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resistere è creare - miguel benasayag e florence aubenas

sabatino annecchiarico

Resistere è creare - Florence Aubenas e Miguel Benasayag
MC Editrice - Milano 2004
www.mceditrice.it
pp. 120 - 14.00 €

Introduzione in forma di dialogo per l’edizione italiana tra Sabatino Annecchiarico e Miguel Benasayag

Miguel Benasayag e Sabatino Annecchiarico, figli di emigrati europei, nascono in Argentina all’inizio degli anni cinquanta. Filosofo e psicanalista l’uno, giornalista l’altro, militarono negli anni sessanta e settanta in un’organizzazione politico-militare guevarista. Oggi immigrati “di ritorno” in Europa, si conoscono attraverso la linea telefonica che unisce Parigi e Varese, sviluppando questo dialogo in “porteño”, lo spagnolo parlato a Buenos Aires. Un dialogo che entra subito nel merito di questo libro, come se fosse il proseguimento di una conversazione che dura da sempre…

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Estratto.

Sabatino Annecchiarico – Di fronte alla stanchezza e alla frustrazione per le tante sconfitte storiche contro il modello di vita capitalistico, tu proponi un diverso modo di “resistere” in una società capitalistica, fuori dagli schemi della sinistra tradizionale: una forma di resistenza “creativa”, in grado di portare cambiamenti “qui e ora”. La parola “resistenza” ha sempre avuto per noi tutti un senso profondo e forte; qual è oggi il nuovo significato che dai a questa azione?

Miguel Benasayag – Resistere, in questo caso, non ha il significato di resistere a un’occupazione, per esempio la resistenza francese all’occupazione tedesca o quella del popolo argentino alla dittatura militare. La resistenza cui faccio riferimento è piuttosto un modo di vita. Qui la resistenza è una posizione esistenziale, una resistenza precisa in un dato periodo storico. Diciamo che quando si vive un periodo storico delimitato, come un’occupazione straniera o una dittatura, l’obiettivo è chiaro: si finisce di resistere quando i motivi per farlo sono finiti e si ritorna alla vita “normale”, alla vita di prima.
Invece la resistenza al capitalismo, al neoliberismo, così come la resistenza alla tristezza della nostra società, non può essere pensata come una resistenza che preveda uno scontro. In tutti gli scontri del secolo scorso, indipendentemente che si vincesse o si perdesse, abbiamo visto che in nessun caso, nemmeno quando si é vinto, ciò è stato sufficiente per dar vita a qualcosa di nuovo. Sicuramente questa è stata una delle cause del disastro del Novecento: pur con il trionfo di molte rivoluzioni e con la vittoria di molte elezioni da parte della sinistra, non si è mai potuto o semplicemente non si è mai saputo cosa fare perché ci fosse un cambiamento nella società. Si era a quei tempi concentrati sullo scontro e sulla presa del potere. L’idea naturalmente non è quella di abbandonare lo scontro, va oltre, bisogna catturarlo. Però non si può pensare al capitalismo, alla società e alla tristezza attuale solo in termini di scontro senza un’effettiva forma di resistenza immediatamente associata all’idea della creazione del nuovo, qui e ora.

[…]

S.A. – Nell’ambito di questa resistenza che hai appena definito qui e ora, è corretto definirti anticapitalista, nel senso di anti sistema capitalista? E se è così, che significato ha in questo tipo di resistenza essere anti?

M.B. – Penso che sia molto difficile definirsi anti sistema, poiché il sistema è tutto. Il sistema include la propria contestazione. Credo che all’interno di una società esistano zone di resistenza, di creazione, di libertà e zone di oppressione e di morte. Non mi sembra molto proficuo porsi in un modo o nell’altro fuori dalla società o fuori dal sistema. Bisogna pensare in termini più complessi. Per esempio, quali possono essere i canali di emancipazione esistenti dentro il sistema e non personalizzare la cosa; ossia poco importa come uno si sente: se “fuori”, “per” o “contro” il sistema. Mi sembra che bisogna vedere il tutto con un po’ più di obiettività, dicendo quali sono in questo sistema le vie della costruzione, del nuovo, della liberazione. […]

[…]

S.A. – In questo lavoro hai messo a confronto molto bene le differenze tra i movimenti politici contestatori di oggi, “movimenti di contestazione” li chiami, e i movimenti degli anni sessanta e settanta, in cui noi militavamo. Perché nascono questi nuovi movimenti, oggi e in questo preciso momento storico?

M.B. – Ci sono due ordini di spiegazione. Il primo, il più generale, non riguarda solamente la sfera politica. Va oltre, la sfera politica è un sottoinsieme del sapere. Si sa tutto e senza avere mai dubbi, si sa che viviamo in una società in crisi per quello che riguarda l’erosione del soggetto e dell’essere umano, che è il soggetto della storia, si sa che la storia ha un senso, si parla di “teleologia”, di determinismo. Ossia viviamo in un’epoca in cui i grandi paradigmi con cui si pensava l’intera società e la stessa storia sono andati in frantumi. Ed è per questo motivo che nascono, in tutte le attività umane, tentativi di ricerca di produzione e di nuove maniere per agire e per pensare il mondo: in medicina, nell’educazione, nelle stesse relazioni familiari. Viviamo in un’epoca in cui le regole, le cause e i modi di agire sono messi in discussione, perché effettivamente c’è qualcosa lì dentro che non è più come prima: quello che si chiama, in un modo un po’ generalista, “la crisi della visione soggetto”, che in definitiva è la crisi dell’Occidente. Anche il modo di pensare il mondo in politica è in crisi. Ossia l’idea di un soggetto di avanguardia del partito del proletariato che prenda il potere, che modifichi il mondo (un’idea tipica della modernità), oggi non ha più senso, non perché lo abbia deciso qualcuno, bensì perché la storia ha dimostrato che questo tipo di visione aveva un nucleo troppo semplicista e conduceva all’errore. […]
Esiste però un’altra ragione più congiunturale: tutti i movimenti rivoluzionari (i guevaristi per esempio) o alternativi avevano dentro di sé elementi o tendenze molto vicini a questi nuovi meccanismi, ossia l’idea di “contropotere” o di “doppio potere”. Succedeva che questi gruppi o queste tendenze erano sistematicamente schiacciati e disciplinati dalla tendenza maggioritaria di quell’epoca: la tendenza leninista dell’organizzazione della presa del potere. Siccome questa impostazione maggioritaria è fallita, oggi i movimenti dispongono di più spazio ed è per loro più facile esistere.

[…]

S.A. – Parliamo di Europa. I movimenti di contestazione in questo continente si distinguono da quelli delle altre parti del mondo per le parole d’ordine quando scendono per le strade a manifestare. Qui in Europa le bandiere e le parole d’ordine sono quasi esclusivamente per la pace, mentre in America latina sono per la giustizia oppure contro l’imperialismo, pochissime sono per la pace.

M.B. – È vero, in America latina non si è mai vista una manifestazione in cui la bandiera più diffusa fosse quella della pace. Le manifestazioni in America latina contro l’invasione degli Stati Uniti e dei suoi alleati in Iraq sono contro l’imperialismo e non per la pace. In Europa la gente comune è molto immersa nell’immediato, nella vita individuale, nella disoccupazione o nei debiti e nella paura del domani; allo stesso tempo la politica è molto lontana dalla vita reale e concreta di questa gente. Così in Europa le parole d’ordine politiche di ieri non valgono più, mentre quelle del domani non esistono ancora. Per questo motivo nasce, come agglutinante globale, la parola d’ordine della pace che permette alla gente di muoversi comunque con un minimo di consenso. In questo modo, la pace irrompe in una realtà che non ha nulla a che vedere con la pace per la pace ed è così che tutte le manifestazioni in Occidente riflettono un modo di opporsi all’invasione degli Stati Uniti in Iraq più che chiedere la pace in sé. In America latina la situazione non è migliore. Nelle manifestazioni, le bandiere partitiche o identitarie sembrano appartenere a un’epoca già trascorsa, in cui i gruppuscoli non avevano relazione con il paese reale. Mi riferisco ai diversi gruppi trotzkisti, maoisti, comunisti che combattono tra loro senza avere legami con la realtà del paese e la gente. Ci sono poi manifestazioni che sembrano spettacoli circensi e questo piace agli europei…

[…]

S.A. – Esistono in Europa movimenti simili ai piqueteros argentini o ai sem terra brasiliani?

M.B. – Sì, in Francia ci sono i sans papiers o i “senzatetto” che fanno occupazioni simili a quelle dei movimenti latinoamericani. Esistono numerosi gruppi minoritari nei quartieri e associazioni molto radicate in ambito culturale. Una sorta di tessuto sociale alternativo che sta cominciando a formarsi in tutta Europa.

S.A. – …gruppi che agiscono localmente e pensano localmente?

M.B. – Questo tema è stato ed è un problema filosofico e allo stesso tempo pratico: “Pensare dove si pensa la globalizzazione”. Per me la globalizzazione si pensa a livello locale, non a livello globale. I movimenti come Attac sostengono di “agire localmente e pensare globalmente”. Secondo me pensare globalmente significa pensare in termini astratti. Quello che invece bisogna fare è pensare il mondo in ogni quartiere e non uscire dal quartiere per pensare al mondo. Il mondo esiste in ogni quartiere, in ogni troc (la rete di scambi basati sul baratto, N.d.R.), in ogni occupazione…

S.A. – …anche i partiti italiani di sinistra sono soliti dire: “Pensare localmente e agire globalmente”…

M.B. – Questo è un inganno totale, perché se in un quartiere si stanno organizzando occupazioni per persone senza casa, senza università popolari, senza asili per i bambini e se quel quartiere sta vivendo un’esperienza alternativa e si relaziona con altre esperienze alternative comprese quelle di altri paesi, credo che sia da stupidi dire che bisogna pensare la soluzione di questo quartiere con la globalizzazione del sistema mondo. Sicuramente è il contrario: il “sistema mondo” esiste in questo quartiere e in ogni quartiere.

[…]

S.A. – … possiamo affermare che questo sistema sta vivendo una crisi profonda? Oppure si tratta di una falsa crisi e si trova al suo apogeo storico?

M.B. – Entrambe le cose. Da un lato c’è il trionfo totale del neoliberismo e del capitalismo. È un trionfo totale dovuto allo schiacciamento “dell’altro”. Accade però che il neoliberismo ottenga una vittoria di Pirro, in cui chi vince, in realtà perde. Ossia il trionfo totale e definitivo significa anche una specie di autodistruzione. Questo non significa assolutamente che si introduce uno strumento messianico dicendo che il capitalismo cadrà sotto il proprio peso, lasciando spazio al nuovo. Assolutamente no. Forse cadrà e tutti noi con esso, visto che già solo dal punto di vista ecologico la minaccia è seria. […] Il capitalismo porta con sé forze di distruzione troppo grandi, che non potrà risolvere…

S.A. – …e non si esce da questa situazione?

M.B. – Per il momento la realtà non ci indica qualcosa che sia già in grado di superare questa situazione. Nessuno dei tanti movimenti alternativi, molto attivi nel campo della solidarietà e con i loro nuovi tipi di protagonismo, rappresenta per ora un superamento del capitalismo…

S.A. – …nemmeno i sem terra e i piqueteros citati nel libro…

M.B. – Credo che oggi esista una specie di base, in questi movimenti, in cui sembra che le cose si muovano e che siano interessanti, però per il momento nulla ci consente di vedere concretamente la nascita di qualcosa che possa superare il disastro neoliberista. Credo che una parte di questi movimenti, di fronte a questo disastro, stia sviluppando nelle pieghe sane e vitali della società modi di resistenza molto creativi…

[…]

S.A. – Verso la fine del Medioevo, così come riporti nel libro, l’uomo inventò il paradigma del “sapere totale” per dominare il mondo e il futuro: la conoscenza è la strada per la liberazione. Questo paradigma è stato costruito soprattutto in opposizione ai dogmi della Chiesa e lo spieghi molto bene sostenendo che non era contro la fede, contro la pietà, bensì contro un clero divenuto casta politica onnipotente che predicava la dotta ignoranza. Sono passati secoli e questo sapere ha invaso l’Occidente. A questo punto della storia, credi che la società occidentale di oggi abbia superato la dotta ignoranza medievale?

M.B. – Sì, l’ha superata, però con una credenza ancora peggiore. Viviamo in una società che crede nella scienza, nella ragione, viviamo in una società di fede, quella più oscura, viviamo in una società che crede irrazionalmente nella ragione e questo è molto pericoloso…

S.A. – …così pericoloso che può esistere una specie di inquisizione?

M.B. – L’inquisizione non esiste, ciò che esiste è una restaurazione. Dopo gli anni rivoluzionari, dopo gli anni di rottura è arrivata una restaurazione totale che non si arresta.
Quello che dobbiamo cercare di fare è vivere senza pensare alle promesse messianiche, ma piuttosto cercando di capire in quali direzioni si sviluppa il cambiamento, la vita. Il problema è proprio qui: viviamo in una società dell’attesa, sempre aspettando di sapere cosa succederà e cosa no, cosa è possibile e cosa no. In questo senso, cioè senza l’azione qui e ora, l’attesa diventa pericolosa e liberticida: bisogna uscire dalla filosofia e dalla psicologia dell’attesa. Tutto dipenderà esattamente da quello che faremo…

Parigi-Varese, aprile 2004

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Anno 1, Numero 5
September 2004

 

 

 

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