Gli interventi che seguono sono stati raccolti il 27 marzo 2004 alla libreria Fnac di Milano, in occasione della presentazione della trilogia Sangue al sole dello scrittore somalo Nuruddin Farah, introdotto al pubblico da Itala Vivan.
Itala Vivan
La prima trilogia di Nuruddin Farah è composta dai tre
romanzi Latte agrodolce, Sardine, Chiuditi sesamo, editi tra gli anni
ottanta e l’inizio degli anni novanta dalle Edizioni Lavoro, quando dirigevo la
serie “Il lato dell’ombra” dei narratori africani e caraibici. Poi è uscita la
seconda grande trilogia edita da Frassinelli, Sangue al sole, con i tre
romanzi Doni, Segreti e Mappe – l'ultimo di essi è dell’anno scorso.
Aspettiamo che la nostra brava traduttrice, Silvia Fornasiero, traduca il nuovo
romanzo di Farah che si intitola nella edizione originale Links,
pubblicato sia in Sudafrica che, in edizione diversa, negli Stati Uniti. Io non
parlerò a lungo, perché vorrei lasciare che fosse Nuruddin a parlare al
pubblico.
Vorrei però ricordarvi che, non tanto in questa ultima trilogia
quanto nella precedente, è molto vivo il ricordo del rapporto con l’Italia, così
come la presenza di elementi italiani attraverso la visione della Somalia già
colonia italiana. Queste tracce negli ultimi romanzi si sono attenuate fin quasi
a scomparire. Il territorio della narrativa di Nuruddin è sempre la Somalia,
sebbene lui sia esule dal suo paese sin dall’epoca della dittatura, senza che
sia più ritornato a vivere in Somalia. La Somalia viene vista da angolazioni
molto diverse, molto inedite, ed è assurta a microcosmo del mondo intero pur
essendo, da un punto di vista identitario, così fortemente caratterizzata con il
mondo somalo e con la sua cultura specifica.
Quelli di Nuruddin Farah sono
romanzi di grande bellezza, su cui c’è molto da riflettere. C’è da riflettere
sulla funzione della famiglia, dell’organizzazione dei lignaggi, su che cos’è la
vecchiaia, che cos’è il rapporto tra i vecchi e i giovani e tra le generazioni.
Si indaga il rapporto che la vita religiosa ha con il resto del mondo, fino a
toccare poi l’universo che tutti noi condividiamo, quello degli affetti
familiari, della vita sessuale, del rapporto tra padri e figli, e quello con il
territorio. Per esempio Mappe — che è più fresco nella mia memoria
perché uscito da poco — è un libro in cui si pone sotto inchiesta la divisione
e la rappresentazione geografica, mettendone in discussione la veridicità, il
senso di rappresentatività, intendendola come l’antica mappa nata dalla
conquista e dall’occupazione dei territori. Oltre a questi interessi e temi che
Nuruddin presenta, c’è sempre, dentro ogni romanzo, il senso profondo del
vivere, il problema della vita e della morte, le problematiche caratteristiche
delle età della vita ... che cosa significhi essere un bambino, diventare
adulto, essere vecchio o vecchissimo, essere un patriarca come il protagonista
di Chiuditi sesamo ed essere quindi al centro di una rete immensa di
famiglie e di rapporti che fanno capo a lui e che lui guarda un po’ dall’altra
parte dello spettro.
Sono quindi elementi narrativi e di pensiero a noi
molto vicini, perché comuni a tutti gli esseri umani, anche se sempre calati in
questa fortissima caratterizzazione identitaria somala che continua attraverso i
romanzi. L’ultimo romanzo, Links, che ancora non è comparso in italiano,
ci trasporta proprio nell’inizio della guerra civile. Mappe ci porta alle
soglie di essa, e così anche Doni, romanzo che io amo particolarmente,
che ha come tema l’amore come dono e, allo stesso tempo, il senso del dono sotto
tutti i profili, quello politico, antropologico e naturalmente inteso
all’interno del sistema coloniale e post-coloniale. Mi riservo di dire
qualcos’altro nel corso del dibattito, lascio la parola a Nuruddin.
Nuruddin Farah
Buonasera a tutti. E’ un vero piacere per me essere
a Milano, e vorrei poter dire che è mio piacere essere tra voi dopo molto tempo:
ma in realtà sono stato qui l’ultima volta solo pochi mesi fa e da allora sono
stato in giro parecchio, per cui mi perdonerete se darò nomi sbagliati a cose e
a persone sbagliate, circostanza dovuta al mio essere perennemente in viaggio.
È sempre una grandissima gioia ritrovarsi di fronte a degli amici dopo tanti
anni. Il problema è che questa situazione, che ha un aspetto positivo da un
lato, dall’altro mi nega la possibilità di re-inventarmi ogni volta, perché,
qualora dessi di me un’immagine diversa alle persone che mi ascoltano, i miei
amici potrebbero utilizzare questa strategia contro di me e rinfacciarmi poi in
privato di aver mentito!
Mentre sentivo parlare Itala, mi sono venute in mente principalmente tre
cose: la prima — non so come mai, dato che non sono affatto affamato avendo
appena mangiato — è il cucinare e il mangiare.
La ragione deriva dal fatto
che Itala stava parlando di libri che si pensa io abbia scritto, e il nesso
deriva dal fatto che quando una persona cucina è anche l’ultima che mangerà le
stesse cose che ha cucinato: così come per me, in senso traslato, essendo lo
scrittore, è difficile immaginare di parlare dei miei libri, di leggerli o
addirittura di scriverne. In questo senso io sono come la persona che rimane
tutto il tempo in cucina a preparare del cibo che probabilmente non mangerà, per
persone che non conosce: sono insomma una persona che cucina per un banchetto
che avrà luogo in sua assenza.
La ragione è che quando le persone leggono un
mio libro non lo fanno come di solito si guarda un film al cinema, seduti l’uno
accanto all’altro, mangiando popcorn, stringendo le mani della fidanzata; ma lo
fanno in solitudine, nel proprio letto con il proprio marito, moglie o
fidanzato, e in quel momento a loro potrà venire in mente di proporre una pagina
aperta a caso del romanzo e magari la risposta del partner sarà: “Non parlarmi
di queste cose perché sto pensando a tutt’altro.” ...
Ecco, sono molte le
cose che mi sono venute in mente mentre Itala parlava.
Stavo anche pensando anche allo scrivere e al leggere, ma non alla scrittura
e alla lettura in senso stretto. Io sono nato all’interno di una tradizione
orale, dove le persone compongono poemi oralmente, ascoltano molte storie, dove
la gente si riunisce in gruppo e discute in continuazione.
Mia madre, per
esempio, era una poetessa, anche se non è mai diventata una grande poetessa,
perché ha impiegato la vita intera a crescere i suoi dodici figli: quindi forse
essere madre era il suo modo di fare poesia.
Apro una parentesi sul tema dell’identità di genere. Supponiamo che un uomo e
una donna della stessa età, e con il medesimo background culturale e
sociale, inizino a scrivere nel medesimo momento. Assisteremo a un’accelerazione
della notorietà e della posizione dell’uomo, perché la distribuzione del tempo e
dello spazio nella vita della donna è fortemente condizionata dalla nascita dei
figli e dal tempo dedicato alla necessità di occuparsi dei bambini. L’uomo avrà
più tempo per scrivere e per leggere: io sono un uomo quindi sono uno di questi
privilegiati.
Ritornando sempre al tema del leggere e dello scrivere, è
risaputo che le donne leggono più degli uomini. A casa ho un esempio lampante:
mia figlia, che ha dieci anni, quando inizia un libro di oltre cento pagine alle
sette di sera, non vuole più andare a dormire finché non lo ha finito; mentre
mio figlio quando gli si dice di leggere un libro, legge due pagine e poi si
addormenta, il che è tipicamente maschile! Eppure l’uomo ha fisicamente molta
più disponibilità di tempo.
Ad un certo momento mio figlio guadagnerà tempo
e raggiungerà lo stesso livello di lettura di mia figlia. La lettura e la
scrittura costituiscono una pratica molto importante all’interno dell’intera
famiglia, per il marito, la moglie e i figli, ma come ho detto questa era una
parentesi che ora chiudo.
Quando sono nato non appartenevo a questo tipo di famiglia.
Sono nato in
una famiglia in cui mio padre e mia madre erano semi-analfabeti: mia madre era
una poetessa, mio padre non era assolutamente interessato a questo genere di
cose, era più interessato a fare soldi e si è impegnato a farci studiare, non
perché voleva che io diventassi uno scrittore o un professore universitario, ma
perché fossi in grado di leggere il Corano ed interpretarlo. Sono stato mandato
alla scuola coranica all’età di quattro anni, strappandomi dalle braccia di mia
madre a cui ero molto legato, cosa che ho vissuto come uno “svezzamento”
forzato, affinché imparassi la tradizione coranica e diventassi poi un impiegato
del governo.
Cosa accadde quando avevo circa nove anni? A nove anni compresi il potere
della scrittura. Ciò che accadde fu che, siccome ero un bambino instancabile,
dovevo sempre trovare qualcosa con cui occupare il mio tempo e inoltre avevo
bisogno di guadagnare qualche soldo, perché mio padre non me ne dava mai,
preferiva darli ai miei fratelli che, al contrario di me, lo ascoltavano.
Divenni così uno scrittore di lettere: scrivevo lettere per le persone,
soprattutto adulte, persone che non sapevano scrivere; e leggevo anche le
lettere per loro, avendo così accesso a molti segreti degli adulti prima di
avere dieci anni.
Fu così che rimasi coinvolto in una storia che cambiò la
mia vita. Uno degli uomini a cui io scrivevo e leggevo le lettere era un uomo
anziano proveniente da un’altra città e mi chiese di scrivergliene una.
Guadagnavo pochi scellini con questi lavoretti che mi servivano per comprare,
per esempio, un pallone o cose di questo genere.
Quel giorno scrissi per
quell’uomo una lettera destinata a sua moglie. Le diceva con un tono di voce
molto arrabbiato: “Se non tornerai e ti comporterai come si dovrebbe comportare
una brava moglie, verrò da te nel luogo in cui ti trovi, ti picchierò e romperò
ad una ad una tutte le ossa del tuo corpo”.
Quello che scrissi fu molto
diverso. Scrissi infatti: “Se non tornerai entro tre mesi sarai ripudiata”.
La donna ricevette la lettera e la portò a qualcuno che gliela leggesse.
Quando udì che se non fosse tornata entro tre mesi sarebbe stata ripudiata,
aspettò un anno, dopo di che andò dal magistrato del luogo, gli mostrò la
lettera e divenne una donna divorziata e libera.
Il marito, dal quale io
avevo fatto divorziare la moglie, venne in città dopo un anno e mezzo e scoprì
che la donna si era sposata con un altro uomo. Si recò dal giudice locale il
quale gli disse che sua moglie si era presentata con una lettera scritta in
eccellente arabo, che lui stesso aveva letto dichiarandola successivamente
divorziata. Si supponeva quindi che fosse il marito stesso l’autore della
lettera. Le parole scritte, soprattutto se scritte in arabo, sono parole sacre.
L’uomo tornò, parlò con mio padre, mio padre mi chiamò e io dissi che non mi
ricordavo di aver fatto una cosa del genere, che dovevo aver scritto quello che
l’uomo mi aveva detto, perché non sarei mai stato capace di fare una cosa del
genere. È facile immaginare che da quel momento in poi perdetti la mia fonte di
paghette settimanali.
In seguito, siccome non avevo più la mia fonte di reddito e continuavo ad
essere instancabile, mio fratello maggiore ebbe un’idea per tenermi occupato,
dato che a casa la preoccupazione principale era che fossi impegnato al mio
ritorno dalla scuola! Una delle cose che fece mio fratello fu quella di darmi il
libro più grande che potesse trovare dicendomi che se lo leggevo e gliene
raccontavo il contenuto mi avrebbe dato qualche soldo. Era disposto a dividere
con me la sua paghetta settimanale se gli raccontavo le storie che leggevo. Fu
in questo modo che cominciai a leggere molti libri, come le Mille e una
notte ... ogni libro che si riusciva a trovare, poiché era molto difficile
trovarne nella città dove siamo cresciuti, Kallafo, una piccola città
dell’Etiopia.
Divenni anche un distruttore di libri, perché ciò che
cominciai a fare, soprattutto con le Mille e una notte in cui un
personaggio si chiamava Nuruddin, fu di ritagliare il mio nome ogni volta che lo
trovavo in un testo, per poi incollarlo sui miei quaderni dicendo che ero uno
scrittore, dato che il mio nome compariva sulla copertina!
Tutto questo naturalmente era un gioco, infatti non mi era mai capitato di
incontrare uno scrittore. Quando raggiunsi l’età di sedici anni cominciai a
cambiare i nomi dei personaggi sui testi scolastici, assegnando ai buoni i nomi
delle persone che amavo e ai cattivi quelli delle persone che non mi piacevano :
così fu che cominciai a prendere una posizione nei confronti delle storie.
Ricordate? Vi ho raccontato che all’età di nove anni decisi che un uomo si
comportava scorrettamente nei confronti di una donna e feci quello che potevo a
dispetto dei rischi, questa volta decisi che avrei scritto una storia sul male e
sul bene e che avrei assegnato tutti i ruoli cattivi alle persone cattive e i
ruoli buoni ai miei amici.
Potrei continuare a lungo o, come dice un
proverbio somalo, fino a quando le mucche tornano a casa: preferisco però
abbreviare dicendo che divenni uno scrittore quando fui ricoverato in ospedale
per un’operazione di poco conto e scrissi un racconto intitolato Why dead so
soon?, la storia di un uomo che muore giovane, poiché pensavo di non
sopravvivere all’operazione. La storia però non aveva nulla a che vedere con me!
Da quel primo testo la mia vita divenne più difficile, perché da quel
momento, le persone mi attribuirono il ruolo di scrittore: tutti si aspettavano
che scrivessi storie, camminavo per strada e mi chiedevano quando avrei scritto
la prossima. Tuttavia io non mi ero mai considerato seriamente uno scrittore
fino a quel momento, occasione in cui scrissi la mia prima storia in inglese.
Spiegherò dunque come fu che iniziai a scrivere in inglese.
La prima
ragione è che il somalo, la mia lingua madre, è una lingua non scritta. Parlo
del 1965, anno in cui il somalo non era ancora una lingua scritta. In secondo
luogo ho scelto l’inglese tra le altre lingue (avrei potuto scegliere l’arabo o
l’italiano), perché fu la lingua in cui ricevetti la mia istruzione, oltre ad
essere la lingua nella quale abitualmente leggevo. Tuttavia pensavo che la
scelta della lingua inglese sarebbe stata una scelta temporanea, ma è accaduto
proprio come accade nel matrimonio: si dice così quando ci si sposa, ma poi si
scopre che non è mai temporaneo.
Successivamente, nel marzo del 1973, ho
scritto un romanzo in somalo, quando è diventato una lingua scritta. La mia
produzione era ancora discontinua, in quel momento non volevo ancora diventare
uno scrittore, avevo appena lasciato l’Inghilterra dove avevo studiato teatro,
quindi il mio desiderio era quello di tornare in patria per continuare a fare
teatro. Mentre mi trovavo a Roma, mio fratello mi chiamò per dirmi che non sarei
più potuto tornare. Ero un disoccupato, un africano che abitava in Italia: fu
quello il momento in cui sono diventato uno scrittore, per il semplice fatto che
non sapevo fare altri lavori! Sono quindi diventato uno scrittore non per
convinzione, ma per conservare la mia sanità mentale ...
Itala Vivan
Nuruddin racconta sempre molte storie, quindi non gli
credete! Io penso che invece sia uno scrittore molto costruito come tale, anche
se è indubbio il trauma dell’esilio, del momento in cui gli è stato
sconsigliato di tornare per aver pubblicato dei romanzi che avevano suscitato
scalpore, nei quali aveva preso posizione contro il dittatore Siad Barre (che
aveva peraltro deciso la trascrizione della lingua somala nel 1972).
Indubbiamente l’esilio ha fatto scattare un meccanismo molto complesso di
costruzione del sé e ha segnato il suo futuro ... decidendo forse la
fabbricazione di un nuovo territorio, il territorio della scrittura. È anche
questo un fenomeno classico dell’esilio, la risposta all’esilio è appunto quella
che porta alla costruzione di una casa e di una patria nella propria
immaginazione, nel mondo delle idee, nel mondo della rappresentazione
dell’immaginario, una volta che si è persa la propria casa, la propria patria.
Indubbiamente qui c’è una storia vera, una storia autentica ma Nuruddin è uno
scrittore che si è molto auto-fabbricato, non è uno scrittore nato per caso. Il
fatto stesso che sin da bambino facesse il letter writer è abbastanza
sintomatico anche se Nuruddin ce l’ha raccontato con questo episodio molto
etico, centrato sulla sua interpretazione della giustizia. Un bambino che
interpreta la giustizia e FA giustizia, in quanto ritiene che il mondo sia
ingiusto e per questo decide di intervenire nel mondo degli adulti.
In un
altro senso c’è una continuità, perché anche lo stesso scrittore fa giustizia.
Quando in seguito Nuruddin ha preso un’altra storia affidando i ruoli buoni a
quelli che gli erano simpatici e i ruoli cattivi a quelli che gli erano
antipatici, anche lì ha fatto giustizia, a modo suo. Lo scrittore fa giustizia
perché lo scrittore rappresenta, crea un mondo in cui, in un certo senso,
interpreta il giusto e l’ingiusto e dà dei ruoli giusti e ingiusti che poi il
lettore deve interpretare e ravvivare attraverso la lettura. Nuruddin ci ha ben
illustrato con questa bellissima introduzione la radice della sua scrittura
nella sua infanzia, indagando il suo rapporto con la scrittura ma anche con la
lettura. Una lettura e una scrittura che poi sono diventate un mestiere,
un’abitudine connaturata e una passione.