El Ghibli - rivista online di letteratura della migrazione

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editoriale

pap khouma

El-Ghibli, la nostra "calebasse di parole", compie un anno! Vi avevamo chiesto, all'inizio, di aprire i cassetti e mandarci i manoscritti. Senza esitare avete risposto in tanti. Di nuovo ringraziamo scrittori, poeti, saggisti, critici e, soprattutto, i numerosi lettori in rete. Avete creduto in noi e quindi è merito vostro se esiste e resiste la rivista El-Ghibli.
Nell'anniversario della sua prima uscita El-Ghibli organizza, in collaborazione con l'Associazione Culturale "Il Temporale", un festival della narrazione e della spettacolarizzazione della letteratura: teatro, canto, musica, ballo... Si terrà il 2,3,4 luglio 2004, a Villa Smeraldi, Museo della civiltà contadina, via San Marina 35, San Marino Bentivoglio - Bologna. Per ulteriori informazioni consultate il nostro supplemento nelle pagine seguenti.

In questo numero, l'eclettico somalo Nuriddin Farah, uno dei più grandi e impegnati narratori dell'Africa odierna, ci ha onorato della sua presenza. Farah, ancora quest'anno, è candidato al premio Nobel. Già nel 1998 ha vinto il premio Neustadt, una sorta di preludio al Nobel. La redazione di El-Ghibli rivolge a Nurridin i più fervidi auguri di successo. Nella sezione "Racconti e poesie" incontreremo gli scrittori Julio Monteiro, Jorge Kanifa Alves... Nella rubrica "Parole dal Mondo" la preziosa saggista nonchè scrittrice Elleke Boehmer, Niyi Osundare, una delle voci più originali della poesia contemporanea inglese, la grande poetessa Alexander Meena. Nella "Stanza degli ospiti", Carlos Montemayor e Juan Villoro...

Il tema portante di questo numero è l'oralità. Argomento intorno al quale il dibattito è sempre aperto. Da africano, proverò a portare il mio contributo, partendo da ricordi della mia infanzia.

Nei mercati della mia città - a parte ovviamente i soliti venditori - giravano maghi, guaritori, ciarlatani, predicatori. Personaggi singolari. Parlavano tante lingue, viaggiavano molto, sapevano ballare, cantare, erano dotti e incutevano soggezione.
Erano bravi ad attirare, radunare e vendere aria fritta alla folla di curiosi e di creduloni. Erano abili imbonitori in grado di divertire, raccontare storie straordinarie, far sognare grandi e piccoli, stimolare e adulare. A parole pretendevano di curare qualsiasi tipo di malattia; di far vincere la lotteria; esibivano radici, filtri o amuleti che avevano poteri miracolosi. Il loro punto forte era l'arte oratoria. E come i griot, sapevano raccontare con schemi e codici precisi. Nella loro bocca le storie più banali diventavano "leggende". Poi portavano notizie, come facevano anche qui i cantastorie. Mi viene in mente, per associazione di idee, lo zingaro Melquiades di "Cent'anni di solitudine", di Gabriel Garzia Marquez, un giramondo capace di attraversare le epoche raccogliendo e distribuendo paccottiglie e belle storie. Anch'egli aveva il dono di saper raccontare. Ma tutti questi personaggi non erano soltanto abili venditori, come dimostra la storia che segue.
Nel nord del Senegal, ai confini con la Mauritania, un mercante apre la bancarella all'alba, valuta la merce e calcola di poterne ricavare una certa cifra a fine giornata.
In quel momento passa un cliente che gli propone di acquistare tutto e subito proprio alla cifra ipotizzata dal mercante.
Il mercante riflette un momento, rifiuta l'offerta e spiega all'acquirente incredulo:
"La tua offerta è giusta, ma se ti vendo tutta la mia merce ora, con chi parlerò per tutto il resto della giornata? A chi racconterò le mie storie, se non ai miei clienti?".
Quello che ho raccontato finora non deve però indurre a confermare l'equazione tanto diffusa: Africa uguale soltanto tradizione orale, Europa uguale scrittura. Intanto bisogna precisare che la letteratura orale ha una sua dignità, precise caratteristiche ed è "praticata" da griot e cantastorie eredi di un sapere millenario. E poi non bisogna dimenticare (o addirittura ignorare) che l'Africa del sud del Sahara non è abitata da popolazioni prive di scrittura. In Africa ci sono testimonianze di scrittura antichissime, precedenti a quelle europee. Basta ricordare i geroglifici. Il Corno d'Africa, per citare uno degli esempi più eclatanti, possiede precise forme di scrittura dall'amarico al trigrino, ecc. Ancora oggi è terra di grandi scrittori e poeti, alcuni dei quali sono stati presentati anche dalla nostra rivista.

Il keniota Ngugi Wa Thiong'o*, famoso romanziere anglofono contemporaneo, per reazione a questo falso paradigma (Africa uguale tradizione orale) ora scrive soltanto in gikuyu e dichiara: "Collocando la nozione di coscienza letteraria al centro della mia opera, ho voluto restituire la complessità linguistica dei fenomeni letterari".
Come lui anche altri in Africa si stanno riappropriando delle lingue materne per dimostrarne la complessità e la dignità di lingue letterarie. Passaggio certamente non semplice per chi ha studiato ed è stato formato in una scuola con schemi e programmi imposti dagli europei.

Malgrado ciò, ancora oggi, c'è chi considera l'Africa nera una tabula rasa, linguistica e "grafica". Praticamente gli africani non avrebbero delle lingue ma soltanto dei dialetti in nessun modo trascrivibili. Io stesso ho avuto modo di verificare, durante lezioni o conferenze, che quando accennavo alla "mia lingua madre", una voce dalla platea mi interrompesse per "correggermi": "lei ha detto lingua, ma in realtà si tratta di un dialetto". Quando rispondevo che la mia è una lingua, trovavo sempre qualche caparbio disposto a sostenere il contrario. Però, se domandavo di quale dialetto si trattasse e in quale paese si parlasse, mi dicevano che non lo sapevano!!! Se si dà per scontato che in Africa non esistano lingue, figuriamoci letteratura!
Questa visione distorta è dovuta anche al fatto che la colonizzazione europea (inglese e francese...), per secoli, si è impegnata a negare e a cancellare ogni traccia di civiltà o di cultura dei popoli africani per meglio sottometterli. Lyautey, Maresciallo francese distintosi nelle guerre coloniali disse che Una lingua è un dialetto che ha un esercito e una marina!

Ma torniamo all'oralità, riferendoci ad Alain Ricard, esperto di letteratura africana, che nel suo libro "Littératures d'Afrique noire" (Karthala, 1995) alla domanda "che cos'è l'oralita?", risponde: "Il discorso letterario orale è molto preciso: sia internamente con dei tratti prosodici, come la poesia orale, sia esternamente, vale a dire in termini di genere, dato che è possibile classificare in ogni cultura e lingua un certo numero di discorsi/temi all'interno di categorie culturali e semantiche che sono dei generi letterari. Ogni africano che parla non produce letteratura orale. La parola, infatti, è attinente alle realtà sociali e linguistiche e per essere una forme d'arte orale, cioè una letteratura orale si deve organizzare/delineare attorno a schemi prosodici e/o di genere... Ogni forma di arte richiede una poetica, ogni performance richiama a sistemi di regole implicite che bisogna mettere in evidenza... La letteratura orale è un'altra lingua da tradurre: problema che richiede risposte basate su incontestabili conoscenze linguistiche... Si tratta di completare/integrare la linguistica del discorso francese (o inglese, ndr) con una linguistica del discorso delle lingue africane... Impossibile non domandarsi come la riduzione grafica del testo mostra delle forme stilistiche che distinguono il discorso che viene trascritto dalla stessa parola quotidiana...
L'arte verbale, proprio come ogni genere di arte, vive di forme; è importante identificarle nel discorso orale e eventualmente riflettere sulla loro trasposizione nel discorso scritto. L'opera critica, come l'opera pedagogica è un lavoro "textuel". Il nodo è sapere di quale testo si tratta e come è stato prodotto."

Al discorso di Ricard aggiungo qualche osservazione. Nell'800, i "testi orali" (fiabe, leggende, panegirici, canti, poesie) dei popoli africani colonizzati venivano raccolti e tradotti (in inglese o in francese) da europei che avevano una scarsa visione dell'Africa e del suo contesto linguistico, sociale o etnologico. Ne risultavano degli scritti per lo più travisati, liberamente interpretati, riadattati perché destinati a un pubblico diverso e lontano.
Quando furono gli africani stessi a trascrivere "l'oralità", a narrare e a scrivere prose e poesie, le lingue europee a loro volta subirono quello che un poeta della negritudine descriveva pressappoco così: non siamo stati noi, ma loro, le lingue europee, ad attraversare gli oceani. Non si affronta un simile viaggio senza rischi. Le abbiamo accolte, spiegazzate, stravolte, violate e rimodellate, per esprimerci con le nostre parole del Senegal e dei Caraibi.
Il nigeriano Amos Tutuola, l'ivoriano Amadou Kourouma e tanti altri confermano con le loro opere questa tesi.

Per concludere dò un altro esempio, contemporaneo ed europeo, di "oralità". Nelle periferie delle metropoli europee sono nati i figli della migrazione. La maggior parte non sa esprimersi nella lingua dei genitori e non ha mai attraversato l'oceano. Benché tutti siano stati cresciuti alla scuola e nelle lingue europee, quei giovani dalla "pluridentità" - e proprio per darsi una precisa identità - non hanno esitato a inventare le loro proprie lingue.
Hanno plasmato l'inglese, il francese, il tedesco, dando vita a nuovi codici linguistici.
Ora il loro modo di esprimersi ha superato le mura dei ghetti e sta dilagando nel mondo della cultura ufficiale: televisione, stampa, canzoni, cinema, letteratura fanno sempre più ricorso agli slang, alle lingue parlate nelle banlieues francesi dai figli dei maghrebini, nelle periferie inglesi e tedesche dai figli dei pachistani e dei turchi. A dimostrazione di quanto la lingua abbia una forza incredibile e non stia mai ferma. Perché, come diceva Italo Calvino "la lingua va dove gli pare...". E Richard Millet, in aggiunge: "Ogni scrittore, di qualsiasi cultura o provenienza, è costretto a inventarsi il proprio luogo delle parole".
E Marcel Proust: "Ogni scrittore è costretto a costruirsi la propria lingua, a spostarne i confini, a spingerli oltre ai limiti concordati. Lo scrittore, di qualsiasi corrente, ha l'incarico di inventare la lingua, cioè di ricrearla, di trasformarla in una sorta di lingua straniera, che non è un'altra lingua né un dialetto rivalutato, ma un diventare-altro della lingua".

Nel mio lungo editoriale sono passato da oralità a scrittura e da scrittura a oralità in una apparente confusione. Ma è impossibile "mettere ordine" - nel senso di separare le due cose - perché, a mio parere, sono strettamente intrecciate.

Pap Khouma


Vi propongo una curiosità tratta da Atlas des langues du monde
Roland Breton
Edition Autrement - 2003

Quante lingue nel mondo?

Tante cifre circolano sul numero delle lingue esistenti nel mondo. Nel 1929, l'Academie francaise ne calcolava 2796.
Da allora sono stati avanzati numerosi dati, ma sono contrastanti a causa della mancanza di censimenti e di indagini capillare nella maggior parte dei paesi. E anche soprattutto a causa dell'assenza di criteri universalmente accettati per valutare la distanza linguistica tra lingue e dialetti - unico modo per fare la differenza. Quindi conviene attenersi a fonti recenti basate su sforzi e metodiche coerenti.
Dal 1951 e circa ogni quattro anni, Etnologue, Languages of the World, edito a Dallas da Barbara F. Grime ... - che si appoggia su un rete mondiale d'informatori comprendenti parecchi missionari protestanti - conta un numero di lingue che aumenta progressivamente: 6528 nel 1992; 6703 nel 1996; 6784 nel 1999...

Un altro censimento interessante:
The Linguasphere Register of the World's Languages and Speech Communities - di David Dalby, pubblicato nel 2000 dall'Osservatorio linguistica di Hebron nel Galles - valuta 4994 lingue "esterne" (outer languages) includendo 13840 "interne" e 8881 dialetti. Questa classifica rifletta tre livelli crescenti di "interintelligibilte". Una lingua esterna può includere tante lingue interne che a loro volta includono i dialetti.

Un esempio noto, secondo Dalby, il serbo-croato, lingua esterna unica, include 9 lingue interne: 3 letterarie e 6 regionali e tra queste ultime, il serbo avrebbe 9 dialetti. La lingua esterna slovena, supererebbe tutti i primati, frazionandosi in 13 lingue interne e 49 dialetti.

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Anno 1, Numero 4
June 2004

 

 

 

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