Sono cronache che hanno il sapore della vita in presa diretta
gli otto racconti di Enzo Barnabą,
Dietro il Sahara. Africa nera tra mondo
magico e modernitą, pubblicati dalla casa editrice ligure
Philobiblon
(1). Essi nascono, infatti, dall'esperienza dell'autore che in Costa
d'Avorio ha svolto la duplice funzione di insegnante all'universitą di Abidjan
e di addetto culturale presso l'ambasciata italiana e che, dunque, puņ offrire
al lettore una reale profusione di sensazioni oggettive - senza dimenticare di
lasciare intravedere silenzi e sensi di vuoto - in un luogo, l'Africa nera, in
cui gli elementi dominanti sono i volti nuovi, le usanze differenti, le parole
dal sapore sconosciuto. Barnabą sa intonare la voce e dare il via a un
susseguirsi di episodi che girano intorno a se stessi sino a diventare una
storia: quella della quotidianitą di persone che vivono in precario equilibrio
tra magia e razionalitą, tradizioni e innovazioni. «Il tarchiato e pingue»
Gnamidjo, indeciso se lasciare la sua attivitą all'aeroporto di Abidjan, perché
iniziato, o rimanere in cittą e ignorare la possibile maledizione del
Poro; l'
ebrič Chantal, seducente diciannovenne che abbandona il
ricco commerciante in
boubou ricamato perché non le ha pagato
l'abbonamento al telefonino; Lilģ,
negretta tutta pepe con gli occhi a
mandorla
che, dopo la scomparsa del padre, crede di essere protetta dal
genio del fiume
, son solo alcuni dei personaggi che popolano queste pagine. Barnabą li osserva
con occhi disincantati ora trascinando i piedi annoiato, ora rimuginando senza
prenderli troppo sul serio, lasciandosi anche coinvolgere in qualche occasione
ma sempre con quel divertito distacco che gli impedisce di perdersi anche se,
magari, lo desidererebbe. Racconto dopo racconto, egli compone cosģ lo
straordinario mosaico di una civiltą che, nel mondo globalizzato, fatica a
sopravvivere e per la quale, con luciditą e ironia, diffida dai luoghi comuni
perché
in Africa l'indomani č illeggibile,
sospeso al filo della precarietą
(come non ricordare il nome di V. S. Naipaul?). Ogni narrazione č un viaggio
per scoprire nuove terre e spazi impensati: spiagge finissime disseminate di
alberi di cocco, fitte selve di palme, nidi costruiti da uccelli tessitori ma
anche piantagioni di caffč e di cacao che
producono valuta pregiata
, moscerini e zanzare. Dettagli, composizioni pittoriche, tonalitą che mettono in
risalto l'umore di ogni luogo, cosģ come č sedimentato nel nostro immaginario o
come lo descrivono il cinema e la letteratura, fanno da eco a un viaggio intimo
ed evocativo che non dimentica la presa di contatto il reale:
Mentre stavo immerso in quell'acqua tiepida ed
apparentemente immacolata, un alito di vento venne a smuovere le foglie
delle palme mettendone in mostra le diverse sfumature di verde che fino
a quel momento erano state come cancellate dall'azzurro denso
dell'aria. Mi venne in mente una frase di Alberto Moravia trovata nella
sua raccolta di articoli sull'Africa che avevo iniziato a leggere da
poco: "Mi dico che chi non ha visto il sole scintillare, abbagliante,
sulle foglie in cima alle palme, nel momento in cui il vento le
rovescia all'indietro, non sa cosa sia la felicitą" (p. 67);
Nel pomeriggio, andiamo a vedere un ponte
di liane costruito ("in una sola notte", tiene a precisare la mia
accompagnatrice) dai geni del fiume che ne curano la manutenzione. Č'
incredibilmente lungo, sospeso su una gola degna della scenografia di
un vecchio film di Tarzan (p. 84).
Una gradevole lettura, dunque, ma anche altro. Come ha
rilevato Piersandro Pallavicini su "Pulp", si tratta di un libro che
"può far compiere un passo verso la conoscenza per tanti italiani (e per
tanti africani in Italia) che la strada della vicendevole comprensione
— per non parlare di quella dell'integrazione — non solo non
l'hanno intrapresa, ma nemmeno sanno da dove parta".