Nota biografica | Versione lettura |
Quanta importanza ha il nome dell’autore sulla copertina di un libro? È
possibile esserne influenzati nella lettura? In un illuminante saggio dal titolo
Seuils, Genette ha sottolineato l’importanza del paratesto in tutte le
sue forme, a partire dalla dedica, dalla prefazione, e naturalmente dal nome
dell’autore.
Cosa succede dunque quando l’autore si serve di uno pseudonimo?
Assumere un’altra identità è un gioco letterario che coinvolge la creatività
dell’autore nei suoi fondamenti più radicati. Tuttavia, non si può prescindere
dalle dinamiche di mercato e dalle strategie editoriali. Ancor più quando ad
assumere lo pseudonimo di un giovane “beur” (verlan della parola “arabe”)
è un giornalista del quotidiano Libération, Jack-Alain Léger, già reduce
dalla pubblicazione di qualche romanzo di esiguo successo. Successo che l’ha
invece travolto con la pubblicazione del primo romanzo scritto nei panni di Paul
Smaïl, Vivre me tue (1997), successo editoriale e mediatico tanto da
essere portato sul grande schermo.
Le caratteristiche intrinseche della
“maschera” fanno sì che essa non aderisca mai perfettamente al volto, lasciando
intravedere uno spazio rivelatore tra verità e finzione. In questo senso, il
caso Paul Smaïl/Jack-Alain Léger è uno dei più interessanti della letteratura
francofona contemporanea. Scegliendo la maschera – e il carattere della
duplicità – sembra che l’autore voglia rifiutare qualsiasi appartenenza,
qualsiasi etichetta, alla ricerca di uno spazio personale, quello che Homi
Bhabha ha definito, riferendosi alla post-colonial literature, “il terzo
spazio”. I romanzi di Smail si svolgono costantemente sul limen di una
frontiera – geografica, linguistica, letteraria – decretandone allo stesso tempo
il rifiuto. Ciò che sorge agli occhi del lettore è un’identità
entre-deux, la volontà di restare in un luogo/non-luogo, punto di
passaggio, come lo stretto di Gibilterra, elemento chiave nel romanzo La
passion selon moi (1999). La volontà di non-appartenenza si traduce a
livello stilistico nella mescolanza dei generi letterari, nell’accumulazione di
citazioni, inserti autobiografici, racconti spezzati in una lingua volutamente
frammentaria, caotica. Accumulazioni, ridondanze, riferimenti apparentemente
fuori luogo seguono il filo dei pensieri dell’autore-narratore nella pratica di
un divan – genere orientale “fourretout”– in bilico tra Occidente e
Oriente. Una sorta di diario intimo che non ha un referente preciso, se non lo
stesso autore, che non ha un pubblico preciso, se non quello di tutti coloro che
vogliono leggerlo.
Per quel che riguarda la definizione di “littérature
beure” si potrebbe discutere a lungo sul significato di suddividere e catalogare
gli autori sulla base della loro origine, sul fenomeno di una “banlieue”
problematica che ha generato tale letteratura.
L’immagine della maschera
assunta da Smaïl è tuttavia interessante e meriterebbe qualche riflessione in
più. Si tratterebbe forse di una sorta di protezione dell’autore, dal momento
che nei romanzi, soprattutto, Ali le magnifique, si scatena una vera e
propria accusa all’establishment francese; o, forse, della volontà di
parlare solo attraverso i romanzi, restando al riparo dell’anonimato. Secondo lo
stesso J.-A. Léger, questa strategia gli ha permesso di essere giudicato per ciò
che scrive e non per ciò che è. “Restez romanesque!”, diceva una delle lettere a
lui indirizzate da un’ammiratrice. “Ne vous montrez jamais!”
Tuttavia,
bisogna riconoscere che la scelta dello pseudonimo non è del tutto innocente,
così come non lo è quella di assumere un’identità beure in un universo
editoriale che ricerca il “beur” come il marchio dell’identità
problematica. Il caso letterario di Smaïl rimane emblematico: esso mostra in
modo evidente che le letterature francofone, dopo essere state a lungo
influenzate dal canone occidentale, sono ormai in grado di generare modelli, a
loro volta imitati dall’Occidente.