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a cura di Tiziana Morosetti
Le opere di Elleke Boehmer non sono purtroppo reperibili in traduzione
italiana, ma solamente nell'originale inglese, che è comunque di grande
apprezzabilità.
Il brano qui pubblicato, drammaticamente incentrato sulle
conseguenze di un attentato terroristico, è tratto dall'ultimo romanzo
dell'autrice, Bloodlines. Nelle pagine che traduciamo, la narrazione si apre
sulla descrizione in dettaglio dei devastanti effetti dell'esplosione di una
bomba, per poi soffermarsi sulla dimensione psicologica di chi seppure
indirettamente è stato coinvolto nell'attentato. Il romanzo nel suo complesso è
però una riflessione più ampia non solo sul tema dell'amicizia, che è al centro
della trama, ma anche sulla generale condizione del Sudafrica nei primi anni
Novanta, che si ricordano come fra i più turbolenti nella lotta contro
l'Apartheid (Mandela prenderà il potere solamente nel 1994). Quest'opera della
Boehmer, lontana dall'essere concepita unicamente come fonte di intrattenimento,
risulta dunque assai utile a chi voglia approfondire - al di là degli studi
accademici sull'argomento- la storia di una delle ex colonie più importanti ed
influenti del panorama africano.
La bomba esplose alle 11.10 del mattino, appena fuori dell’entrata principale
del Right Now Superette, il piccolo supermercato sul lungomare.
Un
bianco, cauterizzante centesimo di secondo. Un fragoroso, improvviso scoppio di
frammenti in assordante caduta, risultato immediato della bomba.
Cornici di
finestre sfondate, schegge di scaffali frantumati su lattine sventrate, spezzati
pacchi di riso, incrinate scatole di avocado e ananassi, calcinacci crollanti di
rotte plastiche, bottiglie, servizi di piatti e porte di frigoriferi, secchielli
e palette azzurri e rossi, ceramiche spaccate, casse lacerate.
Rompendo la
barriera della pelle, il metallo sparato via dalla bomba s’infilò nella carne,
vene tagliate. L’osso sfracellato dalla scheggia. La testa di un uomo fu
strappata dal suo corpo. Sulla lastra del pavimento sotto al bancone dei
dolcetti fai-da-te, tirato giù, i dolcetti sparpagliati scivolavano sul rivo del
suo sangue. Un frantume volante di vetro tagliò via un braccio sinistro dalla
sua spalla. Prima di morire per le gravissime ferite all’addome, la donna provò,
con l’altro braccio, a tenerselo attaccato al lato.
Accadde appena prima
della domenica di Pasqua, un giovedì. Era Pasqua bassa, quest’anno, ma la
stagione era già straordinariamente calda. Folle più consistenti del previsto
avevano guidato per ottocento e più chilometri fino alla costa per godere delle
onde tiepide, della cocente aria del mare, del freddo gelato sciolto giù per il
mento, fino a fargli da buccia. Faceva così caldo che alle dieci del mattino la
sabbia già ti ustionava i piedi, e la pelle bruciava sotto ai vestiti. Lunghe
file di bambini coi loro genitori attendevano al di fuori dell’acquario di South
Clacton, "Il più grande dell’emisfero australe", dotato di aria condizionata, e
dove persino le foche impegnate nei loro numeri sembravano più irritate del
dovuto. Nel centro commerciale e nei bar dell’hotel della spiaggia, arrossate
facce corrugate dal sole si ammucchiavano in cerca di un rifugio e di un pranzo
di buon’ora.
“Sì, va bene, terrorizzati” stava dicendo Robert “ma forse non
intenzionalmente. Dobbiamo ancora prendere in considerazione quell’ipotesi.
Errore o base logica. E’ stato forse forzato il terrorista a fare ciò che ha
fatto? Dobbiamo continuare a mantenere questa prospettiva, stare lontani dal
sentimentalismo. Niente obiettivi civili. Questo è quanto il Movimento ha sempre
sostenuto, e per ora negano la responsabilità. Sono stati fatti arresti ovunque
nel Paese, ma nessuno è stato ancora accusato. L’ultima cosa che potremmo volere
è finire nelle mani di quelli che non vedono l’ora di marchiare quanto è
successo come barbarie pura e semplice e regresso a uno stadio politico
precedente. Penso per esempio ai parenti delle vittime”.
Non essendo
giornalista, né ufficialmente parente di una vittima, Anthea rimise in ordine la
sua cartellina e, in congedo per lutto, si avviò nuovamente a casa. In una
lettera formale che si fece battere a macchina da una segretaria mentre lei
attendeva, Robert le suggeriva di prendersi ancora due settimane, e
successivamente sei settimane di prova a tempo parziale, da maggio a fine
giugno. Arthur la aspettava nella sala d’aspetto dell’ufficio di Robert e
propose di andare a un caffè, The Canteen. Scese con lui, ma arrivata
alle porte scorrevoli non poté fare a meno di voltarsi. Ciò che vide furono
occhi alzati, mascelle bloccate, e gente in fila che guardava da sopra il
proprio panino. Che guardava lei, ne era sicura. Provando compassione. La sua
gola si strinse in una morsa.
Arthur la accompagnò fino alla macchina, col
buon gusto di tacere. Fece anche a meno di porre sulla sua spalla una mano
consolatoria.
Il rinnovato permesso passò lentamente: espungeva i giorni dal
calendario ogni mattina alle 11.10 esatte. Ma smise di sbadigliare e,
gradualmente, anche i suoi attacchi di pianto si diradarono. Invece riempì le
pagine di una nuova agenda. La nuova agenda era verde, mentre quella che teneva
per gli appunti di giornalismo era rossa. Scrisse per mantenere in esercizio la
sua mano, per finire ciò che aveva cominciato. Scrisse perché le ore erano
lunghe e vuote e avrebbe voluto Duncan vicino a lei e questo era un modo per
mantenerlo nella sua memoria.
C’era una fotografia sul supplemento del Times, il City Late.
Nient’altro che la fotografia che tracciava la storia dell’indomani. CLACTON
DICHIARATO SOSPETTO. Una donna di mezza età in un abito fiorito e un grembiule
teneva le sue dita strettamente chiuse sugli occhi, e imprecò prima di sbattere
la porta in faccia alla macchina fotografica. La madre del terrorista.
Joseph
Makken, di colore, età 22 anni.
Anthea guardò. Piegata sul giornale al tavolo
della sua cucina, non poteva smettere di guardare. C’era qualcosa nel disegno
floreale e nella forma del vestito della donna –sagge linee diritte, fatte in
casa, un modello McCalls. Qualcosa dei polpacci, leggermente separati, niente
affatto sorpresi, come quando si apre una porta senza pensare a nulla di
allarmante. C’era qualcosa in quel gesto di istintiva protezione. Nulla di
diverso da quello di una qualunque donna sottoposta a uno shock, da quello della
sua propria madre, da quello di lei stessa.
La bocca dietro alla mano
cominciò a contorcersi ma era ancora mezzo imbambolata.
La fotografia era
così familiare che per qualche istante le sfuggì qualcosa, quasi non si accorse
della differenza, adesso più chiara in questa netta fotografia in bianco e nero,
la differenza di pelle. La madre del terrorista, di colore, naturalmente.
Per
tutta la serata continuò a tornare su quella fotografia, guardando ancora a
quell’espressione. Come se guardando potesse sollevare quella mano e vedere
l’intero volto. Ma non badare alla colorazione grigia o nera, concentrati
sull’insieme. La madre del terrorista, causa delle sue sofferenze, che rimaneva
sulla sua porta d’ingresso nel suo grembiule come qualunque altra donna di
paese. Come qualunque altra donna. Come fare a dargli un senso? Mettendo un
pezzo qui e un altro lì?Come fare a connettere le cose: la figura colpita, il
suo proprio dolore privato?
Quando lo shock aprì una piega in un giorno come
un altro.
Ma dall’altro lato della storia.
Un formicolio che sembrò
arrivarle alle dita, una pressione nella sua fronte. No, non si trattava di una
meschina soddisfazione perversa, una forma di voyeurismo- anche l’altro lato è
afflitto, vedi! Qualcosa poteva emergere da questo, ne era improvvisamente
sicura, una nuova comprensione, una nuova visione delle cose. Aveva
quest’occasione, questa riduzione a part-time del suo lavoro. La carta chiedeva
storie più leggere, del tipo di Olive Swann. Ci sarebbe stato tempo per
assistere al processo, la possibilità concreta di incontrare questa signora Dora
Makken, questa donna che rimaneva sulla sua soglia di cemento, traumatizzata
oltre ogni dire.
C’era una donna come altre che un giorno aprì la porta della
sua casa per vedere suo figlio chiamato terrorista.
Quella notte, per la
prima volta dal giorno della bomba, Anthea, facendo avanti e indietro, assorta,
nel soggiorno di casa sua, non pianse.