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la voce del nemico

juan villoro

Quando esisteva ancora Città del Messico, usavo un bel casco giallo. Dall’alto di un traliccio ascoltavo le conversazioni telefoniche. Il cielo era un groviglio di cavi. L’elettricità vibrava dentro la leggera guaina di plastica dei fili. Di tanto in tanto una grossa scintilla azzurra, cadeva in strada. Quel momento giustificava che io stessi lì. Avevo la cintura piena di attrezzi ma io preferivo delle pinze corte a pappagallo. Il loro morso correggeva la ferita, la luce riiniziava a correre.
Davanti c’era un cinema; sopra la tettoia si innalzava un castello di cartone. In fondo, un edificio accendeva i suoi fuochi rossi per proteggerlo dagli aeroplani. I motori facevano rumore ma non era possibile vederli nel cielo offuscato.
Il Supervisore Elettrico esigeva un orecchio attento ai cavi. I nemici avanzavano verso di noi. Io non sapevo chi erano ma sapevo che stavano avanzando: si dovevano ascoltare le chiamate, cercarvi qualcosa di strano. Un pomeriggio di pioggia, aggrappato al traliccio, ho sentito una voce strana. La donna parlava come se volesse nascondersi; in tono leggere, impaurito, pronunciò “miglio”, “fulgore”, “magnolia”, “balcone rotto”. Io ero lì per seguire le conversazioni e garantire che si svolgessero senza sorprese. Sentii queste parole slegate, che vibravano come una chiave insensata. Dovevo denunciarle, ma non feci niente; lasciai che qualcuno, da un’altra parte, capisse quello che a me sfuggiva.
Pochi giorni dopo seppi delle palme carbonizzate. I nemici avevano incendiato un quartiere dove ancora c’erano piante. Fisso sul mio traliccio, non sapevo se la città si dilatava o restringeva. Certe volte le truppe alleate parlavano attraverso i cavi, tra cornette e chiarine; poi una bomba, la dura voce di un’altra milizia.
All’angolo di fronte successe qualcosa di strano; un casco giallo non si mosse per molte ore. Cercai di avvisare che il mio collega era morto; le dita mi iniziarono a sanguinare mentre facevo numeri occupati. Mentre vedevo il casco inerte, sentii di nuovo le parole leggere, impaurite: “alcova”, “cannella”, “statua”. Immaginai con immensa invidia, che queste parole significavano un messaggio per altra gente. Per me erano solo tristi. Nemmeno quella volta parlai con il Supervisore Elettrico.
Una mattina presto mi scosse un’esplosione. Aprii la cassa dei registri; dai sensori fotoelettrici usciva un fumo putrido. Accesi la torcia; mi rimanevano pile per alcune settimane ma qualcosa mi fece intuire che non sarei durato tanto su quel traliccio.
Il Supervisore diceva nelle sue chiamate: “Chi domina i cavi, domina la città”. I nemici avevano tagliato la luce, il cinema bruciava in una nube rossiccia, ma i telefoni funzionavano. Sentii la donna dire “fragranza”, “pianeti”, “caramelle”, pietre lisce”. Non potei tradirla. Lentamente, con terrore, con precisa crudeltà, capii quanto era meravigliosa la voce del nemico. Dovevo essere addormentato quando fecero scendere il collega dal traliccio di fronte. Poi arrivò il mio turno; una mano con i guanti mi tirò per la schiena. Ero intossicato dal tanto aver respirato quell’aria maligna e non ricordo come uscii dalla città incendiata.
Da qualche settimana, forse mese, vivo in una stanza con pareti metalliche. In un computer mi hanno mostrato una foto terribile: si chiama Città dei palazzi e mostra il cinema con il suo castello di cartone, l’alto edificio in fondo, i cavi che una colta avevo sorvegliato. “Sono 67”, ha detto la voce di chi mi ha catturato. E' vero. Avevo sotto la mia responsabilità 67 cavi e li avevo protetti dai nostri imprecisati nemici. Durante giorni indistinguibili dalle notti protessi la corrente e le telefonate. Solo una volta avevo danneggiato un cavo di proposito. Era successo alcuni giorni prima che scendessi dal traliccio.
Della città rimangono solo fotografie. Se indicassi il cavo danneggiato, i miei guardiani potrebbero entrare nel labirinto, seguire il filo fino a un’altra fotografia, fino alla casa dove viveva quella voce strana. Davanti a me ho i 67 cavi che hanno fatto parte della mia vita. Uno di quelli può portarli dalla mia donna. So qual è. Ma non lo dirò.

Traduzione di Edoardo Balletta

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Anno 1, Numero 4
June 2004

 

 

 

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