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il suddito

julio monteiro martins

Questa è la storia di un uomo che è realmente esistito.
Per ordine suo, le colline vicine al centro storico vennero sgonfiate, e la terra rimossa servì a ricoprire parte della baia di Guanabara, raddoppiando così l'area della città. Sui nuovi terreni furono costruiti i più splendidi palazzi. Così alla fine dell'Ottocento Rio de Janeiro diventò una metropoli moderna, una sorta di Parigi del Sud, con i suoi alberghi di lusso, teatri internazionali, grandi boulevard.
L'uomo in questione, l'ingegnere che portò a compimento questa metamorfosi commissionata dall'Imperatore Pedro II in persona - il benefattore che aveva sponsorizzato i suoi studi di ingegneria - era un nero di origine umilissima e grandi capacità di calcolo, di iniziativa, di organizzazione e di fantasia. Si chiamava André Rebouças. Era nato libero, al contrario di quasi tutti i neri brasiliani che allora erano schiavi, di una schiavitù antica di secoli, non contestata dalla società né osteggiata dal suo monarca. Nonostante ciò, o incurante di questo fatto, André Rebouças idolatrava l'Imperatore. Era per la sua gloria che lavorava febbrilmente, che demoliva e creava, che abbelliva la capitale dell'Impero. Un elogio da parte del suo dolce protettore dalla lunga barba bianca e dagli occhi di un azzurro cristallino era per lui una benedizione del cielo. Rebouças guardava sempre in alto, per concepire affreschi, cupole e terrazze, e dunque non vedeva gli altri figli d'Africa, incatenati o moribondi per la fatica. Agli occhi dell'ingegnere Pedro II rappresentava il Bene assoluto. Felice sarà il mondo se un giorno permetterà l'espansione infinita dell'Impero brasiliano - pensava. Sarà un mondo protetto e benedetto da un sovrano, il più saggio e venerabile.
Ma le cose andarono diversamente per gli Orleans e Bragança, per il Brasile, per Rebouças e per tutti i neri di Rio. Nel 1888 Pedro II era in Francia, a passare le vacanze e scambiare riflessioni filosofiche col suo amico Victor Hugo, che lo presentava a tutti con divertita noncuranza, "Je vous présente mon cher ami, l'Empereur du Brésil", e mentre il suo sguardo saltava da una foto di Nadar a una pellicola dei Lumière, a Rio de Janeiro sua figlia, la Principessa Isabel, circondata di mulatti e inglesi, firmava al Palazzo Imperiale di São Cristóvão la Legge Aurea che aboliva la schiavitù nel paese (e anche nel mondo, dal momento che il Brasile è stato l'ultimo paese a farlo - e qualcuno insiste a dire che non l'ha ancora fatto).
Comunque sia, i neri ora erano sulla strada, senza saper dove andare e senza capire cos'era successo, fino a quando, qualche anno più tardi, occuparono le colline della città dando vita alle favelas e al samba. Il fatto, però, è che i loro antichi proprietari non perdonarono mai la principessina e il di lei distratto padre. Migliaia di navi cariche di giapponesi poveri, di italiani e di polacchi affamati dovevano ancora arrivare per riempire il vuoto lasciato nelle fazendas di caffè.
In effetti, soltanto un anno dopo la gita turistica dell'Imperatore, le caserme si ribellarono all'improvviso - il primo colpo militare di una lunga serie - e nel mezzo della notte Deodoro da Fonseca, un vecchio generale malato reduce della Guerra del Paraguay, fece il giro del Campo de Sant'Anna a cavallo e a spada tratta, proclamando ufficialmente la Repubblica del Brasile, dinanzi alla plebe stupita che si chiedeva perché quella volta la parata festiva si tenesse al buio.
Il re buono, scienziato dilettante e apprezzato fotografo, che per settant'anni era stato per il popolo così simile a Dio stesso, il sovrano venerato dall'Amazzonia alla pampa, da Bahia alle Ande, venne cacciato dal Palazzo insieme alla regina e alle figlie, scortato fino alla stiva di una nave mercantile, con addosso soltanto i vestiti che indossava quel mattino, ed esiliato per sempre in terre straniere, costretto a vagabondare come un nobile clochard, dal Cairo alla sua amata Parigi, dove riuscì a rimediare un piccolissimo appartamento, per morirvi qualche anno più tardi circondato da letterati e pallidi nostalgici.
A cent'anni esatti dalla presa della Bastiglia, Pedro II aveva perso per sempre la sua corona. Ai brasiliani, a tutti i brasiliani, era stato sottratto il loro sereno sovrano. E quanto a André Rebouças, l'ingegnere aveva perso tutto e non si dava pace.
Come i fanatici filippini che ad ogni Pasqua si fanno crocifiggere per non lasciare solo il Cristo morente, così anche Rebouças dovette intraprendere la via dell'espatrio. Non poteva più erigere i corpi dei palazzi quando la loro anima era ormai assente, forse per sempre. Non poteva aprire strade attraverso le quali il suo sovrano non sarebbe stato autorizzato a passare. E i cantanti italiani e le ballerine russe avrebbero dovuto esibirsi su un palco imperiale affollato da usurpatori e donnacce. Rebouças si sarebbe risparmiato quelle visioni deprimenti e quel deserto di maestà ovunque. Ma dove sarebbe potuto andare allora un nero tutto solo? Da buon ingegnere, si dette la risposta più logica: doveva tornare in Africa, da dove erano venuti i suoi nonni. E così fece, senza titubanze di sorta.
Tuttavia un uomo d'azione, un costruttore di città, non può cambiare la sua vita senza un grande progetto. Rebouças aveva sempre vissuto in bilico tra un mondo che gli implorava di essere migliorato e quello che emergeva dal suo ingegno. Non avrebbe potuto essere altrimenti nella grande Africa che l'aspettava.
Sulla nave che lo riportava al Benin, l'antico regno di Uidá, l'ingegnere pensava al grande dono concessogli dal suo monarca: l'istruzione! Non oro, né terre, né titoli, bensì l'istruzione: tutte le cose del mondo ad agitarsi e a travestirsi dentro la testa di un povero nero. E perché non farne dono anche a tutti gli altri neri del pianeta? Si poteva cambiare prima loro, poi il pianeta stesso. Seguendo con umiltà le orme del monarca, avrebbe portato ai nudi, ai cannibali, ai pigmei, il miracoloso lume dell'istruzione! Nascondere le loro vergogne con i pantaloni e i loro presagi con i numeri!
Di quell'anno e mezzo durante il quale André Rebouças girovagò confusamente da Timbuktu al Transvaal purtroppo non si sa quasi niente. Il suo diario africano non è mai stato trovato, o forse non è mai esistito, nato morto in attesa di un primo successo che invece non arrise mai al suo privato illuminismo.
Ci provò con gli zulù. Voleva metter loro la cravatta ed essi volevano infilzarlo con le lance. In Tanganika gli inglesi lo rinchiusero in carcere con l'accusa di sospetto spionaggio (ma per chi non si sa). E nell'isola di Zanzibar fu venduto come schiavo ai commercianti arabi che avevano bisogno di braccia per sollevare le lastre di sale sulla gobba dei loro cammelli. Nel Botswana insegnò francese ai figli di un capotribù e nuovamente gli inglesi gli diedero la caccia. Arrivò a Cabinda distrutto e logorato. Nello specchio della camera d'albergo vide uno stregone bundo con le membra spente dopo una danza febbrile. Il volto una maschera di legno. Gli occhi morti.
Ma la fama del grande ingegnere André Rebouças era arrivata fino a quella città angolana, e perciò ricevette dai mercanti portoghesi un po' di rispetto e di denaro per pagarsi alloggio e vestiti nuovi. Da loro apprese la notizia dell'avvenuto decesso del suo Imperatore in esilio.
Con quanto dolore seppe che le sue spoglie, indesiderate sul suolo patrio, sarebbero state custodite in un monastero parigino. Con quale orrore apprese che era stato seppellito in borghese, con giacca e cravatta, come un notaio di provincia. Non sarebbe tornato nemmeno lui in quel covo di ingrati, non avrebbe consegnato né anima né ossa a quei repubblicani con le mostrine. Sarebbe rimasto anche lui su quella sponda dell'Atlantico, a guardare il mare immenso e iroso che lo separava da se stesso.
Grazie agli amici portoghesi ottenne un passaggio su un piroscafo fino all'isola di Madeira, a metà percorso tra l'Africa e l'Europa. Madeira... Paesaggio mulatto, carnevale dei mondi, Madeira è figlia di un connubio antico e segreto tra le pianure delle zebre e il bosco degli orsi, ed ogni sua pianta ne è testimone: garofani accanto a felci giganti, orchidee sui pini, abeti circondati da cactus, e l'albero del drago, che esiste solo lì e nei dipinti di Hyeronimus Bosch, a ricordare che i figli a volte sono esseri anomali e tradiscono qualunque, per quanto arcana, origine. Madeira: una sola gigantesca montagna in mezzo all'oceano, roccia nuda assediata dalle acque, valli profonde, cale tiepide, tropico alpino. Quell'ibridazione indistinta sarebbe dovuta servire da rifugio alle disperate meditazioni dell'architetto nero. Il secolo dei pudori e dei duelli si avviava ormai verso la sua fine quando Rebouças, dalla prua della nave, veniva avvolto dal diadema della baia di Funchal.
Tra tanti cognomi di commercianti inglesi - in quel secolo imperiale gli inglesi erano dappertutto -, tra i Bowring Spence, padre e figlio, Rowcliffe, Bullen e Cowbrough, figurava nel libro degli ospiti del New Hotel Reid il nome del Consigliere André Rebouças, "distinto ingegnere e illustre pubblicista", come fece sapere subito - per evitare spiacevoli malintesi da parte della società locale - il giornale Diário de Notícias.
Per cinque anni Rebouças visse discretissimamente al Reid. Secondo la ricostruzione a posteriori della sua vita a Funchal, fatta dal periodico madeirense, in quegli anni si era dedicato "allo studio e alle opere letterarie e di scienza", in mezzo alla "più desolata solitudine e a crescenti difficoltà economiche". Il testo in fondo alla prima pagina dell'edizione di quel 10 Maggio 1898 finiva con un'invocazione: "Lo sfortunato uomo di scienza, che era stato amico personale e molto stimato dello scomparso Imperatore Pedro II del Brasile, era senza dubbio un uomo di eclettiche virtù. Pace all'anima sua!".
Il giorno precedente, quell'uomo nero con i capelli quasi tutti imbiancati dai soprassalti africani, aveva preso nel Largo da Restauração l'"americano" - la carrozza su binari, trascinata da un paio di buoi o di cavalli - e, come faceva tutte le mattine nelle ultime settimane, era sceso di fronte alla piccola Estação do Pombal, da cui partiva il trenino verso la cima del monte che spuntava al centro di quell'isola vulcanica. Un'unica carrozza - spinta da dietro da una minuta locomotiva col suo naso di ferro - trasportava ogni giorno passeggeri nobili, appartenenti alle famiglie più altolocate di tutti i paesi d'Europa: le sole in grado di sussidiare ai loro sventurati cari colpiti dalla tubercolosi un soggiorno di "turismo terapeutico" tra le arie miracolose dei nosocomi con sede sul monte. Una vera miniatura dell'Europa aristocratica veniva improvvisata in quegli anni ad alta quota: una corte certo un po' più cinerea e cagionevole della norma, ma non per questo meno ilare e ciarliera, si riuniva da un'estate all'altra negli chalet-ristoranti in mezzo al bosco di eucalipti, attraversato dalla stradina lastricata che portava dal capolinea al Terreiro da Luta. Tra il frenetico viavai di camerieri e dame di compagnia, tra le amache portate sulle spalle dei contadini con dentro un malato svigorito, bisognoso delle brezze vegetali, si poteva intravedere tra l'ibisco dei gazebi l'Imperatrice Eugenia De Montijo, consorte di Napoleone III, e più in fondo Isabella d'Austria e la principessa Sissy - allora al centro delle attenzioni mediche del rinomato Dottor Mourão Pitta - che scambiava pronostici con il suo caro amico Principe Nicola D'Oldenburg.
Quel cortigiano cinguettio, il fruscio dei damaschi e delle sete, la féerie dei gioielli e quel particolare incedere sussiegoso, tipico dei sovrani - tutto così familiare anche all'ingegnere - riempivano Rebouças di saudade, di compiaciuta nostalgia per l'estinta corte carioca. Probabilmente chi avesse guardato quel negro, avvolto in un consunto paltò e rannicchiato sull'ultima panchina della carrozza, non avrebbe mai potuto immaginare che quel nido aristocratico sul monte era per lui l'habitat più naturale.
Ma lo stesso magnetismo che da una parte lo attraeva, dall'altra lo disgustava: tra tutti quei sovrani non figurava il più grande, il suo Pedro II, dimenticato in un'oscura via parigina qualunque, dentro un sarcofago anonimo coperto dalla polvere, al pari del più umile dei monaci, quello che batteva la campana del chiostro mentre lui veniva solennemente incoronato a Guanabara. Quell'incommensurabile assenza e ingiusto oblio sconvolgevano lo spirito di Rebouças e riducevano le sue dimensioni, anche quelle corporee, al minimo, a quelle di un ragno morto.
Proprio così si era sentito l'ingegnere all'arrivo del trenino alla stazione di Atalinho nella tarda mattinata del 9 Maggio 1898: un misero ragno morto. Aspettò che uscissero dapprima gli aristocratici, successivamente i medici e gli infermieri, poi gli impiegati e i facchini, e solo alla fine scese lui, inosservato, coperto dalla nube di fumo espulso a sbuffi dall'atletica locomotiva.
Camminò sul selciato e poi per la stradina di ghiaia che passava accanto alla chiesa di Nossa Senhora do Monte. Proseguì per un quarto d'ora fino ad arrivare al suo posto d'osservazione preferito: il bordo di un profondo abisso a forma d'anfiteatro, il precipizio del Largo das Babosas, da dove si scorgeva tra le felci, come un serpente nero, il fiume stagionale, la Ribeira de João Gomes, e in fondo alla gola, il mare oceano di un turchese irreale, principesco. Ottocento metri a strapiombo lo separavano dal primo ponticello di legno scolpito che attraversava la ribeira. Lui era in quel momento l'angelo vendicatore che dal firmamento osservava imperterrito la corruzione dell'eden. E nello splendido isolamento di quelle altitudini, André Rebouças venne visitato da uno strano fantasma, dal protagonista di un altro episodio della storia brasiliana che in qualche modo lo doveva riguardare, e che ora vi racconterò.
Non molto lontano dalla città di Recife, da dove un secolo prima del periplo di Rebouças partivano le navi cariche di sacchi di zucchero verso i porti dell'Europa, era stato costruito il quilombo di Palmares, una vera città-fortezza difesa da una palizzata in mezzo alla giungla, eretta da schiavi africani fuggiti dalle fazendas. Dopo sei terribili scontri in cui l'esercito coloniale portoghese era stato sconfitto dai ribelli, alla fine di una settima disperata battaglia il gigante barbuto cacciatore di negri Domingos Jorge Velho riuscì a prendere la città, e prima che cadessero nelle sue mani e fossero riconsegnati agli antichi proprietari o rivenduti alle miniere d'oro di Minas Gerais, i guerrieri di Palmares decisero di suicidarsi in blocco.
Il loro generale era un giovanissimo principe, Zumbi de Palmares, che era stato catturato da una tribù nemica e venduto come un qualsiasi schiavo ai negrieri portoghesi. L'aveva voluto lui l'anonimato, e l'aveva imposto ai suoi compagni di sventura, fino al momento della rivelazione, ormai nel Nuovo Mondo. Dopo essere evaso dalla sua prigionia, Zumbi era diventato la forza aggregante del colossale quilombo, amalgamando in quella mitica città uomini e donne delle più svariate etnie, culture, lingue e religioni.
Il giorno in cui Domingos sconfisse Palmares, Zumbi aveva fatto riunire i sopravvissuti ai piedi di un altissimo pendio nella zona da mata di Alagoas, e salito da solo in cima alla montagna, nudo e nobile, aveva poi aperto le braccia e si era gettato dall'alto, volando come un uccello magico, un Icaro dalle ali disciolte dal calore di una Storia sconosciuta e vergine. L'immagine di Zumbi che vola verso la morte sarebbe diventata, duecento anni più tardi, una delle icone fondatrici della civiltà degli afro-brasiliani, della quale l'ingegnere Rebouças era una sorprendente e precoce fioritura fuori stagione.
Ma tutto questo lui allora non poteva saperlo.
Sentiva soltanto l'aggirarsi invisibile nell'aria attorno a lui della danza di Zumbi, le emanazioni della sua ultima decisione. Rebouças aveva tanto desiderato il ritorno del sovrano, ed ecco che un autentico principe era davvero venuto a incontrare quell'uomo affranto da un lontano continente, dall'abisso di un altro secolo, per stringergli le mani intorno alla vita e gettarlo in aria, facendogli spiccare un balletto alato nel vuoto della scarpata. Così lontano da casa, così lontano dal padre, così lontano da tutto.

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Anno 1, Numero 4
June 2004

 

 

 

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