Nota biografica | Versione lettura |
Siamo storie
di storie nella storia
Angoli o centri
di trama e
ordito
del tessuto del mondo.
Nicchie ricavate in
intrecci di
eventi.
Noi siamo nella storia
Infine aveva ragione nonna Berechtì, nonna Benedetta.
La guardo nella foto
appesa in sala, mi sorride, ancora pronta a dirmi "ascolta me, le mie
esperienza, ho già vissuto tanto mondo, per te e per tutti quelli che verranno
dopo di te, se saprai tramandare le mie esperienze e poi le mie assieme alle
tue... !"
" Niente ti dico, niente di ciò che accade, degli eventi belli o
catastrofici si tiene interamente o si butta completamente. E negli eventi
brutti c'è sempre un pezzo della tela, di nicchie di intrecci, che vogliamo
tenere".
Diceva questo quando io, noi, tutti piangevamo e complottavamo
contro il regime.
E ancora "Le cose dell'uomo non sono fatte per stare in
bilico in eterno prima o poi si sistemano trovando un loro equilibrio!".
Oggi mi capita di ripensare spesso a quelle frasi, e trovo un pezzo di tela,
una nicchia ricavata, di quegli anni, che trattengo in un sorriso lieto.
Qualcosa, di quel periodo catastrofico, che non butto via: la
bicicletta.
E si!
Ho imparato a pedalare, gironzolando in sterrati, stradine, viottoli
del mercato, tra banchetti e verdure accatastate per terra, sfruttando la
tenacia dell'infanzia che si accanisce per imparare non facendosi intimorire da
cadute, sbucciature, bernoccoli... .
Ho imparato a pedalare negli anni del
regime, grazie al regime.
Ma forse è meglio che vi racconti ogni cosa partendo dall'inizio.
Eravamo in settembre, il lieto settembre in cui finiscono le grandi
piogge.
Un giorno uno sciopero, il primo della storia d'Etiopia. Taxisti e
camionisti sfilavano con i mezzi nella città, per protestare contro il rincaro
della benzina.
Quello dopo, in un improvviso, inaspettato, galleggiavamo
malamente nelle acque sconosciute di un nuovo governo.
Ancora prima di
imparare a sentirne la parola in bocca, ancora prima di riuscire a farla
rotolare correttamente sulla lingua, il golpe ci colpiva mettendo a gambe
all'aria ciò che fino a quel momento era stato il nostro conosciuto.
I primi
giorni, io e la mia famiglia, li passammo nascosti in casa, a sentire i colpi
delle mitragliatrici ed a spiare dalla veranda i blindati che scorrazzavano
sulle nostre strade, nel nostro rione.
Mio padre e nonna Berechtì erano gli
unici a non avere paura di quella guerriglia, subito oltre il cancello. Loro
avevano passato la guerra!
Mentre fuori sparavano nonna Berechtì passava e
ripassava per il salone, normalmente affaccendata e ad ogni mitragliata ripeteva
"Wai! Ghena ai dechmoun iziatom?" "Insomma non sono ancora stanchi
questi?".
La strana routine della dittatura, che durò 17 anni, si insediò in
poche settimane.
Quando una specie di normalità prese forma e la gente si
abituò alle facce dei nuovi governanti, riprendemmo la via per la
quotidianità.
Ed ecco un giovedì sera, mio padre, si alzò da tavola per
muoversi in un gesto che apparteneva alla consuetudine.
Andò ad accendere la
tv.
Prima del "trambusto", ogni giovedì sera la mia grande famiglia, tutti
tranne mia nonna, che non nutriva un grosso interesse per la scatola, come la
chiamava lei, si riuniva sui divani a guardare il telefilm Il fuggitivo, o
meglio, "the fugitive", era in inglese.
Quella sera mio padre girò la
manopola e la tivù prese vita, ma al posto delle immagini il monitor si illuminò
di strisce bianche e nere e un fastidioso rumore prese a spargersi per la
stanza.
Mio padre girò attorno alla tv, provò e riprovò a premere i pulsanti,
mosse il filo dell'antenna... , niente, “kisch kischschsch”, il televisore
continuava ad emettere quel suono che grattava come una lima nelle
orecchie.
Era già scattato il coprifuoco e quindi non potevamo andare sul
tetto a cercare di sistemare l'antenna, e neppure da Atò Iemane, l'unico oltre
noi ad avere la tv nella zona.
“Beh! Oggi niente tv! – disse mio padre -
Domani! Domani aggiustiamo l'antenna e guardiamo i Fratelli Bonanza. Sicuramente
è l'antenna”, e mia nonna, con le mani sulla vita ed il tono di sfida “Speriamo
che si sia rotta per sempre. Con tutte le storie che ci potremmo raccontare,
passare il tempo con gli occhi vuoti a fissare la scatola..., a farsi
rintontire, mah! Mi sembra una cosa dell'altro mondo”, “Ma nonna – disse Daniel,
mio cugino, in difesa della televisione - raccontano delle belle storie, con
tante immagini” “Anche io se vuoi te ne racconto, di belle storie! Ne so quante
ne vuoi e poi, pensa, mi puoi fare anche delle domande se non capisci ed io ti
risponderei, mica come la scatola!”
“Dai nonna, la tv è un'altra cosa, è più
bella”,
E lei andandosene in un’altra stanza “Eh! Il passato resta indietro
ed il futuro avanza, carico di guai! Guardare una scatola anzichè parlare tra
noi!”
Comunque, la tv non andò più, e non per l'antenna.
Era la politica del
nuovo governo: niente più telefilm americani.
E, sempre per la politica del
nuovo governo, in poco tempo scomparvero i beni di lusso, le macchine di
importazione, le case private, le proprietà private, i proprietari terrieri... e
per la tristezza di noi bambini scomparvero tutti i beni che potevano inquinare
le menti dei giovani. Niente più giocattoli, biscottini, caramelle,
cioccolate... .
Negli interstizi liberati da tutto ciò che venne
progressivamente cancellato, persino nel semplice mondo delle banali
conversazioni, si infilarono nuove parole.
“Imperialista e capitalista” : ciò che doveva essere eliminato definitivamente dal paese, in ogni sua forma.
“Bene del popolo” : ciò che andava creato o rinforzato.
“Ideologia”: una parola grossa, che odorava di pensieri, ragionamenti, squadrature e linee dure.
“La tutela dell'ideologia”: militari ad ogni angolo della città, centri di controllo del quartiere, posti di blocco e coprifuoco, dalle sette di sera alle sei di mattina.
E quando le parole presero vita tra noi trasformandosi in modi e usi della vita di tutti i giorni, arrivarono gli “Alleati dell'Ideologia” : Russi, Bulgari e Cubani multicolori riempirono il nostro paese.
Infine, per ultimo, arrivarono i “beni degli alleati”.
Il bassopiano
etiope venne riempito di biciclette da uomo che provenivano dalla Cina di
Mao.
"Ma le cose dell'uomo non sono fatte per stare in bilico in eterno, prima o
poi si sistemano trovando un loro equilibrio!" diceva nonna Berechtì. Le maglie
troppo strette che mettevano in bilico il nuovo governo ben presto si
allentarono, nonostante la Tutela dell'Ideologia, e ognuno trovò la propria
nicchia. I fili per tessere a proprio piacere un pezzo di tela, di trama e
ordito.
Mio padre mal sopportava il clima claustrofobico della città
soffocata dal coprifuoco, dai continui controlli dei militari, dai
rastrellamenti notturni , allora mia nonna lanciò una richiesta di aiuto ai
membri di tutta la sua famiglia. Un giorno Gebremeskel, un cugino di mia madre,
si presentò a casa nostra sventolando un foglio con la faccia soddisfatta. C'era
scritto "Il governo militare provvisorio della repubblica popolare socialista
concede al signor ....., alla sua unica macchina e tutti i famigliari che
riescono a stare nella macchina, di oltrepassare il primo posto di blocco, e
proseguire fino al secondo dove ...". In pratica potevamo andare a Nazareth,
piccola cittadina cento km a sud di Addis Abeba, a rilassarci e disintossicarci
dal clima di repressione della captiale.
Nazareth, o Adama, come l'aveva ribattezzata il regime, faceva parte del bassopiano, e data la piattezza del suo territorio, per mia gioia, era stata invasa dalle famose biciclette della Cina di Mao. Ogni suo angolo di strade ne era pieno. Biciclette e affituari, incaricati dal governo, placidamente piazzati all'ombra di un albero, in attesa di clienti.
Ribadisco, per mia gioia!
Ah! La bicicletta!
Da tempo immemorabile era
stata una mia grande passione. Una di quelle passioni che galoppano nel sangue
offuscando il senso del pericolo.
Un tempo nella nostra casa ne era circolata una , di mio fratello. Non avevo
mai imparato ad andarci, nonostante ci avessi ostinatamente provato.
Ogni
giorno costringevo il nostro guardiano a trattenermi in bilico sulla bicicletta,
e quando mi ero ben assestata sul sellino gli ordinavo "mollami", e mi lanciavo
giù per la ripida discesa che iniziava dopo la nostra strada.
Lui da dietro
urlava "Mi raccomando quando arrivi in fondo alla discesa, questa volta, frena,
se no tuo padre stasera mi ammazza".
Ma non era la frenata lo scopo. Tutta
quella galoppata era una rincorsa per affrontare, uscendone vittoriosa,
l'altrettanto ripida salita.
Ogni volta il risultato non era quello
desiderato e la mia corsa terminava alla fine della discesa, nel negozio di
Alem, "la parrucchiera", a gambe all'aria in mezzo a barattoli e sedie, con mani
e ginocchia sanguinanti e la bici fuori dalla porta. Infine, una notte di marzo,
senti dei rumori. Quel misto di feste etiopi ed italiane mi confondevano le
idee, non sapevo mai quando era una o l’altra, e pensai che fosse la befana e relativa sorpresa, e
stetti zitta. Invece erano i ladri e si portarono via le coperte delle mie
cugine, stese all'aria, e la bicicletta.
Qualche magligno, nel quartiere,
vociferava che in realtà i ladri erano amici della parrucchiera, stanca della
mia quotidiana visita, e il furto delle coperte serviva per mascherare il reale
motivo dell'intrusione: salvare l'andamento florido dell'attività di
Alem.
Comunque, quale che fosse il motivo, restai senza bicicletta fino a
quel sabato quando oltrepassato il blocco militare la piccola città del
bassopiano si aprì dinanzia a noi facendomi increspare il sangue per la
sorpresa.
Nazareth, o Adama, come l'aveva ribattezzata il nuovo governo, era un
crocicchio di tre strade asfaltate e un mare di polvere mosso e rimosso dai
Gari, i taxi calessi, e, dietro alle tre strade viottoli, mercatini, negozietti
di frullati di frutta traboccanti di papaie verdi e profumate, l'albergo franco,
un tempo di un italiano, capitalista, ed ora nazionalizzato dal governo e
l'albergo Warush, la nostra residenza: un corpo centrale attorniato da una fila
di stanze sepolte sotto buganvillee multicolori e due imponenti acacie cariche
di fiori rosso vermiglio, con rami sfacciati che oltrepassavano il muro di cinta
.
E Ghrma, il biciclettaio, con una aureola spettinata di capelli, un pettine
di legno piantato nell'aureola spettinata e un sorriso di denti bianchi e
brillanti, stava lì, lì sotto, all'ombra dei rami sfacciati carichi di fiori
rosso vermiglio.
E oltre, sotto al sole, con i sellini di pelle nera,
incandescente, le biciclette.
Tutte rigorosamente verdi e nere e tutte
rigorosamente da uomo.
Di fronte, delimitato da una fila di alberi del pepe,
un ampio spiazzo, il mio camposcuola.
A convincere i miei ad affittarmi la bicicletta per un'ora tutti i giorni non
fu difficile.
Misi in pratica un trucchetto che avevo compreso funzionare
bene: insistere.
Si stancavano quasi sempre prima di me.
Con Ghrma il
problema non si pose. Mi addottò in un baleno e sotto il sole cocente del
bassopiano etiope mi insegnò ad andare in bicicletta sostenendomi per il sellino
e correndo per l'intera ora del noleggio.
La lezione di bicicletta aveva degli spettatori: i camerieri
dell'albergo.
Comodamente seduti all'ombre nella postazione di Ghrma urlavano
consigli e rallentavano le sporadiche macchine di passaggio "Piano, c'è una
bambina che sta imparando ad andare in bicicletta".
Attorno alla mia lezione
era tutto un movimento. Ogni passante, a piedi, a cavallo o in macchina si
sentiva in dovere di lasciare un commento "Eh! Ma si deve vedere una bambina
fare cose da maschi!"
"Guarda che progresso, grazie al nuovo governo anche le
femmine vanno come i maschi!"
La maratona veloce di Ghrma appresso alla mia
bicicletta diede frutti positivi e nel giro di neppure un mese imparai a
rimanere in equilibrio pedalando velocemente nello spiazzo, sotto lo sguardo
vigile di Ghrma e dei camerieri di Warush.
Mi sarei potuta anche lanciare
nella perlustrazione degli angoli e delle stradine di Nazareth, ma restava un
problema. La bicicletta era troppo alta. A malapena arrivavo in fondo alla
pedalata con la canna della bici piantata nell'inguine e la punta del piede sul
pedale. Se mi fossi dovuta fermare all'improvviso o scendere non ne sarei stata
capace.
Per un po' questo pensiero mi trattenne e rimasi nello spiazzo a
contarne i sassi, ma con il crescere della confidenza con l'equilibrio e la
velocità una irresistibile curiosità per la perlustrazione iniziò a molestarmi,
come una mosca che non ti lascia dormire, e la voce del pensiero che mi
tratteneva perse consistenza.
Ghrma da bravo maestro, seguiva ogni mio
impulso interiore e quanto mi ritenne pronta mi svelò un segreto: "Qui attorno
puoi gironzolare! Questo è il vecchio quartiere italiano ed ogni casa ha dei
muretti di cinta bassi. Potresti sfruttarli per fermarti" e così dicendo quasi
mi spinse oltre il protetto perimetro dello spiazzo.
La prima pedalada mi aggredì con un brivido lungo la schiena. Girai a destra
per costeggiare il muro di cinta di Warush.
Il brivido lungo la schiena si
fece più pungente.
Pedalai ancora… .
La strada era uno sterrato sconnesso
pieno di buche e calessi che correvano all'impazzata.
Continuai ad avanzare,
come mi aveva insegnato il mio maestro.
Feci il giro del muro che racchiudeva
l'albergo e spuntai dall'altra parte dello spiazzo. Sudata!
Lui mi attendeva
"Allora!"
"Ho avuto paura"
"Dove c'è la paura c'è anche il coraggio!
Domani andrai più lontana!"
Ogni giorno aggiunsi un pezzetto di strada,
scoprendo muretti e punti di appoggio utili a fermate improvvise, ma lo sguardo
restava sempre concentrato sulla strada e i muscoli rigidamente tesi nel
controllo di ogni movimento. Non riuscivo ad abbassare la guardia e il mio
sguardo era sempre rivolto verso me, la bicicletta ed il suo controllo.
Il
passaggio dall'altra parte, quello che mi permetteva di volgere lo sguardo,
finalmente, verso l'esterno, per quella parte di me abituata a controllare,
avvenne all'improvviso.
Una buganvillea svettava oltre il muro di cinta
dell'albergo. Sui fiori arancioni, eretti verso il sole, nuvole di farfalle
bianche fremevano. Alcune scendevano come una scia, verso di me.
Allungai la
mano per toccarle, senza pensarci, e continuai a pedalare.
Quando mi accorsi
del movimento una scossa di eccitazione mi attraversò da capo a piedi. Continuai
a pedalare con una mano sola guardando incredula quella staccata dal manubrio,
raggiunsi lo spiazzo e ancora con una mano solletava mi misi a uralre "Ghrma!
Ghrma! Vado con una mano sola! Guarda! Ho imparato! Guarda ho imparato!" e mi
fermai buttandomi con tutta la bicicletta tra le sue braccia. La sua aureola
spettinata ondeggiò “Brava! Brava!” esultava lui e mi baciava, “Brava! Brava”
continuava a baciarmi sulle guance, e la sua aureola continuava ad ondeggiare e
il pettine si sfilò e cadde a terra. “Brava! Brava” mi dicevano i camerieri e
abbracciavano i nostri corpi come fosse uno solo.
Poi Johnson, il cameriere più vecchio, spinse tra il groviglio di corpi, e si
fece spazio. Tra le braccia degli altri, prima vidi comparire la sua fronte,
sette solchi rugosi nella pelle bruna e poi i capelli, brizzolati e impomatati,
domati all’indietro in piccole onde spinte fino alla base del collo, e, ancora,
gli occhi dolci, in cerca del mio sguardo, infine la parola: “Ti ho tenuto il
burro, sapevo che questo era il giorno giusto, se vieni ci sono le fette di pane
caldo e la marmellata di fragola…”
“Il burro!” esclamai, “Si! Si, ti ho
tenuto un po’ di burro!”.
Non so per quale arcano motivo, dall'arrivo
dell'ideologia e tutto il suo seguito alcuni alimenti largamenti prodotti in
Etiopia, tra cui lo zucchero, la farina di grano ed il burro, erano quasi
scomparsi.
Gli sorrisi per l'inaspettato regalo e facendomi largo lo segui
nel corpo centrale.
Nell’ampia sala con le mattonelle del pavimento
multicolore, in un angolo, su un tavolo con la tovaglia candida, mi attendevano
un piattino ricolmo di marmellata ed un pezzo di burro .
“Ora ti porto il
pane caldo, e il te, con le spezie, come piace a te!”, mi disse quell’uomo che
portava i capelli alla moda di altri tempi, i bei tempi.
Dopo colazione Mekonnen, uno dei camerieri giovani, mi venne a chiamare : “Ti
vuole Ghrma”.
Fuori, sotto all’ombra dei rami sfacciati mi attendevano tutti
i camerieri.
Ghrma staccò un piccolo stelo di fiori rosso vermiglio e lo
infilò tra i miei capelli "E adesso devi restituire il favore, a tutti noi, noi
ti abbiamo insegnato ed ora tu… tu sarai la nostra telalaki" cioè il
garzone.
Senti il cuore allargarsi in un sorriso che mi fiorì fin sulle
labbra.
Telalaki, telalaki!
Avrei fatto le loro commissioni in bicicletta,
tutta la giornata senza pagare il noleggio.
“Siamo d’accordo?”
Telalaki!
Telalaki”!
Feci si con la testa, lo stelo cadde per terra, lui lo raccolse,
soffiò via la polvere dai fiori rossi e lo rimise tra i miei capelli.
Il mio commissionario maggiore era il cuoco. Ogni giorno mi mandava a
rovistare tra banchetti di kerefa, kosserath, betsobilia e kororima.
Al
ritorno mollavo la bicicletta sotto all’ombra dei rami sfacciati e correvo,
attraversavo il corpo centrale, e, per non soffermare lo sguardo su carogne di
pecore appese a gocciolare i resti della macellazione, con un balzo saltavo un
piccolo spazio con il pavimento di pietra, ed entravo in cucina.
Lì, sul
piano di alluminio dove il cuoco lavorava, lanciavo l’acquisto. Poi prendevo
l'ordine successivo e, sempre correndo, uscivo.
Il cuoco ogni giorno mi mandava in un mercatino più lontano e in una delle
tante spedizioni per la sua cuicina una mattina, al mercato dei fiori, girandomi
all'improvviso dopo un acquisto di gigli bianchi, mi trovai davanti ad un
cartello giallo che penzolava di sbieco sopra alla vetrina impolverata di un
quasi invisibile negozietto.
Sul cartello, con pennellate di vernice nera,
sbaffata qua e là, qualcuno aveva scritto "Tutto ciò che è rimasto del puntini
puntini". I puntini puntini stavano per capitalismo, imperialismo.
Il
cartello mi incuriosì ed entrai.
Mi ritrovai in un budello stretto,
infinitamente lungo e buio che subito sollecitò il mio olfatto. Roba dolce,
c'era odore di roba dolce, di... odore di ... biscotti , e … e caramelle e… e
mentre cercavo di riconoscere altri odori la mia vista si abituò
all’oscurità.
Il "Tutto ciò che è rismasto del puntini puntini" era un budello lungo e
stretto pieno di ogni ben di Dio: biscottini, caramelle, cioccolate,
confettini... . Rimasi senza fiato per la sorpresa.
Tornai fuori, presi la
bicicletta e volai verso il Warush, mollai la bicicletta a Ghrma e corsi da mio
padre "Papà
nonmicrederaimaihotrovatounnegoziopienodibiscotticaramelleecioccolata" e
allungai la mano. Ogni molecola del mio viso urlava a squarciagola "E' tornato
il paradiso in terra", lui mi sorrise intenerito e mi mollo qualche
dollaro.
Tornai di corsa al negozio. Persi una mezz'ora a rovistare per
scegliere, infine scelsi una confezione di deliziosi biscottini inglesi
all'avena, e mentre uscivo soddisfatta, già con le dita impegnate nell'aprire la
confezione mi trovai davanti ad un'altra meraviglia: il cinema.
Un cinema
aperto che funzionava ancora, e proiettava.
E sapete cosa proiettava? Un film
western in Italiano "Per un pugno di dollari".
Ripresi la bicicletta e volai
nuovamente verso il Warush, mollai la bicicletta a Ghrma e corsi nuovamente da
mio padre.
"E questa volta cosa hai trovato?"
Il sovraccarico di sorprese
era tale che quasi balbettai: "Un cinema, un cinema vero, proiettano un film
western in italiano - per un pugno di dollari" lui sbiancò "E' un film di Sergio
Leone" lo fissai con lo sguardo interrogativo "E' un grande regista" rifeci lo
sguardo interrogativo "E' lo stesso. Di alla mamma che stasera andiamo al
cinema".
L'ideologia socialista, antimperialista e antiamericanista era stata come un
liquido versato in un sol getto. Aveva fortemente impregnato una piccola zona di
suolo su cui era caduta e poi si era sparso non uniformemente nel suolo
circostante, perdendo potere e lasciando le maglie larghe, man mano si
allontanva dal centro impregnato.
E Nazareth con il negozietto "Tutto ciò
che è rimasto puntini puntini" ed il cinema ne era l'evidenza.
E, a proposito, il cinema Nazareth?
Sul cinema di Nazareth ci sarebbe molto da raccontare. I film che proiettavano erano sempre gli stessi. Una decina di western con la pellicola ormai bucata qua e là, ma con una cornice al film sempre diversa. Era quello il vero divertimento, la vita che si muoveva nella sala come una seconda proiezione. C'era chi la riempiva con la partecipazione attiva alla vita e le vicessitudini del protagonista: scrosci di applausi e urla di incitamento, consigli sulle vicende amorose... ; chi chiacchierava d'altro perchè quel pezzo di film lo aveva già visto mille volte, però, nonostante le mille volte, per istinto, ogni volte che nello schermo apparive una canna di pistola in sua direzione si abbassava e restava con la testa bassa a finire di raccontare, fino a che non udiva lo sparo; chi veniva per occupare i posti migliori da vendere all'ultimo minuto agli spettatori più facoltosi; c'erano ragazzini che venivano a sbirciare le giovani con le gambe lunghe e lo sguardo sfuggente e chi già amoreggiava dietro alle tende di velluto bordeaux; poi liti e scazzottamenti per questioni di vario genere, anche su questioni legate al film, che costringevano l'operatore, dato che le urla e gli strepiti sovrastavano l'audio, ad interrompere la proiezione e scendere in sala, e poi un continuo via vai di persone che venivano a cercare qualcuno... che entravano ed uscivano accompagnati dalla maschera e sventolavano le tende scoprendo le coppiette nascoste... e, ancora, racconti..., e racconti.
Quando mio padre si stancò di vedere sempre i soliti film, cominciai ad
andare al cinema con nonna Berechtì, incuriosita dai miei racconti e dal naso
storto di mio padre: "fanno una tale confusione che anche se hai visto un film
20 volte non capisci mai cosa succede e come va a finire!"
E con lei il
divertimento aumentò.
Il cinema di Nazareth prevedeva quattro tempi con
biglietti di prezzo decrescente. Tra un tempo e l'altro c'era una lunga pausa in
cui gli spettatori appena entrati si facevano raccontare da quelli in sala ciò
che era successo fino a quel momento, e nonna Berechtì che si divertiva a
raccontare storie, cercava ogni volta di convincere qualcuno che, nonostante
fosse il film del mese prima, questa volta la storia aveva preso un'altra piega,
perchè l'operatore aveva aggiunto qualcosa. Un pezzo tagliato alla proiezione
precedente.
E si inventava storie senza fine che venivano bruscamente
interrotte dalle urla dell'operatore attraverso il foro per la proiezione:
"Itiè Berechtì basta, voglio andare a letto prima che sorga il sole"
E per concludere?
Dopo aver visto e rivisto gli stessi western a Nazareth,
un giorno ad Addis Abeba il figlio del signor Iemane arrivò trafelato, mandato
dal padre.
"E' tornata la tv!" urlava.
Era giovedì "Forse stasera
trasmettono The Fugitive" disse mio padre.
Quella sera, come qualche tempo
addietro, mio padre si alzò da tavola e si avvicino alla tv.
Girò la
manopola, mentre tutti noi aspettavamo con trepidazione.
Davanti ai nostri
occhi sgranati per la sorpresa, il monitor si accese, senza strisce e senza
rumore.
A quel punto eravamo convinti di veder comparire, da un momento
all'altro, le immagini di "the fugitive" e potete immaginare la spiacevole
sorpresa quando al posto del telefilm americano ci trovammo a guardare le
piroette di una ginnasta russa impegnata in una gara di ginnastica
artistica.
Purtroppo per noi, quella era la nuova tv, la tv del governo del
popolo. Solo saggi di ginnastica artistica, concerti di pianoforte , parate
militari e propaganda politica.
Mia nonna, quando tutti brontolammo per l'inganno, ci disse soddisfatta "Eh!
La tv! E' solo roba del regime, pensata e fatta per rintontirvi! Come ve lo devo
dire, voi ancora non mi credete ma è così. Prima solo programmi americani, ora
solo russe. Eh! Solo roba del regime"
"Però a Nazareth al cinema ci
vai"
"Si ma quello è un'altra cosa, lì c'è il film e anche la vita. Date
retta a me ragazzi, lasciate perdere quella scatola, meglio stare tra noi e
raccontare storie".