La recente pubblicazione di Autobiografie non vissute prosegue
l'opera poetica di Mia Lecomte aggiungendosi alla raccolta di versi dal titolo
Poesie del 1991 e ai testi di Geometrie reversibili del 1996.
È evidente che l'autrice, intrapreso ben presto il proprio lavoro
poetico, lo ha praticato senza soluzione di continuità, pur coltivando
nel contempo altri generi letterari, come il teatro e, a partire da un'epoca
più lontana, la fiaba. Ricorderò, di sfuggita, i libri per
bambini La fiaba infinita e La fiaba impossibile (1987) e le
pièces teatrali L'amore disamato (1989), Brava bambina
(1995) ed Eroici stracci (1996).
Ho voluto ricordare la fiaba e il teatro perché, in Mia Lecomte, è
possibile rintracciare, per quel che riguarda gli interessi letterari, una sorta
di circolarità che le consente di passare, direi in modo trasversale,
dalla fiaba alla poesia e al teatro dando una specifica impronta unitaria alla
sua opera letteraria.
Nel dispiegarsi dei testi raccolti in Autobiografie non vissute è
come se l'autrice lasciasse qua e là, nel bosco-libro, i sassolini-segni
di un percorso che poi tocca al lettore scoprire.
Per esempio, c'è una poesia (quella intitolata "Natali"),
ed è l'unica di tutto il libro con questa connotazione, che ha l'andatura
delle filastrocche e apre uno scorcio di leggerezza apparentemente ludica nell'impianto
drammatico dell'intera sezione ("Litania del perduto") in cui
è collocata. Ma nel volume c'è anche una poesia che già
nel titolo "Fiaba" - la prima della sezione "Replica
a soggetto" - esplicita l'assunzione di un ritmo e di un tono che corteggia,
appunto, il genere fiabesco. D'altra parte, a guardar bene, già il titolo
della sezione in cui è contenuto il testo di "Fiaba"
allude in modo esplicito alla tipologia teatrale, e precisamente a una modalità
della commedia dell'arte. "Replica a soggetto", infatti, sembra
proporre quasi degli "a parte", dei testi-monologhi come riflessioni-risposte
appunto "a soggetto", riferite a situazioni e "scene" diverse.
Detto questo, però, bisogna rilevare che ciò che domina prevalentemente
ogni singolo componimento è l'accento lirico, lasciando sotto traccia,
come una citazione puramente affettiva, il senso del fiabesco o del teatrale.
Rovesciando i termini, potremmo dire che è l'afflato lirico quello che
domina l'intera opera letteraria di Mia Lecomte. È giusto, quindi, insistere
sull'aspetto lirico che informa e vivifica tutti i testi di Autobiografie
non vissute perché quello di Mia Lecomte è un lirismo che
rifugge dagli accenti fortemente sentimentali: è un lirismo contenuto,
controllato, discreto, ma nel contempo morbido, sensuoso, fortemente femminile
o, meglio, femminilmente forte, come qui:
"Puoi annusarmi ora / dietro il collo e l'orecchio / nella facile conca
/ sotto il braccio levato / con cui tengo i capelli / una ciocca è sfuggita
/ tra le scapole appena / si apre piano una crepa / che spartisce il mio corpo
/ in due sponde gemelle / giusto solo un accenno / preso a falce alle reni e
poi / il tratto profondo in cui corre / tutto intorno il mio spazio / una sfera
di odori / che tu segui vicino accompagni / all'altro capo del fiato / riconosci
presto densa di me" (pag. 33).
Dal punto di vista dei contenuti, poi, quello di Mia Lecomte è un lirismo
assorto, riflessivo, pensieroso, quando non dialogico-dialettico, come è
evidente in quest'altro testo, grazie all'uso dei verbi nel modo infinito ("traboccare",
"riversare", "infiltrare", "impregnare", "non
volere", "non sapere"):
"Traboccare insieme / dalla veglia al sonno / dal sonno alla veglia
/ riversare di nuovo / l'appartenenza / e la perdita / allagando e ancora /
essiccando / la porosità dei corpi / dal giorno alla notte / dalla notte
al giorno / infiltrare lo slancio / e l'attesa / il gesto e la posa / affiancati
e distanti / impregnare ogni volta / l'incedere rauco / da parola a silenzio
/ da silenzio a parola / l'addio e il suo rovescio / prosciugati / tra non volere
e sapere / e non sapere e volere. ("Flussi", pag. 45)
Sotto il profilo cronologico, le sezioni del volume appaiono collocate a ritroso.
Si parte dalla serie introduttiva senza titolo, che comprende presumibilmente
gli ultimi scritti, per arrivare a "Litania del perduto" che
risale al 1996-1997, passando attraverso "Metamorfosi engadinesi"
del 2002-2003, "Periodo ipotetico" del 2002 e "Replica
a soggetto" del 2001-2002.
Questo procedere à rebours - impaginazione cronologica non nuova nella
poesia del Novecento - ha sicuramente la propria ragion d'essere in una concezione
attualistica del tempo, in base alla quale il tempo non si annulla ma fonde
in un solo punto anteriorità e posteriorità: "Voglio averti
trasversale nel tempo / ripercorsa tra passato e futuro, / ... / condivisa,
dalla madre alla morte" (pag. 38), scrive Mia Lecomte.
Ciò appare più evidente fin dalla suite introduttiva di Autobiografie
non vissute. I cinque testi che la compongono - folia sine nomine - costituiscono
una sorta di Incipit che apre l'orizzonte poetico e il significato di tutto
il libro.
Dai primi versi, infatti, traspare il senso che Mia Lecomte ha della vita con
un'affermazione perentoria: "Vita è quello che rimane / quando
si è perduto tutto" pag. 11).
Il senso della vita viene fatto reagire con quello della fine inserita nella
dimensione del tempo, in un continuo passaggio dal presente al futuro, inteso
come ipotesi di un rinnovamento, attraverso la constatazione del già
vissuto e il rimpianto del passato: "E allora / di nuovo tutti i tuoi
addii / ad anticipare gli addii / la tua nostalgia del futuro / ad anticipare
il futuro / nato di nuovo / con una vita conclusa / che avevi già vissuto
/ e ricominci ora a rimpiangere" (pag. 15).
Da sottolineare l'accento sul futuro. Difatti, ciò che scatta a ripetizione
è il futuro guardato come anticipazione, come rinascita ("nato di
nuovo") ma anche, rovesciando i termini, come nostalgia, che è sguardo
al passato e suo rimpianto. Pur immaginando il futuro, è l'atto del rimpiangere
ciò che domina il testo, con quella conclusione pacatamente triste: "nato
di nuovo / con una vita conclusa / che avevi già vissuto / e ricominci
ora a rimpiangere".
In questa dimensione temporale, Mia Lecomte si serve di nodi e snodi sintattici
che sembrano avvitare i pensieri su se stessi, facendoli reagire l'un con l'altro
come a darne un senso irraggiungibile, che rimanda sempre ad altro. Una sorta
di criptica descrizione della vita nel suo garbuglio esistenziale, nel suo inesauribile
porsi e riproporsi come un valore irrinunciabile e non del tutto comprensibile.
La seconda sezione - "Metamorfosi engadinesi" - comprende
dieci testi che potremmo definire geomitografici. In qualche modo si riallacciano
al "Breve atlante sentimentale" contenuto in Geometrie reversibili.
L'ambientazione è nel paesaggio dell'Engadina, una regione molto amata
da artisti, filosofi, letterati d'ogni epoca e paese, che spesso ne hanno fatto
il luogo di una vera e propria mitografia personale e hanno così alimentato
l'immaginario collettivo di un turismo particolarmente attento alle sollecitazioni
artistico-culturali.
Riprendendo una formula cara a tanta critica della stagione ermetica, potremmo
altresì parlare del paesaggio engadinese come di un paesaggio dell'anima:
il luogo in cui l'aspetto esterno tende a interiorizzarsi al punto da diventare
emblematico di una situazione esistenziale che supera il dato materiale e tende
a divenire esperienza spirituale. In termini di poetica avviene una sorta di
passaggio da ciò che è evidente a ciò che è segreto,
dal manifesto al nascosto, dal noto all'ignoto, con altre parole dal fisico
al meta-fisico. Nella tensione dalla bellezza materiale alla bellezza spirituale,
anche la parola poetica si adegua a questa situazione, affiorando dal profondo
dell'anima in cerca di una espressione che renda quanto più perspicuo
il senso di quella tensione verso quanto è in grado di appagare lo spirito
e placarne le inquietudini.
Testi dedicati a toponimi come "Julier", "Chasté",
"Margna", "Fex", "Gravesalvas", "Roseg",
"Albula", "Zuoz", "Guarda" e "S-charl"
indicano sicuramente un percorso paesaggistico dai caratteri esteriori ben precisi;
d'altra parte, però, operano una selezione di particolari capaci di passare
da una forma all'altra - e pensiamo al titolo della sezione: "Metamorfosi
engadinesi" - trasferendo le varie suggestioni visive in sensazioni
interiori che poi reclamano, con l'urgenza della parola poetica, un nuovo modo
di vedere e di pensare le cose. Si veda qui, per esempio, come Mia Lecomte riflette
osservando l'Albula:
"Verde, grigia, celeste / sbriciolata sul retro del tacco / viola, bruna
gialla / a raschiare nello snodo in attrito / bianca, nera, bianca / impastata
alla lingua che chiama / rossa, rossa, rossa / più si bagna più
dolora nell'etere, / quel che hai smesso ti precede di un giorno / per pietruzze
rotolate nel vuoto / se ne andavano e le guardavi saltare / i colori sempre
in tono ai colori. / Lo stambecco, il camoscio, la marmotta / il contorno per
tre quarti rupestre / hanno ancora nelle ispide pose / la parvenza del qui nulla
è cambiato / si può illudersi mantenendosi in quota / per compenso
la più anonima meta / un rifugio che non è mai una casa"
(pag. 25).
Le metamorfosi delle quali parla il titolo della sezione consistono essenzialmente
nella trasposizione temporale degli eventi e nella traslocazione delle cose,
degli animali delle persone cui si fa riferimento nei vari testi. Un esempio
- ma non è l'unico, perché numerosi sono i versi in cui si riscontra
la medesima modalità espressiva - possiamo gustarlo nella poesia intitolata
"S-charl", tutta giocata sull'azione o situazione parallela:
"C'è sempre un'altra giornata. / L'orso fermo sulla fontana /
siede quieto da qualche altra parte / lontano dalla fontana. / E c'è
questa fontana e / anche l'altra fontana / col suo orso, più fermo /
e lo stesso, al suo posto, più quieto. / In quest'altra giornata / che
è già un'altra giornata. / Non avremmo più tempo d'altronde
/ per attendere che l'orso ci attenda / non avremmo più tempo, altrimenti"
(pag. 28).
"Periodo ipotetico" si colloca precisamente al centro del percorso poetico di Autobiografie non vissute. Per questo assume un valore particolare nell'economia del libro. I testi, giocati in maniera alterna tra un "tu" e un "io", ricordano con altri modi e forme, la suite dialogica intitolata "Condizionali" compresa in Geometrie reversibili. In "Periodo ipotetico" Mia Lecomte si serve di antenne poetiche capaci di catturare i piccoli-grandi movimenti del sentimento amoroso, rilevato attraverso una minuziosa escursione dei cinque sensi. Qui l'io poetico intreccia un ipotetico dialogo con l'altro da sé. E così dall'offerta di sé a un "tu" quale soggetto dell'alterità ("Puoi guardarmi ora", "Puoi annusarmi ora", "Puoi toccarmi ora", "Puoi prendermi ora") passa, subito dopo, in modo speculare, alla riflessività dell'"io" ("Posso guardarti ora", "Posso annusarti ora", "Posso toccarti ora", "Posso prenderti ora") per giungere infine alla complicità connotata dall'uso della prima persona plurale: "Possiamo tacere ora insieme". Un testo, quest'ultimo, che sembra placarsi nella quiete dell'udito (segnalato dalla ripetizione del verbo "tacere") dopo la tempesta degli altri sensi: "... / possiamo tacere insieme / ancora scanditi dal ritmo / segnati dal tempo segnato, / tacere quotidiani e devoti / battuti in pause più lunghe / che vibrano a perdere / nel cavo dei corpi svuotati, / restare insieme e tacere / il sangue che suona lontano / il resto a portata di mano, che tace" (pag. 39). Ed è altresì un testo nel quale è possibile cogliere i toni della dialettica amorosa che spinge i rapporti umani a intrecciarsi, a offrirsi o a negarsi, catturando le minime sospensioni dell'animo umano. A forte connotazione femminile sono i temi trattati, riconducibili all'eros e ai suoi moti passionali come la gelosia ("Posso prenderti ora / farti entrare al di là di me stessa / nella carne che non è la mia carne / dove albergano insieme le donne / del tuo desiderio incostante / fianco a fianco riunite a introdurti / nel bisogno espropriato di me", pag. 38) o come la carnalità ("... / Ho la bocca, vedi, sorpresa dal gioco / una mano disgiunta a mostrarti / per quale rito la carne / è capace di farsi preghiera...", pag. 31; versi che ricordano il celebre Tappeto da preghiera di carne di Li Yu, racconto erotico cinese pubblicato nel 1657, che "parla di lussuria per frenare la lussuria, parla di sesso per frenare la passione erotica").
Nella sezione "Replica a soggetto" si addensano motivi e situazioni, desideri e sogni diversi. Replica significa risposta ma anche ripetizione. Ciò che attiene al senso della risposta sembra indirettamente rivolto a uno o più interlocutori, anche se questi non appaiono o, per meglio dire, appaiono in controluce o addirittura sono presenti in absentia. Il senso della replica, invece, consiste nella circolarità dei temi che si rintracciano come un fattore costante nell'opera di Mia Lecomte: certi luoghi prediletti (Roma, per esempio), ma soprattutto i figli e gli altri affetti familiari. Il che rende maggiormente significativa la dedica del libro "Alle mie famiglie, tutte", e più precisamente orientativo l'esergo della poetessa polacca Wis=awa Szymborska: "Di tutti gli amori basta quello coniugale e dei bambini solo quelli nati..."
"Litania del perduto" è la sezione più nutrita
di tutto il volume e, soprattutto sotto il profilo formale, sembra proseguire
più da vicino il lavoro di Geometrie reversibili del 1996.
Anzitutto qui si ripropone, se confrontata con quella delle altre sezioni, la
scelta di una versificazione brevilinea, che sembra voler ricalcare molta versificazione
post-ermetica del secondo Novecento, ma che in effetti asseconda l'esigenza
di un'espressività si direbbe fortemente sincopata, inquieta, in qualche
tratto angosciata. Poi colpisce l'unitarietà e la compattezza dei testi
che potrebbero essere a loro volta raggruppati in due sottosezioni sigillate
da una chiusa in forma di preghiera ("Padre, insegnami ad amare").
La prima di esse, con cinque testi compresi tra un "Prologo" e un
"Epilogo", fa riferimento a un poeta assistito, personalmente dall'autrice,
nei suoi ultimi giorni di vita (la dedica recita: "con Dario", che
presumibilmente è Dario Bellezza; e appare notevole la partecipazione
emotiva al caso del noto poeta, segnalata da quel "con": non "a
Dario", ma "con Dario"). La seconda comprende sei testi costituenti
una sorta di commento prolungato alla malattia e alla scomparsa del poeta.
Occorre soffermarsi sul significato di questa sorta di compianto, poiché
s'intravede qui, più che altrove, in quale direzione si muova la concezione
poetica di Mia Lecomte.
La malattia e la morte del poeta, infatti, sembrano qui assurgere a simbolo
ed emblema di un destino poetico per il quale la pietas umana gioca le carte
di una religiosità problematica. Religiosità, questa, assai evidente
in alcuni versi che fanno riferimento all'Incipit del Vangelo di Giovanni, ma
che umanizzano a tal punto la divinità del Verbo - della Parola per eccellenza
- da metterla in rapporto e farla coincidere con la stessa funzione poetica,
ossia con quella funzione in base alla quale la poesia si fa verbo nella carne
dell'uomo. Solo che, al contrario del Verbo divino, il verbo dell'uomo subisce
l'insulto della malattia e della morte e si disfa nella carne. Così scrive
Mia Lecomte: "E il verbo si fece carne / si fece il verbo carne lieve
/ luogo cuore / cavi gli occhi / mani appena / quel riflusso nelle acque. /
E il verbo si disfece nella carne / si disfece il verbo grave / nodo luogo /
occhi mani / acque ferme, amare acque" (pag. 61).
Da notare, tra l'altro, che il titolo di questa poesia - "Scritture"
- è di per sé rivelatore dell'area semantica entro cui tutto il
testo si muove. E, anche qui, il riferimento alle 'scritture' non appartiene
all'ordine della rivelazione divina, ma - umanamente - a quello di un'esperienza
poetica la cui forza vitale - in termini di originalità, autenticità,
ispirazione - deve pagare lo scotto alla morte.
Appare qui, dunque, pur riferendosi analogicamente all'area semantica della
teologia del Verbo, un'interpretazione diremmo laica del far poesia: un'esperienza
della parola che può, sì, attingere alle fonti dell'ispirazione
mistico-religiosa, ma che si rivela, in ultima analisi, carnale, mortale, puramente
umana. Da notare, inoltre, che già in Geometrie reversibili era
presente un analogo accenno al "verbo" e alla "carne": "Dal
verbo / alla carne / saremmo giunti / segni piccoli / e presto / urgenza / dal
ventre / ai vincoli / riaccesi" (pag. 22).
In tutto il libro è rilevabile, del resto, un sottofondo diremmo religioso
o parareligioso grazie a spie linguistiche sparse qua e là quali "croce",
"arca", "rito", "altare", "acquasantiera"
e così via, che meriterebbero una ricognizione specifica.
La preghiera al Padre ("Padre, insegnami ad amare") che chiude
Autobiografie non vissute offre forse il senso più profondo del
titolo del libro nel momento in cui l'orante chiede di essere aiutata ad ascoltare
il lamento della vita non sua, di quella vita che non le appartiene e che avrebbe
potuto moltiplicarsi all'infinito. È giusto, perciò, concludere
con la lettura di questo testo:
"Padre, insegnami ad amare / solo quello che mi è dato da amare
/ un desiderio senza pugni serrati / ma con le dita socchiuse / per fare scorrere
il mondo. / In questo giorno geloso / dammi la forza di avere / senza potere
mai avere / e di perdonare il presente / come se ancora non fosse. / Ricordami
che non sono nessuno / e non sono nulla / e che se credo di vivere / è
perché tu lo credi. / Aiutami ad ascoltare senza tutto il terrore / il
lamento della vita non mia / il silenzio incessante e discreto / del tuo amore
da sempre per sempre" (pag. 67).