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cronaca di un eclisse

yousef wakkas

11 agosto 1999.

Era una giornata afosa. Sprazzi ponderosi strascicavano come serpenti preistorici sul pavimento sudicio: invasione mitologica? Oh no, oh no, non ditelo...non ditelo. Era lo scemo del villaggio, mentre adesso faceva lo scopino. E prima? Rubavo la mia zia. E prima di allora? Oh no, oh no, non ditelo...non ditelo!
In fondo al corridoio, appoggiati indolentemente al termosifone, tre detenuti aspettavano con apprensione mesta lo smistamento del pranzo: pasta al sugo, naselli in umido, verdura lessa. Dieta istruttiva. Ditelo con la forchetta. La padella contro le inferriate. Ora vi spacchiamo le ossa. Quello seduto nel giardinetto, un certo Magnum, per gli amici "semifreddo", rimane indifferente. Continua a contemplare con aria assente le aiuole dove fluttuano timidamente gli steli fragili di basilico e prezzemolo. Si capisce che si stanno annunciando tempi duri: Gabriella non gli scrive da due settimane e ha rimandato i colloqui ordinari a fine agosto. Questi casi, nel nostro gergo, si chiamano eclissi d’amore. Si potrebbe anche osservarli da vicino, senza correre il rischio di procurare danni agli occhi: anche il pianeta carcere ha i suoi fenomeni (in)naturali!

Ore 12.35.

Il fratello sole, in un gioco assai intrigante, si nasconde dietro la sorella luna.
"Anche lassù fanno l’amore!", commenta uno che leggeva il giornale.
"E’ una bestemmia", replica l’altro. Aveva l’aria di chi è stato tradito dal suo paladino.
Rapito dai loro commenti, già da un pezzo avevo smesso di pensare agli uomini di mezza terra che, con lo sguardo rivolto verso il cielo, cercavano di non perdere nemmeno un piccolo dettaglio di quell’approccio celestiale.
"Maledizione! Tutti sono dotati d’occhiali da eclisse, tranne noi", si lamenta davanti alla televisione l’uomo abbandonato dal cielo. Forse invidiava quelli che s’affacciavano dalla finestra con gli occhi coperti di pezzi di plastica nera strappati al sacchetto d’immondizia.
"Sole nero! Sole nero!", gridavano come bambini gioiosi.
"Come fanno a provare questa sensazione? Non sanno che siamo in carcere?".
"Ma che razza di ragionamento è questo? Vieni che facciamo una partita a tressette e t’insegno io come si deve ragionare!".
"Minchiate stai dicendo, minchiate! Io ti batto anche ad occhi chiusi!".
Si va avanti così, urlando, bestemmiando, e soprattutto pensando ai tempi perduti dietro le sbarre, mentre il diario lasciato sul cuscino è gonfio di nostalgia.
"E tu, che fai?".
"Niente. E’ un gioco di parole. A volte, viaggio come un treno, e spesso mi sento come se quelle parole fossero delle lamette che m’incidono la pelle, mi lacerano il cuore".
Mi procedo a passi lenti. Avevo l’intenzione di prendermela con il primo che mi capitava. Non ero ancora sicuro di poter continuare con lo stesso ritmo di prima, ma ormai il tempo scadeva e il cielo era quasi scuro.
All’improvviso, si risveglia in me lo spirito del guerriero abbattuto. "E’ la marcia del dolore", mi dicono le sentinelle barricate dietro la porta blindata. Smentivano. Quella non era la loro voce. Fossero tre passi o meno, non importa. Una cosa era certa: il lamento sfociava in lacrime. Gocce di pioggia umana inondavano la superficie gelida delle gote. Il ricordo si faceva sempre più intenso. "Si sta, come d’autunno, sugli alberi, le foglie".(1)
Siamo diventati delle belve pericolose. E’ da un’ora che il telegiornale sta raccontando la nostra "epopea": crimini ovunque e donne anziane che piagnucolano la borsa scippata. Crimini che si ripetono tutti i giorni, sembra che quel ruolo sia assegnato a loro con un contratto inderogabile.
"Colpa loro, non dovevano fare la passeggiate serali nel giardino comunale!". Nessuno risponde a quel commento acido. Certuni erano addirittura delusi del pranzo: novanta grammi di pasta a testa. Sicuramente si mangia meglio nelle carceri indiane! Uno di loro s’improvvisa cantastorie: "Sui miei lembi di celeste, Su lo stagno sole sfatto, E sul lago luna vive, Scrivo il tuo nome, Libertà".(2)
Alle radici del nostro tempo c’è il sole, ma anche la libertà. C’è anche tutta una serie di reati commessi a buon mercato, dirà il mio compagno di cella. Sette rapine e un furto, poi, vi s’applicano il cumulo e il gioco è fatto. Non si parla più d’eclisse.
"Lascia che si fottano finché vogliono, a noi non importa un fico!".
Avrei giurato che parlava come gli astrologi, ma all’ultimo minuto, mi accorgo che era giunto il momento per recitare una preghiera e preparare l’anima per l’acquisizione di nuovi valori. Dentro di me, germogliavano altri versi. Non saprei dire se essi volessero esaltare l’uomo o la sua libertà. In quel momento, sentivo soltanto il desiderio di dare sfogo ai miei tormenti. L’essere solo mi disturbava più del solito. Poi, ora che non c’era il sole, mi sentivo totalmente smarrito. Tutti eravamo prigionieri di quella luce invisibile.
Avanza pure sul mio corpo: ora il ricordo ha il tuo aspetto, e sopra di te regna la morte. Non mi rassegno. Per forza di cose, devo imparare a vivere. Mangerei d’amministrazione, mi vestirei d’amministrazione e sognerei d’amministrazione, non potete negarmi questo diritto. Ho letto la Costituzione alla luce di lumi, e lo farò sotto la luce oscurata di Dio. E non fatemi uscire, perché là fuori piove da secoli, ed io non ho il coraggio di affrontare quelle maledette gocce d’acqua. Io e lei, eravamo rimasti a metà strada. In verità, lo ero stato soltanto io, perché lei se n’era andata da molto tempo. Praticamente, quella sgualdrina mi ha mollato. In tutto ciò, non vedevo altro che la mia solitudine. Decido di "evadere", volare e magari planare sui paesaggi allucinanti di Van Gogh. Ma quanta fatica!
Dall’alto, ora vedevo il riverbero del sole scuro ballare su quei visi che tendevano ad essere allegri. Parevano emulare la lucidità delle pareti appena verniciate, la malinconia stesa sull’erba calpestata dai passi gravi. Adesso, tutti si dirigevano verso la sala di ricreazione per assistere alla messa, perché Dio ci desse più luce. All’interno, c’era più bagliore che all’esterno. Lode a Te Signore. I nostri canti sfociano in nugoli di protoni e neutroni.
Si aprivano nuovi orizzonti, e i tempi delle lamentele sembravano tramontare. Un senso di smarrimento avvolgeva gli incatenati, ognuno dentro il suo guscio, contemplava gli echi confusi che pervenivano dagli abissi dell’anima. Le voci delle vittime incominciano a farsi sentire, ma anche quelle degli aggressori, e insieme, formano un inno per glorificare l’esistenza agonizzante. Fate coraggio, vince il bene! E’ la prima volta in cui ammettono una colpa collettiva. Il resto è puro moralismo, euforia intima del peccato originale, ma ciò che non si capisce, perché proprio un serpente? Non sarebbe stato meglio una lucertola innocua? Serpente portatore del male! Che tutta la nostra colpa ricada su di lui. Amen.
L’uomo incatenato continua ad osservare il sole tramite il fondo di una bottiglia annerita di fuliggine. Dice d’aver visto qualcosa, le nostre menti si fermano all’improvviso sull’immagine della Vergine Maria. Ma il suo racconto, tocca nervi fin troppo scoperti. Silenzio.
Ecco, le cose non stanno così: prima la pena, poi, l’uomo. Lo precisa il certificato di detenzione nella clausola additiva, un codice rosso che, soltanto su richiesta dell’internato, viene annotato a piè di pagina, quasi invisibile. Nemmeno il progresso della cultura, dai tempi dei sumeri fino alla dichiarazione aperta dei diritti dell’uomo, era riuscito a delimitare l’influenza degli elementi eversivi sul percorso della storia. Che fossero così numerosi, non l’immaginava neanche Emily Dickinson: "Se potrò impedire a un cuore di spezzarsi, non avrò vissuto invano!". Dunque, il vero promotore era la nostalgia, e il sole violato nella sua intimità, pareva tendesse a disorientare i nostri sentimenti.
Fu Ulisse a risvegliare quell’istinto selvaggio, a remare giorni e giorni per andare contro il suo destino, vedere la morte, assaggiare l’acqua salmastra di tutti i mari, per poi, ritornare a casa per rivendicare la sua fiducia tradita da parte degli amici intimi. A volte, anche la sorte, d’altronde come l’eclisse, deve compiere il suo ciclo naturale. Sovente ci spaventa: dal centro del cosmo, Copernico ci ha spostato alla sua periferia, ma a quanto pare, non è finita qui, tutti promettono un silenzio più durevole. Noi ascolteremo e le stelle diranno:
Sotto l’azzurro fitto
del cielo qualche uccello di mare se ne va;
né sosta mai: ché su tutte le cose pare sia scritto:
"Più in là". (3)

Non è la morte che conta in quel groviglio di tenebre, l’insieme di memorie stagnanti, di corpi che camminano cercando di regalare un momento solenne della loro vita al sole morente, il sole nero che ora risuscitava come il corpo di Cristo. Due minuti eterni che raccontano la nostra storia durante il lungo viaggio tra i meandri del mistero. L’uomo che guardava terrorizzato il cielo, vive ancora dentro di noi, portiamo fedelmente i suoi geni, e ogni volta in cui sentiamo i rintocchi delle campane, ci vergogniamo di noi stessi. Che tempo fa laggiù? Sembra sentire ancora le sue risate dementi.
Sempre più in là, subito dopo la fine! Ma sono forse gli stessi uomini che conosciamo da tempi immemorabili, questi che minacciavano di tagliarsi le vene, di fare lo sciopero della fame, di versare lacrime di pentimento, di chiedere pietà? Mancava poco al telegiornale del 13.30. Tutti in silenzio, aspettavano un evento straordinario, ma stranamente, pare che nessuno pensasse più alle profezie di Nostradamus, né ai commenti dei fedeli più zelanti. Il mondo avrebbe continuato chissà per quanto altro tempo, e noi avremmo potuto scontare le nostre pene in pace nel purgatorio sociale. Se esso avesse avuto qualche affinità con quello di Dante, non avremmo sofferto così tanto! La leggenda che prosegue come un treno affannato, e i sogni andati in sfacelo tornano ad imporre il tempo del dramma volutamente ibrido. La prima data indicava il declino morale, mentre quella stampata in basso, accanto al timbro ufficiale, ci informava che la fine pena sarebbe terminata nell’anno di grazia 2015, data in cui l’uomo sarebbe riuscito a sbarcare su Marte. Lì, avrebbe potuto abbronzarsi a piacere e si sarebbero stabilite nuove regole per continuare il gioco da sempre. La prima e l’ultima scena descritta dell’assistente volontaria, era pressappoco come la seguente:
"Poiché tutti gli iscritti al corso di aritmetica sono assenti, ciò nonostante il preavviso del giorno prima esposto sulla bacheca della summenzionata sezione, sezione A2 per intenderci, egli, e non menziono il suo nome per motivi ovvi, spuntò dal nulla, tenendo in mano un vassoio con due bicchieri di tè. Lo conoscevo già da parecchio tempo, praticamente dal primo giorno in cui l’avevano trasferito da questi parti. Mi spaventavano le sue storie, e quando parlava di lei, gonfiava il petto come un tacchino, e nell’ammirare la sua fotografia, scattata su uno scoglio solitario, diceva che era rimasta lì, monumento all’amore eterno. E se non veniva al colloquio, un motivo ci doveva essere. Poteva essere senza grana, ammalata, o aveva degli impegni con la zia. Ma io me ne frego di tutto ciò, doveva venire, punto e basta. Parlava a dirotto, fissandomi negli occhi, e ogni qualvolta s’accorgeva che mi stavo apprestando per dire qualcosa, portava l’indice sulle labbra e m’invitava a stare zitta. Oh no, oh no, non ditelo, non ditelo! Mi supplicava. Ma quando gli gridai in faccia: ma se lo sanno tutti?! Egli chinò la testa, e sfregandosi le mani tra le cosce, bisbigliò: non si sa, potrebbe anche venire. Sì, l’ho uccisa io, ma questo è accaduto molto...molto tempo fa, prima che s’inventassero le eclissi!".

(1)Giuseppe Ungaretti, L’allegria – Mondadori.

(2)Paul Eluard, La resistenza della letteratura – La Base.

(3)Eugenio Montale, Ossi di seppia – Mondadori.

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Anno 1, Numero 6
December 2004

 

 

 

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