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hic sunt leones

vico terzi

1

“Hic sunt leones”1 tuonò con vocione cupo Onorio, il vecchio bibliotecario, toccando con la bacchetta una consunta carta geografica appesa al muro. Eudo trattenne uno sbadiglio e di sbieco spiò la reazione degli altri monaci. Era tutto cominciato quando nello scriptorium, nelle ore mattutine dedicate alla lettura e alla discussione dei testi sacri, qualcuno era saltato su a dire che i leoni vivono dappertutto in Africa e qualcun altro aveva obiettato che invece vivevano solo in una parte ben precisa. Era una disputa oziosa, per chetare la quale, però, Onorio aveva tirato fuori una vecchia carta e aveva tenuto quella brevissima e dogmatica lezione di geografia, in una frase sola: “Hic sunt leones” .
Eudo, annoiato, si chiedeva quanti dei suoi colleghi fossero davvero interessati a quella tediosa spiegazione, resa ancora più fastidiosa dal fatto che, quando ci si metteva, Onorio voleva avere l’attenzione di tutti quanti i presenti. Altro che geografia!, pensava Eudo: di fuori, oltre le finestre dello scriptorium, gli alberi muovevano piano piano le fronde alla dolce brezza di primavera e il sole d’aprile ammiccava coi suoi raggi dorati. A sua totale insaputa il suo sguardo era scivolato dalla carta al muro, dal muro alla finestra, e dalla finestra agli alberi e al cielo blu, sgombro di nubi.
“Eudo, nonne audieris?” 2 Eudo si riscosse con uno scatto. “Sic, magister: hic sunt leones!” 3
Aguzzò un poco la vista per vedere dove gran diavolo toccasse la punta della bacchetta di Onorio: mentre gli occhi ancora pieni di sole si riabituavano all’oscurità delle volte, Eudo vide la punta della canna appoggiata su una qualche regione meridionale dell’Africa, appena sotto la Mauretania. Si chiese come potessero essere tutti così certi che laggiù si trovassero dei leoni, quand’era stato più volte ribadito che nessuno mai s’era spinto in quelle terre. Non aveva mai amato troppo Onorio, vecchio monaco arrivato dall’Italia “per elevare la cultura dei confratelli d’Aquitania”, com’era stato loro detto. E ancor di meno sopportava quell’inutile disquisizione nello scriptorium in quel delizioso giorno d’aprile. Presto sarebbe uscito con i suoi compagni, per andare a consumare il prandium di mezzodì e di lì finalmente sarebbe stato un po’ nei campi a lavorare, probabilmente in compagnia del suo amico Veranio. Con la scusa del lavoro, avrebbe potuto respirare un po’ d’aria fresca e fare quattro chiacchiere, divertendosi a guardare gli alberi e la natura circostante.

Nel 732 la vita di un convento benedettino d’Aquitania si sarebbe svolta lenta e tranquilla, non fosse stato per il trambusto causato dai Mori. Costoro, invasa la Spagna ventun anni addietro e conquistatala in meno di dieci, s’erano poi spinti fin nella Gallia Narbonese a meridione e a settentrione in Aquitania, per l’appunto, mettendo la regione a ferro e fuoco. Di lì a sei mesi Carlo Martello li avrebbe definitivamente arrestati a Tours, mettendo la parola fine alla loro avanzata nel mondo cristiano. Ma all’epoca in cui si svolsero questi fatti si era ancora in aprile e voce di quell’armata di infedeli era giunta fino al monastero, diventando la notizia del momento.
Finito lo studio nello scriptorium, poco prima delle dodici, Eudo corse al refettorio dove, in barba alla regola del silenzio, fece capire a Veranio che voleva vederlo fuori, quando si sarebbero recati al lavoro. Finito di mangiare, quindi, i due s’incontrarono nella corte, e lì, intanto che si recavano a prendere gli attrezzi, Eudo disse:
“Ascolta, ho voglia di fare quattro chiacchiere. Al campo, vedi di stare vicino a me.”
“Di che cosa vuoi parlare?” chiese Veranio.
“Dei Mori: ho sentito nuove voci e volevo sapere che cosa ne sai tu.”
“Va bene.”

Veranio veniva dalla Spagna donde era scappato qualche anno prima, dinanzi all’avanzata dei Mori. Né lui, né Eudo avevano veramente preso l’abito benedettino spinti da una grande vocazione. Veranio non aveva avuto scelta una volta arrivato in terra straniera. Eudo, per conto suo, figlio cadetto di un nobilotto del luogo, vi era stato più o meno costretto dalla famiglia. Proprio per questo motivo i due avevano fatto amicizia abbastanza presto e, non appena potevano, si ritrovavano per chiacchierare o discutere, entrambi segretamente desiderosi che, per mollare la tonaca e fare qualcosa che più si confacesse al loro carattere o alle loro ambizioni, si presentasse presto un’occasione.
E l’avanzata dei Mori poteva essere una di queste.

Un po’ più tardi, al campo, Eudo e Veranio s’erano quindi fatti assegnare a tirar via le erbacce e così, accovacciati uno accanto all’altro, discutevano fitti a voce bassa, mentre gli altri loro colleghi o zappettavano, o portavano acqua, o seminavano legumi.
“Ho sentito dire che sono arrivati a qualche miglio da qui… me l’ha detto il cellario” bisbigliò Eudo.
“E a lui chi l’ha detto?”
“Uno del paese… uno di quelli con cui ha a che fare.”
Veranio scrollò le spalle.
“Ma come sono i Mori?” incalzò Eudo.
“Non peggio dei nostri quando fanno la guerra. Se arrivassero adesso saremmo spacciati.”
“A sentire l’abate, il Signore ci proteggerà.”
“Se ci protegge come ha protetto il santo regno dei Visigoti in Spagna” commentò con un sogghigno Veranio “stiamo freschi”.

Eudo non fece caso alla frecciata di Veranio: per quanto non fosse un ardente credente, non si sarebbe mai espresso a quel modo. Ma Veranio era più acido, forse reso tale dalle vicissitudini alle quali aveva dovuto far fronte. A Eudo, però, non importava. Si trovava bene lo stesso insieme a lui. E così continuò a interrogarlo sui Mori, sulle loro abitudini, sul loro aspetto, costantemente intrigato dalle mezze spiegazioni e dalle frasi a spizzichi che con non pochi sforzi riusciva a cavare di bocca all’amico. Quello che Veranio non sapeva o non voleva dirgli, Eudo se l’immaginava. Da un lato pensava ai Mori come ad un popolo spietato, dall’altro come ad una strana razza misteriosa, magica, venuta da chissà dove, con usi e costumi diversi e un Dio uguale al loro, ma che essi riverivano (stando a quanto aveva sentito) con un fervore che mai lui aveva veduto nella cristianità e che gli pareva impensabile.
Tra una chiacchiera e l’altra, con un commento di qua, una frecciatina di là, e tante, tante erbacce, le ore passarono veloci e finalmente anche per quel giorno giunse l’ora di rientrare.

Per tornare al monastero i monaci solevano passare accanto al villaggio. Avrebbero potuto attraversarlo, ma non stava bene. Prendevano quindi una strada campestre che, aggirandolo, si riallacciava poi a quella principale, e da lì li conduceva a destinazione. Giunte che erano le cinque, quindi, si erano preparati a rientrare al convento e, presi attrezzi e mercanzie varie, si erano messi in cammino.
E avevano fatto sì e no un miglio di strada quando, passando sotto le case del paese, sentirono un improvviso frastuono: dalle case si levavano confuse delle urla di donne e degli schiamazzi, cui si mescolavano nitriti di cavalli, grida d’uomo e rumor di spade che s’incocciavano.
I monaci si erano fermati tutti ad ascoltare e a guardare, mentre Eudo, un po’ agitato, si era voltato verso Veranio, il quale, serio e immobile, osservava la scena ed ascoltava: il suo volto accigliato aveva l’espressione di chi aveva già visto e inteso simili eventi. Non fece neppur mostra d’intendere Eudo che, scuotendogli il braccio, gli chiedeva che grande accidenti stesse succedendo.

Per avere una risposta Eudo, comunque, non dovette attender troppo: aveva appena finito di chiedere informazioni al suo amico quando un gruppo di cavalieri, sbucando da dietro le case, prese a rotolare al galoppo giù per il prato.
Indossavano vesti coloratissime e svolazzanti, e mentre con le spade sguainate correvano in groppa alle loro cavalcature in direzione dei monaci, lanciavano urla incomprensibili. Spaventato, ma pur sempre affascinato, Eudo li seguiva con occhi stupiti e curiosi: mai aveva visto vesti simili o simili guerrieri.
In un attimo Eudo e gli altri monaci ne furono circondati.

Ve n’era uno in particolare che aveva colpito l’attenzione di Eudo: aveva vesti più raffinate ed eleganti degli altri e, da come si comportava, sembrava essere il loro capo. Anche la sua cavalcatura era più nobile.
Eudo non si stancava di riempirsi gli occhi di quella vista e si sentiva proiettato in una dimensione meravigliosa e irreale al tempo stesso, di cui però si rallegrava, considerandola un diversivo alla noiosa vita monastica. Pensava, tra sé e sé, che dopo quello spettacolo, ognuno avrebbe preso la sua strada, i cavalieri sarebbero tornati indietro e loro sarebbero rientrati al convento. Già fantasticava sui giorni a venire, quando avrebbe tenuto banco e si sarebbe fatto bello a raccontare ad altri monaci giovani quella mirabile e inaspettata avventura.

Ma un urlo agghiacciante alle sue spalle lo riportò con violenza alla realtà. Si girò appena in tempo per vedere un monaco stramazzare a terra con la gola passata parte a parte da uno degli uomini a cavallo.
Rimase pietrificato, a bocca aperta; la zappetta, che fin’allora aveva tenuto sollevata a mezz’aria, gli scivolò di mano: quel guerriero, che poc’anzi gli era parsa una creatura curiosa e meravigliosa, ora gli appariva nitidamente sotto le sue vere demoniache sembianze! Eudo era certo di avere davanti a sé Satana in persona: ne era certo perché attorno a quell’orrida figura vedeva chiaramente salire le vere fiamme e il vero fumo dell’inferno, che l’avviluppavano con le loro lingue infuocate e le loro volute nere e dense.
Il terrore s’impossessò completamente di lui, afferrandogli spietato la bocca dello stomaco e mozzandogli il respiro.
A poco a poco, però, scemando l’emozione, i contorni della scena presero tratti più nitidi ai suoi occhi e i contorni del demone infernale lasciarono il posto alle forme di un cavaliere moro, mentre le fiamme che avvolgevano le sue spalle si staccarono da queste e presero ad ardere sulla sagoma nera del convento in lontananza.

2

Farsela a piedi dall’Aquitania a Cordova non è cosa da poco. Specialmente se si è incatenati. Nonostante tutto, però, Eudo e Veranio erano sopravvissuti.
Il capo della banda di Mori che li aveva catturati qualche mese prima, aveva deciso che i monaci non sarebbero stati macellati, ma sarebbero meglio serviti come schiavi. E in quanto tali li aveva fatti spedire a Cordova, la capitale del nuovo califfato, per essere messi in vendita.
Eudo non sapeva, a quel punto, se essergliene grato o no. Il viaggio l’aveva sfiancato, vuoi perché l’unico mezzo di trasporto su cui aveva potuto fare affidamento erano state le sue gambe, vuoi perché il carburante per azionare quei motori veniva dispensato con grande parsimonia dai suoi padroni. Fatto sta che era arrivato alla capitale del nuovo regno decisamente impresciuttito, per non dire quasi pelle e ossa.
Pur tuttavia aveva resistito e, per quanto secco e fibroso, era chiaro che, se fosse stato nutrito come si deve per un paio di settimane, si sarebbe rimpolpato e ne sarebbe venuto fuori un buono schiavo.

Se ne stava quindi in catene, sopra di un palco, in compagnia di Veranio e di altri sventurati, come un pesce in bancarella in attesa di essere venduto. Per meglio ammirare o apprezzare il prodotto offerto, gli schiavi venivano coperti di un abbigliamento minimo. Eudo, in particolare, vestiva ormai solo un paio di braghette, il che permetteva ai potenziali acquirenti di ammirare le sue (magre) forme e la pelle abbronzata. Più per forza che per amore, s’era fatto crescere i capelli e la barba che, biondi, avevano finito per incorniciare il suo volto di celta quasi purosangue.
Non fosse stato per l’abbronzatura, sotto i raggi del sole d’agosto si sarebbe cotto e ringraziava il cielo di essere così bello scuro di pelle e di poter godere di quanto l’astro d’Apollo dispensava, anziché soffrirne.

E intanto che aspettava, ripensava alle parole che aveva scambiato qualche tempo addietro con Veranio sul loro destino. L’amico l’aveva informato del fatto che, se non fossero stati venduti, sarebbero stati passati a fil di spada, giacché schiavi improduttivi sono solo bocche da sfamare, e né Mori né cristiani possono permettersi certi lussi.
La cosa aveva colpito Eudo non poco e non meno del tono di semindifferenza con la quale Veranio, certamente più abbattuto di lui, l’aveva informato di quel fatto. Ora, seduto su di un asse, cercava di escogitare un qualche piano di fuga, se non altro per cercare di dare una direzione al proprio destino anziché subirlo, se era possibile.
Ma mentre era assorto in quei pensieri, uno strappo deciso alla catena che lo teneva legato lo riportò repentinamente alla realtà. Voltatosi a guardare che accidenti fosse mai successo, vide uno degli sgherri del suo padrone tirarlo a sé. Non volendo allontanarsi e lasciare l’amico, Eudo diede uno strattone di rimando sortendo, quale unico effetto, di fare arrivare altri tre guardiani a tirarlo e per lui non vi fu più scampo.

Allora non lo sapeva ancora, ma non avrebbe più rivisto Veranio. Trascinato via, venne portato al cospetto di un uomo – un moro – che, si vedeva dagli abiti e dalla figura assai florida e grassoccia, era molto ricco. Nonostante la voce poco profonda che usciva dalle sue labbra non lo si sarebbe potuto dire “effeminato”; pur tuttavia era decisamente privo virilità, ed Eudo non sapeva darsi alcuna spiegazione della cosa. Fu solo più tardi che scoprì che cos’era un eunuco. Al momento si limitò a sorprendersi del fatto che costui gli rivolgesse la parola in latino:
“Piacere. Mi chiamo Tariq ar-Rahyad. Sono incaricato di informarti che sei stato comprato. Sarai mandato presto – ovvero subito – in Mauretania dove lavorerai per il tuo padrone. Lascia che ti dica che sei molto fortunato.”
Pensando alla sorte della merce (come lui) invenduta, Eudo si ritenne invero fortunato, sennonché non era molto sicuro della sorte che gli sarebbe toccata. Voleva fare qualche altra domanda, ma… niente da fare: l’uomo grasso era già sparito e due forti servitori lo stavano portando via a braccia.
“La Mauretania…!”, pensò. Poi ebbe un sussulto: non era forse là che pullulavano i leoni?

3

Vai con un’altra scarpinata. Questa volta da Cordova all’Atlante, e oltre. Eudo, ripensandoci in seguito, si rese conto che l’unico mezzo di trasporto di cui aveva usufruito in quel lungo viaggio, era stato un traghetto per passare lo stretto di Gibilterra. E non era stata una buona grazia accordatagli dai suoi padroni, quanto piuttosto una necessità, dacché sull’acqua ancora non poteva camminare. Ma se ne fosse stato in grado, era certo che si sarebbe fatto anche quel tratto di mare a piedi.

Ad ogni buon conto, s’era ritrovato in buona compagnia (se così si può dire) ed aveva cominciato, più per forza che per amore, a parlucchiare quell’idioma selvatico che è l’arabo versione mauretana. Aveva scoperto che Tariq, il signore ricco e grasso, era in realtà un uomo di corte di un qualche califfo nord africano. Non conosceva la lingua troppo bene per capire esattamente dove fossero diretti e chi fosse quel califfo. Per ora sapeva solo che invece di seguire la costa, la carovana, di cui egli faceva ormai parte, aveva attraversato l’Atlante ed era ormai ai bordi del deserto.

La deviazione, a quanto pareva, era dovuta al fatto che si sarebbero dovuti incontrare con un’altra carovana, proveniente dalla Libia o dalla Tunisia. La cosa non interessava Eudo più di un tanto, se non per il fatto che si stavano avvicinando paurosamente alla famosa zona ove avrebbero dovuto esserci i leoni. Gli riusciva difficile informarsi sulla presenza (o assenza) di tali animali e il fatto che non ne avesse visti alcuni non lo tranquillizzava affatto. Anzi, non riusciva a capacitarsi del fatto che i suoi compagni (schiavi, servitori e non) mostrassero la calma più totale, totalmente inopportuna in una tale pericolosa situazione. Quindi teneva gli occhi aperti e quando si riposava lo faceva sempre con un occhio solo (come si suol dire).

Erano rimasti fermi una settimana buona alle pendici meridionali dell’Atlante. A sud, davanti a loro, si stendeva sconfinato il deserto. A nord si elevavano le cime dei monti, dai quali ancora non s’allontanavano, visto che era proprio lì che si rifornivano d’acqua e d’altre cose necessarie al loro sostentamento. Dell’altra carovana non s’era ancora vista traccia.

Una sera, finalmente, mentre stava accudendo a un cammello (lo stavano facendo diventare anche cammelliere) Eudo scorse in lontananza quella che doveva essere l’avanguardia del corteo il cui arrivo per tanto tempo avevano atteso. Quando calò la notte i due convogli s’erano già riuniti e accampavano assieme.
C’erano circa duecento o duecentocinquanta persone in tutto, tra chi comandava e chi, schiavo o soldato, serviva. Eudo aveva notato che la comitiva dei nuovi arrivati era di carattere diverso dalla loro: più che mercantile pareva una carovana principesca, o qualcosa del genere. Aveva visto come una specie di portantina o baldacchino portato a braccia da otto uomini, tutto avvolto in ricchi drappeggi. Quand’era arrivato, Tariq vi si era portato davanti e s’era sbracciato in salamelecchi e onori, parlando con un altro uomo che, molto simile a lui in abbigliamento, fisico e maniere, sedeva però su di un dromedario e marciava proprio a fianco della portantina.
Eudo aveva potuto assistere molto bene alla scena perché si era trovato a circa una ventina di passi da lì ma, quantunque vicino, non aveva visto, nonostante si fosse intensamente sforzato, chi mai viaggiasse sul palanchino. Il misterioso viaggiatore, però, non avrebbe potuto fare a meno di scorgerlo: Eudo, alto, biondo, barbuto, abbronzato, e vestito ancora solo di un paio di braghette, era decisamente visibile in mezzo al resto dell’altra marmaglia, se non per l’abbigliamento, per la prestanza che ora lo contraddistingueva.

Calata la notte Eudo andò a coricarsi. Era piuttosto stanco e non sapeva se quella notte sarebbe riuscito a dormire con un occhio solo. Considerava che, per quanto feroci e arditi, probabilmente i leoni non avrebbero osato attaccare un gruppo d’uomini e di animali così numeroso. E mentre questi pensieri gli attraversavano la testa, disteso sulla sabbia avvolto nella sua copertuccia, s’addormentò.

Non seppe mai quando fu, e neppure avrebbe saputo pronunciarsi sul come, avvoltolato com’era nel suo panno. Fatto sta che a un certo punto si svegliò di soprassalto in preda a uno strano di capogiro. In capo a un momento si accorse che il malessere era dovuto al fatto che qualcuno lo stava facendo voltolare per terra. Infagottato com’era, Eudo, di tutta prima non riuscì a far niente. E anche dopo, riorientatosi un poco, tutto ciò di cui fu capace fu solo un gridolino soffocato dalle stoffe che l’imbacuccavano, perché, in tutto quel rigiramento, i suoi aggressori avevano procurato di avvolgerlo in un altro panno o tappeto, onde impedirgli ulteriormente di muoversi. Così anche quel poco che diceva restava soffocato ed attutito. E come se non bastasse, gli avevano passato delle corde attorno, legandolo come un salame. Così insaccato, si sentì portare via.
Era troppo sconcertato per capire che grande accidenti gli fosse mai successo. Era la prima volta che veniva rapito e si chiedeva perché.
A un certo punto un’idea gli passò per la testa, causandogli un enorme spavento ed un convulso tremito: che qualcuno l’avesse preso per darlo in pasto ai leoni e così tenere lontano quelle belve?

4

Dei leoni ancora non si vedeva l’ombra. Gli sarebbe stato comunque difficile vedere qualcosa: era già tanto se, storcendo il collo e spingendo la testa all’indietro, poteva scorgere un’apertura al di sopra del suo capo, là dove il tappeto finiva. Ma nulla più. Attraverso quell’orifizio, di tanto in tanto gli apparivano delle dune, a seconda di com’era sballottato. Era infatti appeso o caricato sul dorso di qualche animale – probabilmente un cammello – e già da un pezzo lo stavano portando via.
Per fortuna entrava un po’ d’aria per farlo respirare. Ma il caldo era insopportabile e la mancanza di libertà di movimenti lo faceva disperare. Più volte, invano, chiamò e invocò aiuto. Ogni tanto si metteva a piagnucolare, ma poi smetteva subito e cominciava ad agitarsi e buttarsi qua e là, aumentando ulteriormente lo sballottamento al quale era sottoposto. Alla lunga gli mancarono le forze per tutte quelle agitazioni e tra caldo, grida, contorsioni e disperazione, finì per scivolare in un qualche malsano torpore, dal quale si riprendeva a sprazzi, solo per darsi a nuove convulsioni e nuovi collassi.

Viaggiarono un giorno intero e al calar del sole, contrariamente a quanto s’aspettava (e invero abbastanza insolitamente), non si fermarono. Quando giunsero le tenebre, l’aria fresca, quasi fredda, della notte del deserto, cominciò ad entrare per l’apertura sopra la sua testa, ma era tutto quel che i suoi sensi coglievano: il buio pesto l’avviluppava tutto e gl’impediva di vedere anche quel poco che l’orifizio invece gli aveva fin’allora permesso di scorgere.

Dopo lunga pezza s’arrestarono. Eudo intese voci, ordini gridati, versi d’animali (cammelli, per la precisione) e, come s’aspettava, sentì che lo toglievano dalla soma, o quel che era, e che lo portavano via. “Ecco, ci siamo”, pensò col cuore che batteva forte per la paura, e s’immaginò branchi di leoni affamati che l’aspettavano quale lauto pranzo, leccandosi i baffi.

Contrariamente a quel che temeva, però, e a dispetto di ogni sua previsione, gli eventi presero una piega diversa. A meno che quel posto non fosse stato un cucinino per preparare i pranzi delle fameliche belve, Eudo dovette riconoscere che il suo destino non stava seguendo il corso che aveva paventato.
Era infatti stato mollato su di un pavimento duro, di pietra in una stanza illuminata. Dal buco sopra la testa vedeva a malapena un muro e un pezzo di pavimento, oltreché la luce naturalmente. Aveva inteso i facchini allontanarsi e subito dopo aveva udito un rumore di passi leggeri e fruscianti tutt’intorno a sé. Dalla sua limitata prospettiva, s’era stupito di vedere formicolare avanti e indietro, comparendo e sparendo un incalcolabile numero di volte, delle graziose pantofoline di stoffa arabescata blu, rossa e verde, preziose custodie di altrettanto preziosi piedini. Non aveva ancora finito di meravigliarsi che delle mani misteriose avevano iniziato a slacciare o a tagliare le corde che lo tenevano legato. In capo a qualche minuto era stato liberato e srotolato. A terra supino, guardando verso l’alto, si vide circondato da cinque belle e sorridenti fanciulle brune, con i capelli e gli occhi neri. Eudo era troppo stanco per cercare di capire o reagire e così, quand’esse lo tirarono a forza su dal pavimento, lui le lasciò fare.

Si trovava in una grande sala di marmi e colonne, in stile decisamente arabo o moresco illuminata da grandi lampade che pendevano dal soffitto. Con un certo gusto, alle pareti erano appesi drappi variopinti decorati con arzigogoli geometrici. In mezzo alla stanza c’era una vasca fumante – un paiolo? – e accanto, su di un tavolino dei panni piegati. Le fanciulle avvicinarono Eudo alla vasca. Eudo pensò che se fosse stato cotto o preparato quale pietanza per qualche mostruosa belva (ad esempio un leone) perlomeno sarebbe morto per mano di dolci creature. E in ogni caso gli mancavano tanto la forza fisica, quanto quella d’animo per reagire. E quindi neppure batté ciglio, né ebbe reazioni d’altro tipo, quando le giovani gli tolsero i pantaloncini spogliandolo del tutto e l’immersero nel bagno caldo.
Non gli ci volle molto per accorgersi che lo stavano lavando e preparando: una delle ragazze gli lavava la schiena, un’altra i capelli, un’altra le braccia… in breve, gli stavano togliendo di dosso la polvere e la sporcizia che aveva accumulato nei mesi passati e nel corso di quel viaggio. Quand’ebbero terminato, lo fecero uscire dall’acqua e l’asciugarono.
Naturalmente fu rivestito di vesti molto eleganti e confortevoli e fu portato in una stanza dove, sopra di un tavolo, l’aspettava un pasto abbondante. Avendo digiunato un giorno intero e, a parte quello, non avendo mangiato un gran che in quei mesi di schiavitù, Eudo fece onore al cibo, spazzando via tutto o quasi quel che si era trovato davanti. Erano pietanze nuove, per lui, gustose ed esotiche, quali mai aveva mangiato. Smise d’ingozzarsi solo quando, boccheggiante, non sarebbe stato più in grado d’infilare neppure un granello di sale in pancia senza scoppiare. Le giovani ancelle, avendo visto che aveva finito, l’aiutarono ad alzarsi e a pulirsi bocca e mani; dopodiché l’accompagnarono in una grande camera da letto, ove l’attendeva un giaciglio enorme ed accogliente.

La semplicità di Eudo lo rendeva in un certo qual modo immune ad altri sentimenti all’infuori della meraviglia o della paura. Da un lato si emozionava alla vista di quel lusso e di quelle ricchezze, dall’altro temeva che dietro alle apparenze si celasse qualche imprecisato pericolo o tranello, per difendersi dal quale, però, gli mancavano il coraggio, la perspicacia e i mezzi. Quindi, ora spaventato, ora stupito, subiva.
Tra viaggio e abboffata, sentendosi stanco e pesante, come vide il letto ci si buttò sopra animalescamente e, non appena ebbe toccato il cuscino con il capo, scivolò in un sonno profondo.

Si svegliò di soprassalto – quanto tempo dopo non lo seppe mai – perché qualche creatura s’era avvicinata al letto e vi era salita. La stanza era completamente buia e silenziosa, eccezion fatta per il suo respiro e quello dell’altro essere. Eudo non sapeva esattamente con che cosa avesse a che fare: il buio era pesto, le luci erano state tutte spente e, a quanto pareva, le finestre o non esistevano o, quantomeno, erano state completamente coperte. Col cuore a centoventi battiti al minuto Eudo s’era levato a sedere, impietrito dal terrore. Era certo di trovarsi faccia a faccia con un leone. Non poteva che essere così. Sentiva il respiro pesante dell’animale a poca distanza da sé e lo sentiva strusciare piano piano sul letto.

Come le gazzelle catturate, che s’irrigidiscono quando ormai sanno di essere spacciate e non fiatano quasi, aspettando di essere finite, così sedeva Eudo sopra il letto, con la sola differenza che invece di zoccoli aveva mani, e invece di corni e pelo corto aveva barba, capelli e una lunga e morbida veste.
Quando sentì il leone toccarlo, temette di svenire. Ma contrariamente a quanto s’era aspettato, la zampa del felino non era pesante, setolosa e artigliata, ma morbida e leggera, con dita soffici e vellutate, e – stranamente – senza artigli. La testa cominciò a girargli quando sentì una seconda zampa, in tutto e per tutto simile alla prima, seguirne le orme e corrergli sul petto. Eudo capiva ed era terrorizzato: ovviamente il leone voleva togliergli tutto quell’imballaggio di dosso prima di divorarlo; anche le caramelle vanno scartate prima di metterle in bocca e s’immaginava bene che la stoffa, per quanto ricca, non facesse parte della dieta leonina.
E mentre sentiva la parte superiore della veste scivolare giù, il leone aveva avvicinato le sue fauci al suo viso. Un’altra volta Eudo fu lì lì per svenire: comprese che l’animale voleva assaggiarlo un po’!, o perlomeno sentire che sapore aveva, prima di papparselo del tutto (come dire… un antipasto). Sentì quindi la bocca della belva appoggiarsi alla sua e mordicchiare, lambire, gustare… In qualche modo, però – e di questo Eudo non sapeva spiegarsi il motivo – i denti non strappavano la carne dal suo volto o dalla sua bocca. Pareva davvero che tutto l’interesse dell’animale fosse incentrato solamente sul saggiarlo. In capo a qualche secondo – Eudo non seppe come fu – fu preso anch’egli da un bizzarro desiderio di sentire che sapore avesse il leone e, per reazione, cominciò anche lui a mordicchiare, lambire e gustare. Con sua grande sorpresa non sentì né zanne, né vibrisse, né pelo attorno a quella bocca e, in maniera parimenti sorprendente, si ritrovò a trarre un certo qual piacere da quello strano gioco o quello strano modo di sbranare o sbranarsi a vicenda. Mai prima d’allora aveva sperimentato qualcosa di simile e quella era per lui un’esperienza completamente nuova, ancorché piacevole.

Ma la cosa non finì lì. Avendo inteso parlare della folta criniera che cinge il collo di quelle mirabili belve, Eudo, preso dalla curiosità e dal desiderio di toccarla, spinse le sue mani in direzione del capo della bestia e le sentì affondare in una massa di crini, fine ed enorme al contempo. Al tatto parevano veri capelli, del che si sorprese non poco. Anche la testa che si era ritrovato tra le mani era di dimensioni assai piccole. Si ritrovò a pensare che quello era un leone piuttosto strano, o quanto meno non troppo affamato, perché si limitava a mordicchiarlo e lambirlo – e non già solo sulla bocca – e non pareva intenzionato, almeno per il momento, a strappargli le carni e a cibarsi di lui. La cosa che più lo lasciava perplesso era il fatto che anche lui si sentiva preso da passioni leonine che lo spingevano a mordere e a lambire, quasi fosse diventato lui il leone, e il leone gazzella.
Mentre faceva queste riflessioni l’animale gli si era portato sopra, forzandolo a giacere supino. Per reazione, temendo che quello fosse l’attacco finale per ingollarlo, Eudo lo strinse con le braccia, lo rigirò e gli fu addosso. Sentiva ora fra le braccia un corpo relativamente piccino, certo non peloso, anzi liscio, caldo e morbido. Restò per un attimo disorientato, perché i leoni se li era aspettati ben diversi: se non irsuti, perlomeno coperti di pelo corto e duro. L’animale doveva essersi accorto della sua esitazione e ne aveva approfittato per tirarlo a sé. Eudo, preso di sorpresa, non seppe resistere a quell’attacco. Per quanto sapesse che quella era la fine, che era il momento in cui di lui sarebbe stato fatto un boccone, non ebbe la forza di lottare e di reagire: aveva di nuovo sentito la bocca del leone addentarlo e tutte e quattro le sue zampe stringerlo in un abbraccio stranamente molle e umoroso. Sopraffatto nella volontà, le forze l’avevano abbandonato all’improvviso ed un inaspettato, irresistibile languore s’era impossessato di lui. E così, pervaso pian piano da un vago e pur intenso piacere del quale neppure lui sapeva darsi alcuna spiegazione, si sentì scivolare – ingoiato – verso l’inevitabile e fatale destino di preda fagocitata.
Prima di perdersi nell’oblio, ebbe il tempo di provare un ultimo rimpianto: se avesse potuto farsi sbranare un’altra volta dopo quella, l’avrebbe fatto, sennonché, lo sapeva, nella vita di un uomo cose come quella non posson che succedere una volta sola.

5

Quando si riprese, riuscì a malapena ad aprire gli occhi, tanto intensa era la luce. Vedeva muri bianchi, lenzuola bianche, drappi bianchi alle finestre… bianco dappertutto: una luminosità bianca, diffusa ma forte al tempo stesso, riempiva l’aria.
“Ecco. Son morto”, pensò. “Questo è l’aldilà.” A dire il vero se l’era immaginato un po’ diverso. Per esempio, pensava che qualcuno sarebbe venuto a riceverlo, o che in quel posto ci sarebbero state tante altre anime come lui, dirette anch’esse alla loro destinazione ultraterrena. E invece era solo. Non capiva perché. E per di più non capiva come potesse essere arrivato laggiù e giacere. Di solito ci si presenta a rapporto in piedi. Si levò a sedere e guardò attorno. Era davvero solo! Ed era circondato da veli, tende, rideaux … che posto strano!
Si grattò la testa. Per scendere dal letto cercò di spostare le lenzuola e… Cielo! Il fagotto che aveva cercato di muovere s’era scosso quando l’aveva toccato e, per reazione, lui aveva fatto un balzo indietro in preda al terrore. Schiacciato contro il muro dell’alcova, immobile come una statua di sale, Eudo vide uscire dalle coltri una creatura. Rimase a bocca aperta nel vedere che si trattava di una donna.
Fu preso da uno sconcerto ancor più grande quando vide che era molto, molto giovane e molto, molto bella. Aveva lunghi capelli bruni e ricci che le scendevano dalla testa sulle spalle e due occhi neri e fondi che lo guardavano ridenti di tra le lunghe ciglia. In fronte le correvano due fini ma ben marcati sopraccigli, e quale unico abbigliamento portava una catenella d’oro con un ciondolo. Eudo, accortosi della cosa, s’imbarazzò e, di colpo, si rese conto di non essere neanche lui molto vestito. Svelto svelto arraffò un lenzuolo e lo tirò su fino al mento, diventando rosso in faccia. Lei rise a vederlo con quegli occhi sbarrati e completamente smarrito.
In quella entrò un uomo nella stanza. Eudo si voltò a guardarlo e vide che altri non era che Tariq, l’eunuco che l’aveva comprato a Cordova. Eudo si stupì a vedere che la donna non si curava di quella presenza e neppure di coprirsi, come se l’eunuco non esistesse affatto (non sapeva ancora che cos’era un eunuco e, come si è detto, l’avrebbe scoperto solo parecchio tempo dopo).
“Buongiorno!”, disse Tariq. “Ti sei trovato bene?”
Eudo voleva rispondere, ma scoprì che, dopo aver richiuso la bocca (che prima aveva aperto per lo stupore), la lingua secca secca gli era rimasta completamente incollata al palato. Non riuscì quindi a spiccicar parola.
“Ah, vedo che sei emozionato”, proseguì Tariq. “Beh, è comprensibile: non capita tutti i giorni di essere… diciamo… invitato, ecco, da una giovane principessa così carina”.
Eudo levò gli occhi sbarrati dal volto di Tariq per piantarli sul viso della donna che continuava a guardarlo sorridente. Poi lentamente li volse di ritorno su Tariq.
“Eh già”, fece ancora l’eunuco. “Sai, ho dovuto raccontare un po’ di panzane su di te… Insomma, uno schiavo non è certo uno sposo degno di una principessa, ma… che si può fare? Quando t’ha visto, al campo, vicino alle montagne… le sei subito piaciuto e non c’è stato verso di toglierle il pensiero di te dalla testa. Sai, era lei che veniva trasportata nella palanchino. Ricordi? Come? Vuoi sapere come ha fatto a mettersi in testa di te? Beh… devi capire che di giovanotti coi capelli biondi e gli occhi azzurri non ce ne sono molti qui…”

Eudo continuava a tacere, ma aveva preso a deglutire a intervalli regolari. Tariq continuò tranquillo.
“Per farla breve, ho acconsentito a che ti portassero via. Certo… è stato un viaggio un po’ brusco, capisco… ma vedi, non poteva essere troppo ufficiale… insomma… uno schiavo che va in sposo a una principessa… E invece così nessuno sa niente e possiamo dire che sei un nobile cristiano convertito all’Islam e… tutto viene sistemato. Capisci?”
Eudo finalmente riuscì ad aprire la bocca e Tariq, accortosene, si fermò per lasciarlo parlare. Così Eudo con voce roca mormorò:
“Ma dove siamo?”
Tariq rispose: “Ah sì! Certo, certo! Che sciocco a non avertelo detto prima. Ecco qua…”. E da un cassone tirò fuori una mappa: “Questa è una delle mappe che usate voi infedeli… l’ho presa in Spagna…! Dunque…”. La srotolò e, tenendola per il lato superiore, cominciò a scrutarla qua e là, passando la mano sulle linee che delineavano i contorni delle distese dell’orbe terracqueo. I suoi movimenti in qualche modo ricordavano a Eudo quelli di Onorio nello scriptorium. “Dunque… ecco, noi siamo…”, e l’indice di Tariq scivolava piano piano, dall’alto verso il basso lungo la carta, correndo sempre più giù, sempre più giù, “… ecco noi siamo…”, continuava Tariq facendo correre l’indice, “… noi siamo… press’a poco… qui!” finalmente disse, e si fermò.
Fu come se una mazza avesse colpito la testa di Eudo, lasciandogliela al tempo stesso completamente vuota (d’idee) e completamente piena (d’immobile stupore): Tariq, col volto raggiante, s’era arrestato su una scritta che diceva:
“Hic sunt leones.”

1"I leoni si trovano qui". Frase latina che compariva nelle carte geografiche medievali, per qualificare l’area a sud della costa nord africana (Sahara e oltre), ancora inesplorata dal mondo occidentale. Per antonomasia, terra incognita o inesplorata.

2 "Eudo, forse non mi hai sentito?"

3"Sì, maestro: i leoni si trovano qui".

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Anno 0, Numero 3
March 2004

 

 

 

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