian era dimagrito, aveva vuoti e ombre sul viso. Ma aveva un aspetto sano in confronto ai bambini del campo profughi. Bambini magri come stecchi con le ossa che sporgevano, così innaturali, così puntute. Bambini con capelli color ruggine e pance come palloni. Bambini con gli occhi profondamente infossati nel viso. Padre Damian presentò a mamma e a me gli altri preti, missionari irlandesi dello Spirito Santo, uomini bianchi con la pelle arrossata dal sole e sorrisi così coraggiosi che avrei voluto pizzicargli le guance per vedere se erano veri. Padre Damian parlò molto del suo lavoro, dei bambini che morivano, ma la mamma continuava a cambiare argomento. Non era da lei comportarsi così, avrebbe definito screanzato chiunque altro lo avesse fatto. Padre Damian smise finalmente di parlare di bambini, di kwashiorkor, e sembrava quasi deluso quando ci vide andar via, la mamma che teneva stretta la borsa col sale. la carne in scatola e il pesce liofilizzato che ci aveva dato.

Ma perché padre Damian continuava a parlarci di quei bambini? Gridava la mamma mentre camminavamo verso casa. Cosa possiamo fare noi per loro? La calmai, le dissi che forse aveva solo bisogno di parlare con qualcuno del suo lavoro, non si ricordava quando cantava quelle sciocche canzoncine stonate per far ridere i bambini ai mercatini in chiesa?

Ma la mamma continuava a gridare. E allora cominciai a gridare anch’io, con le parole che mi ruzzolavano dalla bocca. Perché mai padre Damian ci parlava di quei bambini, dopotutto? Che bisogno avevamo di saperlo? Non avevamo abbastanza guai a cui pensare?

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Gridavamo. Un uomo si avvicinò lungo la strada, percuotendo un gong di metallo e chiedendoci di pregare per i buoni uomini bianchi che paracadutavano il cibo per il nuovo centro di assistenza che avevano organizzato alla chiesa di S. Giovanni. Non tutti i bianchi erano assassini, gong, gong, gong, non tutti fornivano armi ai nigeriani, gong, gong, gong.

Al centro di assistenza, lottavo, facendomi largo a calci fra la folla, rischiando i manganelli della milizia. Mentii, lusingai, implorai. Parlai inglese con accento britannico, per mostrare quanto ero colta, per distinguermi dalla gente semplice del villaggio, e poi sentii le lacrime che si affacciavano agli occhi, e sarebbe bastato battere le ciglia per farle sgorgare. Ma non battei ciglio mentre tornavo a casa, tenevo gli occhi spalancati, le mani ben strette attorno a tutto il cibo che avevo rimediato. Quando ne avevo. Tuorli d’uovo liofilizzati. Latte in polvere. Pesce secco. Scatolette.

I soldati traumatizzati dalle bombe, con le loro camicie lerce, gironzolavano per il centro assistenza, blaterando frasi senza senso, e i bambini li fuggivano. Mi seguivano prima imploranti, poi cercando di portarmi via il cibo. Io li spintonavo, li maledicevo e gli sputavo addosso. Una volta spinsi così forte un uomo che cadde in terra, e non mi girai neppure per vedere se si era rimesso in piedi. Non volevo neppure immaginare che una volta erano stati dei fieri soldati biafrani come Nnamdi.

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Forse fu proprio il cibo del centro di assistenza che fece ammalare Obi, oppure tutte le altre cose che mangiavamo, quelle a cui grattavamo via la muffa azzurra o quelle da cui toglievamo le formiche. Vomitò, e quando fu svuotato, aveva ancora conati e si reggeva lo stomaco. La mamma gli andò a prendere un vecchio secchio, lo aiutava a usarlo, e dopo lo riportava fuori. Sono diventato un vecchio col vaso da notte, scherzava Obi. Teneva ancora le sue lezioni, ma parlava meno del Biafra e di più del passato, mi diceva ti ricordi quando la mamma si faceva impiastri al viso con una crema di latte e miele. E ti ricordi dell’albero di guanabana che avevamo in cortile e di come le api vi salivano in colonna. La mamma andò all’ospedale Albatross e snocciolò i nomi di tutti i dottori famosi che aveva conosciuto ad Enugu, per farsi ricevere dal medico prima delle centinaia di donne che affollavano i corridoi. Funzionò, e lui le diede delle compresse contro la diarrea. Ne poteva rimediare solo cinque e le disse di dividerle in due per farle durare di più, in modo da tenere sotto controllo la diarrea di Obi. Secondo la mamma il "dottore" forse non aveva nemmeno completato il quarto anno di medicina, ma questo era il Biafra dopo due anni di guerra: gli studenti di medicina dovevano fare i dottori perché i medici veri erano impegnati ad amputare braccia e gambe per salvare la gente. Poi la mamma disse che parte del tetto dell’Albatross era venuto giù durante un’incursione aerea. Non so cosa ci fosse di tanto divertente, ma Obi rise, la mamma si mise a ridere anche lei e alla fine risi anch’io.

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Obi era ancora a letto malato, quando entrò di corsa nella nostra camera Ihuoma, una donna la cui figlia stava sdraiata in cortile ad inalare uno schifoso miscuglio di spezie e urina che si diceva facesse bene per l’asma. «Arrivano i soldati», disse Ihuoma. Era una donna semplice, un’ambulante, il tipo di donna che non avrebbe avuto niente in comune con la mamma prima del Biafra. Ma ora, lei e la mamma si facevano le trecce a vicenda tutte le settimane. «Presto» disse. «Porta Obi nella veranda esterna, si può nascondere nel tetto!» Ci misi un po’ a capire, anche se la mamma stava già aiutando Obi ad alzarsi, lo portava in fretta fuori dalla stanza. Avevamo sentito dire che i soldati biafrani stavano arruolando ragazzi, o piuttosto bambini, e li portavano al fronte, che la settimana prima l’avevano già fatto nel cortile in fondo alla strada, anche se Obi dubitava che avessero davvero preso un ragazzino di dodici anni. Ci avevano anche detto che la madre del ragazzo era di Abakaliki, dove i genitori dei ragazzi morti in guerra si tagliano i capelli in segno di lutto, e che dopo aver visto portar via suo figlio lei aveva preso un rasoio e si era rasata i capelli a zero
I soldati arrivarono poco dopo che Obi e altri due ragazzi si erano issati in un buco del soffitto, un buco che era apparso dopo che il legno aveva ceduto dopo un bombardamento. Quattro soldati ossuti e con gli occhi stanchi. Chiesi loro se conoscevano Nnamdi, se ne avevano sentito parlare, anche se sapevo che non era possibile. I soldati guardarono dentro la latrina, chiesero alla mamma se era sicura di non nascondere nessuno, perché questo avrebbe fatto di lei una sabotatrice e i sabotatori erano peggio dei nigeriani. La mamma fece loro un sorriso, poi sfoderò la sua vecchia voce, quella che usava quando organizzava cene di tre portate agli amici di papà, e gli offriva l’acqua prima che se ne andassero. Più tardi, Obi disse che si sarebbe arruolato non appena fosse stato meglio. Lo doveva al Biafra e, inoltre, i quindicenni avevano combattuto nella guerra persiana. Prima di uscire dalla stanza, la mamma andò da Obi e gli diede un ceffone così forte che gli comparirono subito i segni sulla guancia.

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Gli Igbo dicono che il pollo si preoccupa davanti alla pentola, ma ignora il coltello.

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La mamma e io eravamo vicine al rifugio quando udimmo l’artiglieria contraerea. «Bel tempismo», scherzò la mamma, ma per quanto mi sforzassi non riuscii neppure a sorridere. Avevo le labbra troppo secche, l’harmattan le aveva trasformate in una fragile crosta insanguinata mentre andavamo al centro di assistenza. E non avevamo neppure avuto fortuna, niente cibo.

Dentro il rifugio, la gente implorava il Signore, Gesù, Dio onnipotente, l’Altissimo. Una donna era accartocciata al mio fianco, con un bambino fra le braccia. Il rifugio era male illuminato ma potevo vedere le croste della tricofizia su tutto il suo corpo. La mamma si guardava intorno. «Dov’è Obi?» chiese, imprendendomi per un braccio. «Che avrà quel ragazzo, non ha sentito i colpi?» La mamma si alzò, dicendo che andava a cercare Obi, tanto i bombardamenti erano ancora lontani. Ma non era così, erano proprio vicini, rumorosi, e cercai di trattenerla, di farla stare ferma, ma ero indebolita per la marcia e per la fame e la mamma mi scansò e si arrampicò fuori.

L’esplosione che seguì mi ruppe qualcosa dentro l’orecchio, e sentii che se avessi inclinato la testa, qualcosa di simile a una cartilagine sarebbe cascata fuori. Udii rumori di cose che crollavano e si spezzavano, pareti di cemento, lucernari di vetro e alberi. Chiusi gli occhi e pensai alla voce di Nnamdi, soltanto alla sua voce, finché il bombardamento finì e mi inerpicai fuori dal rifugio. I corpi sparsi lungo la strada, alcuni penosamente vicini all’ingresso del rifugio, stavano ancora tremando, si contorcevano. Mi ricordavano i polli che il nostro contadino ammazzava a Enugu, come svolazzavano a lungo nella polvere dopo che gli era stato tagliato il collo, prima di crollare finalmente a terra. La danza della dignità, la chiamava Obi.

Urlavo mentre fissavo i corpi, tutte persone che conoscevo, cercando di identificare la mamma e Obi. Ma loro non c’erano. Erano in cortile, la mamma dava una mano a lavare i feriti, Obi scriveva con un dito nella polvere. La mamma non rimproverò Obi per la sua imprudenza, e io non sgridai la mamma per essere scappata fuori in quel modo. Andai in cucina e misi a bagno qualche manioca secca per la cena.

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Obi morì quella notte stessa. O forse la mattina seguente. Non lo so. So solo che quando papà la mattina gli diede uno scossone e poi la mamma gli si buttò addosso, lui non si mosse di un millimetro. Anch’io andai a scuoterlo, diverse volte. Era freddo.

«Nwa m anwugo», disse papà, come se occorresse dirlo ad alta voce per crederci. La mamma tirò fuori l’occorrente per la manicure e cominciò a tagliare le unghie a Obi. «Ma che fai?» chiese papà. Stava piangendo. Non il pianto maschile, un silenzio accompagnato da lacrime. Lui si lamentava, singhiozzava. Lo guardavo, sembrava gonfiarsi davanti ai miei occhi, la stanza era malferma. Avevo qualcosa nel petto, qualcosa di pesante come una tanica piena d’acqua. Cominciai a rotolarmi sul pavimento, per alleviare il peso. Udii un grido provenire da fuori. O era dentro? Era papà? Era papà che diceva nwa m anwugo, nwa m anwugo. Obi era morto. Mi attaccavo a tutto, freneticamente, cercando di ricordare Obi, di ricordare le cose concrete che lo riguardavano. E non ci riuscivo. Il mio fratello piccolo dalla battuta pronta e tuttavia non riuscivo a ricordarne neppure una. Non riuscivo nemmeno a ricordare cos’avesse detto la sera prima. Sentivo che Obi sarebbe stato con me così a lungo che non c’era neppure bisogno di accorgersi della sua presenza. Lui c’era, pensavo, e ci sarebbe sempre stato. Non avevo mai avuto per lui la paura che avevo per Nnamdi, la paura che un giorno avrei dovuto piangere la sua morte. E quindi non sapevo come piangere per Obi, se riuscivo a farlo. I capelli mi prudevano e cominciai a strapparli, sentivo il sangue caldo sul cuoio capelluto, e io ne strappavo via altri, e altri ancora. Coi capelli sparsi sul pavimento, mi strinsi il corpo tra le braccia e guardai la mamma che, con calma, limava le unghie di Obi.

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Ci fu qualcosa di febbrile nei giorni che seguirono la morte di Obi, qualcosa di malarico, qualcosa di così rapido e anestetico da farmi sentire priva di ogni emozione. Anche il funerale di Obi nel cortile sul retro fu rapido, sebbene papà avesse impiegato delle ore a preparare una croce con delle vecchie assi. Dopo che i vicini e padre Damian e i bambini piangenti si furono allontanati, la mamma disse che la croce era malfatta e la buttò giù con un calcio, la spezzò, e scagliò via i pezzi di legno.

Papà smise di andare alla Direzione delle Ricerche Belliche e buttò la cravatta patriottica nel buco della latrina, e giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, ce ne stavamo seduti davanti alla nostra stanza – papà, mamma e io – a fissare il cortile. La mattina in cui la donna che viveva in fondo alla strada si precipitò nel nostro cortile, io non alzai nemmeno gli occhi, fino a quando non la udii gridare. Sventolava un ramoscello verde. Di un verde intenso e brillante. Mi chiesi dove lo avesse preso visto che le piante intorno erano bruciate dal sole dell’harmattan di gennaio, rese spoglie dai venti polverosi. La terra era tutta giallastra.

Abbiamo perso la guerra, disse papà. Ma non importava che lo dicesse, lo sapevamo già. Lo sapevamo da quando era morto Obi. I vicini facevano i bagagli in fretta, per andare nei villaggi più piccoli perché ci avevano detto che i soldati federali arrivavano coi camion carichi di fruste. Cominciammo anche noi a radunare la nostra roba. Mi colpì quanto poco ci fosse rimasto e di come non ci accorgessimo più che avevamo così poco.

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Gli Igbo dicono che quando un uomo cade, è stato il suo dio a spingerlo.

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Al nostro matrimonio Nnamdi mi teneva la mano troppo stretta. Metteva più forza in tutto quello che faceva, adesso, come a compensare l’amputazione del braccio sinistro, come se stesse mascherando la sua vergogna. Papà faceva le foto, dicendomi di sorridere di più, dicendo a Nnamdi di stare dritto. Ma anche papà stava curvo, era così da quando era finita la guerra, da quando la banca gli aveva dato cinquanta sterline nigeriane per tutto il denaro che aveva in Biafra. E aveva perduto la casa-la nostra casa con la scalinata di marmo-perché era stata dichiarata proprietà abbandonata e ora ci viveva un funzionario statale, una donna che aveva minacciato la mamma con un cane feroce quando lei, contro il volere di papà, era andata a vedere la sua amata casa. Voleva soltanto riprendersi la porcellana e il radiogrammofono, aveva detto alla donna. Ma la donna le aveva aizzato il cane.

«Aspetta», la mamma disse a papà, e venne a sistemarmi il cappellino. Mi aveva fatto lei il vestito da sposa e cucito degli strass su un cappellino di seconda mano. Dopo la cerimonia, andammo in un caffé e mentre mangiavamo le paste, papà mi disse della torta nuziale che aveva sognato per me, rosa e con tanti piani, così alta che avrebbe coperto la mia faccia e quella di Nnamdi e che nella foto del taglio della torta si sarebbe visto soltanto il viso del testimone dello sposo, il viso di Obi.

Invidiavo papà, che riusciva a parlare così di Obi. Era l’anno in cui Obi ne avrebbe compiuti diciassette, l’anno in cui in Nigeria si cominciò a guidare a destra e non più a sinistra. Eravamo di nuovo nigeriani.

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Traduzione di Andrea Sirotti

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Anno 1, Numero 6
December 2004

 

 

 

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