El Ghibli - rivista online di letteratura della migrazione

Versione Originale | Nota biografica | Versione lettura |

stato-nazione e multiculturalismo

miguel vale de almeida

Pare si stia affermando un nuovo senso-comune: una certa "nuova destra", derivata dalla "vecchia sinistra", emette, a partire dai luoghi di potere che ora occupa, pareri negativi sui tentativi di democratizzazione delle nostre società. Uno dei bersagli preferiti è stato il "multiculturalismo". Ma si tratta di demagogia, dato che il parere negativo è emesso sulla base della completa omissione degli antecedenti (nazionalismi, razzismi,ecc.) contro cui il "multiculturalismo" era stato promosso. Tuttavia neppure la sinistra può sottoscrivere acriticamente modelli (come "multiculturalismo") senza procedere a una valutazione delle loro potenzialità e limiti. E' attraverso ciò che desidero iniziare, con un testo (ironicamente) scritto nel giorno dell'indipendenza di Timor Est

Il XIX secolo europeo - prolungatosi nel XX - è stato il secolo della nascita dello Stato-Nazione tale come lo conosciamo oggi. E' recente l' idea che la forma ideale di organizzazione politica, sociale e culturale sia quella della coincidenza, in un territorio, dell' esercizio della sovranità da parte di uno stato, di una lingua nazionale, di un popolo. Sappiamo oggi come la creazione dello Stato-Nazione è avvenuta sulla base di violenze reali e simboliche, di esclusione dell' Altro e della invenzione del Sé.

Sappiamo anche che questo processo fu contemporaneo, per alcune nazioni europee, alla costruzione dei grandi imperi coloniali. L' impresa colonialista e il nazionalismo dei secoli XIX-XX condividevano caratteristiche e partecipavano della stessa logica: se ogni Stato si definiva come il perfezionamento politico di una data civiltà etnicamente e linguisticamente definita, le sue colonie sarebbero state il luogo della conferma di una supposta vocazione civilizzatrice, corrispondente allo "spirito", al "genio" che si presumeva contenuto nel carattere nazionale del colonizzatore. Ma la colonia fu anche il luogo dell' invenzione, verifica e applicazione dei concetti che permettevano di legittimare lo stato-nazione e di situarlo all' apice di una linea di evoluzione storica.

Se da un lato lo Stato-Nazione permetteva di concepire un' idea di "comunità" che eliminava le differenze e diseguaglianze interne ( di genere, di classe, di regione, ecc.), la colonia, d' altro lato, assicurava l' ordine "naturale" di una disuguaglianza gerarchica implicita nell' idea che alcuni popoli o nazioni sarebbero superiori e avrebbero quindi l' obbligo di tutelare gli altri, inferiori. Nazionalismo e colonialismo si sono alimentati a vicenda ed è così che sono state costruite le comunità - ora instabili e contestate - in cui viviamo dal XX secolo in avanti e che attualmente si trovano in piena crisi.

Negli interstizi di questa organizzazione c' erano i gruppi che si trovavano in situazione di diaspora . Ebrei e Armeni, bene o male integrati nelle società europee di accoglienza, hanno sentito, in quanto creature del '900, la mancanza del loro stato-nazione. Il modo di legittimarsi e di essere legittimati come diversi all' interno delle unità nazionali in cui vivevano, fu di costruire le loro terre di origine nell' immaginario, come stati-nazione perduti e da ricostruire. La loro alterità in seno agli stati europei - o agli stati americani fatti a immagine e somiglianza del nazionalismo europeo - non somigliava all' alterità dei colonizzati. Erano, per così dire, europei o bianchi onorari. Essere membro di una diaspora non era lo stesso che essere emigrato/immigrato oggi, o colonizzato cinquant' anni fa.

A causa del pensiero evoluzionista ed etnocentrico, neppure tutte le diaspore erano (o sono) viste come uguali. Pensiamo a come due altre grandi diaspore non sono state viste, decisamente, come tali: mi riferisco agli zingari e agli africani, entrambi usciti dalle loro terre di origine da molto tempo, ma entrambi impediti di accedere allo stato diasporico. Ciò accadde, nel caso degli zingari, per non essere stati integrati nell' ordine borghese del sedentarismo e dell' esercizio corporativo delle professioni, essendogli persino rifiutato, in molti contesti ed epoche, l' accesso alla nazionalità; nel caso degli africani, per essere stati strappati alle loro origini da un processo violento, lo schiavismo, la cui responsabilità fu soprattutto europea. E, al limite, a causa delle classificazioni razziali.

Facciamo una parentesi: perché mi è simpatica, nonostante tutto, la nozione di diaspora? Proprio perché è in contraddizione con l' idea di stato-nazione. Essa permette, almeno teoricamente, di considerare possibile l' esistenza di affinità culturali umane che superano le frontiere e l' organizzazione degli stati; affinità che si costruiscono in un sistema globalizzato, transnazionale e intrinsecamente cosmopolita e antiparrocchiale. Il potenziale diasporico è andato sfortunatamente perduto con la furia nazionalista e coloniale: il sionismo ne è la comprova così come la debolezza dei piccoli gruppi di ebrei che si definiscono diasporici e non sionisti.

Torniamo ora alle somiglianze - o alla mutua costituzione - della cosa coloniale e della cosa nazionale. La somiglianza più grande si trova nel campo delle rappresentazioni sulla cultura e la società. Le nozioni di "popolo", "etnia" e "razza" sono state costruite in questo universo. Le razze sono servite a differenziare i colonizzatori dai colonizzati; popoli o nazioni a differenziare unità nazionali immaginate in tempi immemorabili nel seno della diversità europea; e le etnie a conferire un concetto più universale che abbracciasse le differenze tra gruppi endogamici , distinti soprattutto secondo il criterio linguistico - sia europei che extraeuropei.

Ancora pensiamo secondo questo modello. Ma questo modello è in crisi. Come e perché? Prima di tutto perché la "cosa" nazionale è implosa con l' avvento del nazi-fascismo e il punto estremo a cui le teorie razziali e nazionaliste sono giunte nel corso della seconda guerra mondiale. In secondo luogo perché la "cosa" coloniale è esplosa dopo la fine del colonialismo,come progetto e come istituzione. Infine, i processi nazionalisti di decolonializzazione hanno creato una realtà in qualche modo mistificata in cui, da un lato le nazioni colonizzatrici europee si sono apparentemente ridotte alla loro espressione territoriale ed etnica di origine e d' altro lato le ex colonie sono passate, in maniera altrettanto mistificata, a stati-nazione secondo la modalità europea. Sono due inganni che hanno avuto conseguenze terribili. Nel caso delle ex-colonie, come si sa, i territori delimitati con riga e squadra dagli europei tagliano linee di diversità etnica (molte delle quali, comunque, create o esacerbate dalle amministrazioni coloniali). Nel caso europeo il presunto ritorno alle frontiere storiche non è stato ritorno alcuno: da un lato perché in epoca coloniale si teneva molto alla distinzione tra ciò che era un nazionale e ciò che era un colonizzato; dall' altro perché le società europee del dopo-guerra vedranno la loro struttura demografica considerevolmente alterata dalle correnti di immigrazione dalle ex colonie. Il sistema coloniale ha dato luogo a un sistema internazionale di cui conosciamo il quadro: la creazione del sottosviluppo secondo una linea divisoria tra primo e terzo mondo e il sorgere inatteso, in Europa, di società multiculturali basate su disuguaglianze sociali profonde tra nazionali e immigrati.

L' immigrato è rappresentato, nelle società di accoglienza, come qualcuno che intrinsecamente non appartiene loro. E come qualcuno che, invece di avere una terra di origine che non può più recuperare (come sarebbe nel caso di una diaspora tradizionale), ha una terra di origine a cui, prima o poi, deve tornare, secondo i canoni dello stato-nazione. Dal punto di vista simmetrico, quello dell' immigrato, questi costruisce la sua identità come l' identità di qualcuno che si trova di passaggio nel paese di accoglienza, ma vuole o deve, un giorno, ritornare al paese di origine. Sono entrambi "vittime" dello stesso sistema, cioè entrambi pensano in termini di origine e di arrivo, di luogo legittimo e luogo illegittimo. Perché le loro identità sono state entrambe storicamente costruite dai discorsi e dalle pratiche del nazionalismo e del colonialismo.

Ho detto sopra che questo modello è entrato in crisi profonda. Alcuni teorici hanno dato a questa crisi il nome di post-coloniale. Io preferirei che venisse chiamata anche post-nazionale. Quali sono i tratti che identificano questa crisi? In primo luogo la disillusione sentita soprattutto nei paesi usciti dal processo di decolonizzazione, con le illusioni di crescita e sviluppo modernizzatori che non si sono verificati; disillusione dei confronti di stati-nazione che non si sono realizzati, anzi, si sono trasformati in barili di polvere di conflitti fratricidi; disillusione nei confronti delle utopie socialiste di costruzione di un ordine egualitario e internazionalista. In secondo luogo la disillusione sentita nelle nazioni europee ex colonizzatrici: lo stato-nazione ha smesso di essere il luogo di convergenza dell' accumulazione o il luogo di origine della produzione a causa della globalizzazione finanziaria, della dislocazione dei processi produttivi e della necessità dei flussi migratori di manodopera.

E' curioso - e forse paradossale - che la reazione più evidente a questi disagi sia stata ancora la rinascita del nazionalismo e del modello di stato-nazione. Basta guardare l' Europa post caduta del muro di Berlino; basta guardare i processi di disintegrazione degli stati africani e non solo. Ma tale disperazione nazionalista non è altro che questo, disperazione appunto, e non più forza propulsiva persino, a volte, progressista (come lo era stata all' inizio dell' unificazione d' Italia o dei movimenti anticolonialisti). Ciò accade nel momento in cui i processi di mondializzazione si sono fatti irreversibili, in cui è difficile porre ostacoli o regole nazionali alla globalizzazione; in cui i flussi migratori sono inarrestabili e le realtà socio-culturali da essi create hanno posto radici inestricabili. Insomma, l' unico modo di dare una soluzione ai problemi potrà essere la regolazione internazionale delle globalizzazioni (in particolare del settore finanziario), dello sviluppo dei paesi sottosviluppati e della creazione di un ordinamento politico di cittadinanza genuinamente multiculturale. L' impulso verso il multiculturalismo trova alcuni dei suoi migliori difensori tra membri della diaspora. Innanzi tutto tra gruppi e strati molto specifici: quelli costituiti da persone che sono, come direbbe Salman Rushdie, "irrimediabilmente tradotte": quelle persone o gruppi che vivono in circuiti internazionali, condividendo due o più culture, o che sono il risultato di identità culturali ibride, prodotte a partire dalla cultura di origine degli antenati e dalla cultura di arrivo a cui sentono di appartenere di pieno diritto. Questa consapevolezza di identità multipla e interstiziale è evidente tra le élites letterate e certi gruppi socio-professionali in cui le persone sono chiaramente a confronto con requisiti culturali diversi, a volte contraddittori tra loro. Non è certo un caso che un discorso sulla diaspora e le identità di frontiera , "in-between", come le chiama Homi Bhabha, sorge nel campo degli studi letterari e tra gli stessi scrittori e intellettuali soprattutto in due grandi "gruppi": Anglo-Indiani e Anglo-Afro- Caraibici che vivono in società cosmopolite e post- imperiali come Londra.

Ma se un concetto come diaspora sorge ora senza riferimento alle diaspore storiche di ebrei e armeni, cosa sostituisce, a cosa si oppone o da cosa si differenzia? Possiamo trovare due termini con equivalente valore di circolazione nel mondo contemporaneo: emigranti/immigrati e minoranze etniche. La ragione per cui "migrante" non è parola amata negli attuali discorsi sulle realtà transculturali è il suo essere segnata dal fattore socio-economico e di classe. Secondo il senso comune, e non solo, migrante è colui che lascia il suo paese perché non vi trova condizioni di sussistenza e si dirige verso un altro dove le trova. Non viene visto come espatriato o esiliato culturale.

Nel paese di origine è visto in due modi, a seconda del luogo che l' osservatore occupa nella scala sociale: dai suoi pari, come qualcuno che è riuscito a superare avversità e limitazioni; sono infatti apprezzate le sue rimesse monetarie ed è ammirato il suo ritorno in quanto manifestazione di ascesa sociale; da quelli che gli sono socialmente superiori è visto come un disacculturato o un "nuovo ricco" che, nel paese di accoglienza , trasmette un' immagine sbagliata (perché popolare e subalterna) della cultura nazionale definita dalle élites e, al ritorno, si presenta come nuovo ricco o ibrido, nel senso deteriore della parola. Nel paese di accoglienza egli è, contemporaneamente, la mano d' opera necessaria per i compiti più spregiati e l' Altro per eccellenza, che non riesce a integrarsi, che porta con sé costumi "barbari", che è un potenziale pericolo per l' ordine sociale e, in ultima istanza, il bersaglio della xenofobia, il capro espiatorio delle tensioni sociali. Teniamo a mente questo: la categoria migrante è contemporaneamente segnata dalla subalternità e dalla minaccia di disordine.

Questa interpretazione vuole rendere più complessa l' analisi, spostandola dal mero campo della differenza nazionale ed etnica a quello della diseguaglianza sociale e di classe. Ma manca una dimensiona analitica importante: il tempo. Il migrante del mio esempio è il migrante che durante il tempo della sua vita individuale lascia il paese di origine per il paese di accoglienza e ritorna al paese d' origine , esplicando la sua funzione nell' economia internazionale. Ma cosa accade se invece rimane nel paese di accoglienza? Cosa accade se ha figli nel paese di accoglienza e questi vi rimarranno e così di seguito? Ecco quindi la terza categoria con la quale abbiamo a che fare qui - quella di minoranza etnica. Esistono di certo minoranze etniche che nulla hanno a che vedere con le migrazioni. Proprio perché lo stato- nazione a cui mi sono sopra riferito è stato costruito a ferro e fuoco, non è mai giunto a stabilire con perfezione la purezza etno-linguistica, conservando al suo interno sacche di differenza che, ispirandosi al modello egemonico dello stato-nazione, si sono cristallizzate e radicalizzate come identità minoritarie (basta pensare ai casi Catalano e Basco nello stato spagnolo). Ma le minoranze etniche a cui mi riferisco qui hanno, per il fattore tempo, una caratteristica che le rende più fragili: il periodo del loro arrivo è conosciuto e recente (post-coloniale), così come le ragioni per cui sono arrivati(subalternità socio-economica) , le attività in cui si sono impegnati (le più disprezzate), gli spazi che hanno occupato (ai margini). Ma forse il segno più evidente della minoranza etnica, oggi, è la razza, che assorbe in sé cultura, lingua e/o religione.

Questo terribile concetto è il figlio prediletto del colonialismo. Ciò a cui si assiste oggi, soprattutto in Europa, è il ritorno alle categorie escludenti e naturalizzanti del razzismo, ma alterandone la definizione per l' obbrobrio a cui l' espressione "razza" è stata condannata nel dopo-guerra. Ora si usa "etnia" o anche "cultura" agli stessi fini. Le situazioni coloniali - e oggi le situazioni post-coloniali nelle ex-metropoli - sono spazi e tempi in cui popolazioni differenziate da segmentazioni di disuguaglianza vivono fianco a fianco. Niente di nuovo, fino a un certo punto, perché qualsiasi società è segmentata da differenze e diseguaglianze. Pure qualcosa di nuovo c' è: si tratta di segmentazioni nuove, caratterizzate da "nuovi" criteri: la commistione tra i criteri della differenza etnica e "razziale" e i criteri della diseguaglianza economica e sociale. Se un padrone e un operaio hanno da tempo stabilito un "protocollo" per conflitti e negoziati, un nazionale e uno straniero stanno ancora costruendoli - e l' unico "protocollo" a cui possono ricorrere, già stabilito, è quello ereditato dal rapporto coloniale. Se la situazione coloniale, per la sua natura di occupazione, stabiliva regole di separazione - implicite o esplicite in un largo spettro, dalla retorica multirazziale del tardo colonialismo portoghese fino all' apartheid sudafricana - la situazione post-coloniale nelle città industriali moderne non riesce a farlo. Accetta il ghetto o la piena assimilazione. Non accetta mediazioni o il superamento di questa dicotomia. Accetta l' acculturazione o il separatismo. E questo tanto da parte delle popolazioni e delle istituzioni del paese di accoglienza, quando da parte dei membri delle minoranze etniche. Ciò che non pare essere accettato è la transculturalità, la condizione "tradotta", cosmopolita, "in-between". Purtroppo.

La "contaminazione" - la fine dei puri, la nascita degli ibridi - avviene in due sensi. In uno, prodotti culturali del migrante/minoranza etnica/diaspora (e passo qui alla scala più comprensiva), contaminano la società di accoglienza: cibo, musica, danza, questo prima di tutto e non a caso, dato che entrano dalla porta del corpo e dei sensi, non da quella della razionalità e dell' ordine sociale. Nell' altro, le istituzioni e le leggi della società di accoglienza contaminano i gruppi venuti da fuori. Quest' ultimo senso è ovviamente (ma al contrario di quel che il pensiero xenofobo crede) più pesante e complesso: va dalla repressione poliziesca alla cultura dei diritti umani e della cittadinanza; va dallo sfruttamento sul lavoro ai benefici della sicurezza sociale; va dai discorsi razzisti ai contatti col pensiero critico ( quanti movimenti anticolonialisti non sono stati generati nelle metropoli da colonizzati che frequentavano le università occidentali?) Ma questo quadro deve essere reso più complesso se non vogliamo sottoscrivere una teoria della cultura che la vede come chiusa in compartimenti stagni, come proprietà di un gruppo separato. Il fatto è che i gruppi di migranti/minoranze/diaspora sono socialmente diversificati, così come lo sono le società di accoglienza. Questo da un lato. E le realtà culturali nelle società urbane non sono dualistiche, cioè formate da ospiti e ospitati, bensì da vari tipi di ospitati (e vari tipi di ospiti?), popolazioni dalle origini più diverse che si incontrano per la prima volta.

In riferimento al primo aspetto: un determinato gruppo etnico in una grande città europea, per esempio, è, innanzi tutto, formato da uomini e donne, quindi da rapporti diseguali di genere; è formato da immigrati economici e da diasporici, cioè immigrati culturali (quadri, intellettuali, rifugiati politici, ecc.), quindi da rapporti sociali di classe e di statuto diseguali; è formato, infine, da gruppi di età diversa, corrispondenti , in questo caso, a diversi periodi di arrivo, quindi da rapporti generazionali diseguali. Quanto al secondo aspetto, ci addentriamo in una delle aree più discutibili: la società occidentale, inventrice, allo stesso tempo,del razzismo scientifico e dell' Olocausto da un lato, dell' idea dei diritti umani e della cittadinanza dall' altro. Il luogo di immigrazione è quindi il luogo, per eccellenza, del conseguimento della cittadinanza. Sono d' altra parte queste contraddizioni dell' Occidente che permettono di riconoscere - al contrario di ciò che dice il relativismo morale - l' universalità di attributi come i Diritti Umani e la loro appropriazione/rivendicazione da parte delle comunità immigrate, nel paese di accoglienza e in "casa".(1)

Sulla base degli incontri e mancati incontri tra società di accoglienza e gruppi di immigrati, vari sono stati i modelli sperimentati per plasmare (o rifiutare) questa irreversibile realtà: lo stato-nazione puro è fallito ed è venuta ad affermarsi una qualche forma di multiculturalismo.

Il primo modello è quello della resistenza/rinascita dello stato-nazione, o nazionalista in tutta la sua purezza. Assomiglia a un fondamentalismo: cerca di attualizzare nel presente un passato mai esistito, come reazione a un presente che appare irrimediabilmente Altro. Il modello prescrive l' unicità linguistica e religiosa, la distinzione tra nazionali e stranieri basata sul diritto di sangue, l' immigrazione temporanea con visto di lavoro a scadenza ma senza possibilità di residenza, ricongiungimento familiare o esercizio della cittadinanza. Il secondo modello è quello che potremmo chiamare multiculturalismo essenzialista. In realtà corrisponde a una varietà di submodelli: la distinzione tra nazionali e stranieri sfasata per generazioni, come quando si applica il diritto di suolo per dare la nazionalità a un bambino nato nel paese di accoglienza; o l' accentuazione della differenza culturale ma insieme l' accesso alla cittadinanza come in Olanda, dove, malgrado la concessione della cittadinanza, lo Stato promuove l' identità culturale specifica dei gruppi stranieri, segnando così perversamente una differenza costitutiva delle identità personali e gruppali; oppure quello che pone l' accento sulla cittadinanza nazionale integratrice e assimilatrice, presupponendo il multiculturalismo come transitorio.

Il terzo modello è quello che sta per arrivare: quello del "multiculturalismo completo, o,come preferirei chiamarlo, della cittadinanza cosmopolita, in cui, "multiculturalismo" non sarebbe più un' espressione necessaria. Il multiculturalismo è un concetto complicato per la sua ambiguità politica e per la manipolazione retorica a cui si presta. Non serve andare molto lontano: può essere mera risorsa retorica, come lo è stato nel periodo finale del colonialismo portoghese; o può prestarsi a giustificare forme di esclusione: l' apartheid si basava in gran parte sulla teorizzazione di una differenza culturale irriducibile e sulla difesa di questa differenza (il che è quanto meno ironico: sentir parlare del diritto alla differenza come di un dovere e come la base per la diseguaglianza?)

Il problema, è chiaro, sta nel concetto di cultura utilizzato in questi sistemi e che è il concetto ancora oggi vigente nel senso comune, lo stesso che fu alla base della creazione dei progetti coloniali e di stato-nazione: la cultura come un insieme di attributi essenzializzati (come fossero naturali, senza prendere in considerazione il processo storico, l'interculturalità, le diversità interne di qualsiasi gruppo) di una popolazione specifica, con una geografia delimitabile. Insomma, la cultura come una "cosa". Ora, se questo concetto oggettificante della cultura serve soprattutto per escludere e impedire la contaminazione, serve anche a far sì che gli esclusi si costituiscano come gruppi e rivendichino diritti proprio sulla base dell' accettazione di questo concetto formulato da chi li esclude. Per questo le identità etniche e razziali e, al limite, i fondamentalismi, sono strategici: in determinate congiunture sono addirittura l' unico modo di reagire e negoziare. Uno dei risultati della oggettificazione della cultura è la sua mercificazione. Nei contesti detti plurietnici, il multiculturalismo non è altro che l' istituzione di un supermercato delle culture a ognuna delle quali spetta promuovere una determinata merce: musica africana, cibo cinese, spiritualismo orientale, cultura pop americana, ecc. Gli stessi membri dei gruppi minoritari marginalizzati ricorrono, ovviamente, alla mercificazione come modo di costruzione dell' identità e di occupazione di nicchie nella società "multiculturale". Quando rinunciano a riprodurre queste aspettative, non sono più visti come membri della cultura x e passano a essere visti come acculturati o - col passare delle generazioni - come membri della cultura y.

Esiste alternativa a questo binomio separazione/acculturazione? Io credo di sì, ma se si esce dall' analisi sociale e si passa alla politica. Credo che esistono progetti possibili basati su ciò che già c' è di buono ed esistono indizi su come le cose potrebbero diventare. Quanto ai primi: innanzi tutto la cittadinanza individualizzata. In secondo luogo il relativismo culturale. In terzo luogo la diversità come valore. Quanto ai secondi: le figure irrimediabilmente tradotte e i loro prodotti culturali - le creolità. Affinché questo progetto sia possibile e tali indizi vengano moltiplicati, bisogna essere molto critici su alcune verità precostituite e continuare alcune vecchie lotte. Le verità precostituite sono la nozione di cultura come cosa e essenza, ereditata dallo stato-nazione e dal colonialismo ; la confusione tra relativismo culturale e relativismo etico; e l' idea dell' unicità culturale o della cultura che si definisce come autonoma; si devono cioè riconoscere e si deve lavorare sulle distinzioni di genere, generazione e classe all' interno di qualsiasi categoria descrittiva. Le vecchie lotte da continuare sono quelle che hanno a che fare con lo sviluppo sostenibile, l' introduzione di meccanismi di giustizia e redistribuzione nell' economia globalizzata e con la pedagogia antirazzista. A queste dovremmo aggiungere nuove lotte: le lotte che hanno a che fare con la diseguaglianza e i rapporti di classe non possono più passare per la divisione tra nazionali e immigrati (come abitualmente accade nel sindacalismo), o tra nazionali e stranieri nei rapporti di genere (come si lega la condizione femminile dell' immigrata a quella della nazionale?) e questi livelli dovrebbero essere combinati tra loro. Il progetto della cittadinanza cosmopolita sarà lavoro delle generazioni future ma, ovviamente, solo potrà essere compiuto dai settori meno privilegiati delle migrazioni/minoranze/diaspore se, in precedenza o simultaneamente, verranno garantiti i loro diritti di base: diritto al lavoro, accesso allo stato sociale e ai diritti civici sulla base di una semplice premessa: chi lavora e abita in un determinato territorio è membro a pieno diritto della comunità - tagliando così gli ormeggi perversi del vecchio stato-nazione e dell' esperienza coloniale.

Traduzione: Maria Teresa Palazzolo

(1) E' questo a far sì che Pim Fortuyn venga appoggiato da immigranti musulmani mentre accusa la cultura islamica di non essere passata attraverso la "lavatrice" dell' illuminismo. Si può, onestamente, non dargli qualche ragione?

Inizio pagina

Home | Archivio | Cerca

Archivio

Anno 0, Numero 3
March 2004

 

 

 

©2003-2014 El-Ghibli.org
Chi siamo | Contatti | Archivio | Notizie | Links