Nota biografica | Versione lettura |
Le arti figurative e la letteratura, la linguistica e l'antropologia,
la sociologia e la religione, come pure le scienze naturali, denunciano
la presenza emergente e l'influenza sempre maggiore dell'ibridismo nel
discorso culturale del nostro tempo. Il fenomeno in quanto tale è
tutt'altro che nuovo, poiché l'ibridazione è un processo comune a tutte
le culture umane, anche se è stato inizialmente osservato nel contesto
della vita organica, animale e vegetale.
Il termine indica una deviazione dalla norma della genealogia, una
mescolanza, un incrocio, e quindi il risultato di un processo di
ibridazione: insomma, una combinazione di elementi appartenenti a
sistemi diversi, che, estrapolati dal contesto e mescolati, hanno
generato un organismo o un prodotto, nuovi e creolizzati. Dalla biologia
e dalla genetica il termine è stato esteso a concetti quali la razza e
il linguaggio. Oggi esso copre un'ampia gamma di combinazioni che sono
frutto dell'invenzione umana, e ha perciò finito per identificarsi con
il mondo fatto dall'uomo.
Nel contesto culturale il processo di ibridazione attraversa e perciò
mette in discussione opposizioni binarie fra elementi sinora considerati
compatti e distinti, come uomo/donna, maschile/femminile, bianco/nero,
indigeno/straniero, centro/periferia, est/ovest, mondo occidentale/terzo
mondo, arte/produzione commerciale, e così via. Esso comporta inoltre un
implicito elemento di ambiguità che un tempo veniva stigmatizzato come
negativo e costituiva quasi una degradazione, una colpa segreta.
Si profila un primo interrogativo. Forse l'ibridismo è effettivamente,
concretamente, più presente oggi di quanto non fosse in passato; o non è
forse soltanto ora che il nostro occhio lo vede, un occhio che si
rifiutava di vederlo sino a questa soglia di nuovo millennio? 0 forse
ciò che oggi viene visto come ibridismo non è altro che una
fabbricazione, una narrazione: la narrazione estrema dell'Occidente?
Il dibattito contemporaneo sulla natura della cultura e della
letteratura del postcolonialismo trova nell'ibridismo uno dei suoi temi
e dei suoi passaggi obbligati. Il primo a introdurlo nel discorso
culturale è stato Michail Bachtin, seguito poi, a distanza, dal suo
esegeta Tzvetan Todorov; ne hanno trattato, fra gli altri, Ahmad Aijaz,
Homi Bhabha, Nestor Maria Canclini, Gilberto Freire, Paul Gilroy,
Edouard Glissant, Stuart Hall, Benita Parry, Edward Said, Gayatri
Spivak. E però esiste una sorta di trionfante. suprema trinità di
teorici postcoloniali dell'ibridismo, costituita da Said, Spivak e
Bhabha; quest'ultimo anzi ha addirittura edificato l'intera sua
costruzione teorica sulla base di una rilettura del concetto di
ibridismo.
Senza soffermarsi in questa sede sulle teorizzazioni specifiche di
ciascun autore compito che è già stato variamente affrontato da Robert
Young (1995), Pnina Webner (1997) e Nikos Papastergiadis (1997) sembra
piú utile porre l’accento su alcuni aspetti specifici del dibattito
contemporaneo.
I teorici che si sono occupati dell'ibridismo riconoscono che "non si
può analizzare la storia della cultura occidentale, a partire almeno dal
Cinquecento, senza far riferimento al colonialismo" (During, 1998:31). E
in effetti la componente rappresentata dall'incontro coloniale e
postcoloniale costituisce un fattore fondamentale e imprescindibile nel
costituirsi dell'ibridismo e delle sue valenze culturali. L’íbridismo
veniva presentato come pericolo nella situazione coloniale e però allo
stesso tempo assumeva anche un carattere positivo, esoticamente
attraente e esteticamente pregevole, che esaltava il potere del bianco e
ne rilanciava il desiderio, creando un oggetto feticcio. L’economia
politica della miscegenation creava un mondo di ibridismo da cui
promanava ambiguità.
Il critico postcoloniale ha sovvertíto il senso di questo rapporto.
Stuart Hall ha scoperto la molteplicità degli altri all'interno del sé,
seguendo in ciò il cammino tracciato da Julia Kristeva (1988): o, per
essere più esatti, ha capito che la storia del sé si costruisce sempre
attraverso il silenzio dell'altro" (Hall 1991:49). Homi Bhabha
costituisce un esempio tipico di tale capovolgimento; la sua è una voce
che ha trovato vasta eco nell'ambito del dibattito contemporaneo. Per
Bhabha, l'ibridismo è una sfida alla 'purezza' della 'tradizione', e
quindi diviene una "poetica di re~iscrizione". Come osserva Werbner,
innestando l'idea bachtiniana della forza sovversiva e dialogica dell'ibridità sull'ambivalenza dell'incontro coloniale, Bhabha conferisce una nuova valenza al significato dell'ibridità stessa. L’ibridismo è il processo attraverso il quale il discorso dell'autorità coloniale mira a tradurre l'identità dell'Altro entro una categoria singola, e però poi fallisce, producendo qualcosa d'altro [...] emerge uno spazio terzo che è in grado di porre in essere delle forme di cambiamento politico che vanno oltre le antagonistiche opposizioni binarie fra dominatori e dominati (Werbner, 1997:279).
‘Postcoloniale', 'postcolonialità' sono vocaboli recenti, eppure già
ampiamente criticati e pertanto controversi. Ciò che importa è il fatto
che il termine 'postcolonialismo', riferito non solo alla letteratura ma
anche al discorso critico' teorico o agli studi culturali, indica
sostanzialmente una rappresentazione della destabilizzazione di
strutture fisse e delimitate di quell'era imperiale e coloniale che
aveva visto l'affermarsi e il consolidarsi dell'egemonia europea sul
mondo intero. Scrittori e critici postcoloniali sono i protagonisti di
un movimento di trasformazione in campo culturale, portatori e agenti di
una rivoluzione del pensiero e della rappresentazione, e però anche
vittime coatte, inevitabili, di un processo che li ha sradicati e
ibridati sino a farli diventare stranieri assoluti, stranieri a se
stessi, come Juha Kristeva definisce la loro categoria (1988). La
politica della rappresentazione è la preoccupazione centrale, il perno
insomma sia della narrativa sia della riflessione critica e filosofica
della postcolonialità.
Ma è forse una economia di sopravvivenza, oppure una ansiosa ricerca di
senso, la forza che spinge gli scrittori verso l'invenzione di una nuova
estetica in cui un'intera gamma di nuovi, rinnovati concetti quale
quello di straniero, di ibridismo, di interstizio e di íntersezione
giocano un ruolo nuovo e decisamente positivo?
Nel mondo dell'egemonia coloniale, ciascun territorio delimitato e
rinchiuso entro confini costituiva una sfera d'influenza esclusiva d'una
potenza coloniale, ossia di una metropoli, all'interno d'un regime di
capitalismi amministrati su base nazionale. Si aveva l'identità
cristallizzata dell’ 'indigeno' (native) e la formazione di soggetti da
esso derivati, quali l'indigeno istruito e quello assimilato,
all'interno dell'identità indigena generalizzata; e si aveva l'emergere
di una sfida anticoloniale e nazionalista alla dominazione straniera e
all'usurpazione esterna della sovranità.
Se tutto ciò caratterizzava il mondo della colonialità, la
postcolonialità si ha all'epoca in cui l'egemonía del capitalismo
,tardo', multinazionale, americano (e magari giapponese, e ancora
europeo) si sostituisce all'imperialismo europeo di vecchio stile. E'
l'era cosiddetta dell'imperialismo senza colonie. Ed è in riferimento a
questo processo di smantellamento delle enclaves e delle soggettività
delimitate che l'essere postcoloniale significa molto di più che
l'essere un semplice, e avventizio, "ex coloniale", in quanto si carica
di un preciso significato politico.
Gli scrittori postcoloniali cosmopoliti, ibridi, esuli, diasporici,
interstiziali, godono di molto maggior visibilità e successo nel mondo
accademico, nei media e sulla stampa delle aree metropolitane
occidentali, a confronto della postcolonialità contro-egemonica, più
nazionalista e regionalizzata. Lo scrittore-straniero è comunque un
personaggio isolato nella solitudine ed insieme tipico quanto a
condizione umana e culturale. La figura dello straniero è nel mondo
contemporaneo un emblema su cui si concentra l'attenzione, una presenza
che interroga lo stesso presente. La nostra contemporaneità ha nello
straniero, nel migrante senza patria né confini, che varca i limiti e si
sposta vivendo un'esistenza negli interstizi, nell'intersecarsi di
storie e di memorie, l'unico eroe degno di ereditare l'aura dell'antico
eroe epico, pur essendo cosi diverso da esso. L’individuo migrante non
ha fissa dimora né fine al proprio cammino, perché il suo non è un
viaggio bensì un perpetuo movimento, il senso della vita contemporanea,
un modo di abitare il tempo e lo spazio non come strutture fisse, aree
recintate e chiuse, ma come flusso mobile, linguaggio di traduzione in
cui non si ha ancora più nessuna appartenenza. "Perché noi [scrittori
indiani trapiantati], dice Salman Rushdie, siamo persone portate al di
là del mondo, siamo individui tradotti" (1991:22).
Tale migrante ha nella cultura metropolitana il proprio orizzonte, dove
formula una nuova estetica ibrida e nuovi stili di vita, dove reinventa
la lingua che lo ospita e popola le strade facendosene nuovo padrone,
scompaginando l'ordine in cui si incunea e reiscrivendo il palinsesto
urbano. Stili ed eventi vengono rielaborati in un ciclo di continuo
ritorno e revisione. La migrazione e il suo personaggio centrale lo
straniero sono al centro anche del pensiero contemporaneo, delle sue
metafore di spostamento, traslazione e contaminazione. Nell'estendersi
dei contatti attraverso una globalizzazione generale, si aprono nuove
dimensioni di civiltà e di riflessione ove non tutto si uniforma, ma
anzi, le differenze sembrano farsi più rilevanti e quasi opache,
impermeabili.
Questo è l'universo in cui si colloca lo scrittore/teorico della
postcolonialità, talvolta come giocoliere, più spesso come dolente
pellegrino che sotto la maschera ludica lascia scorrere lacrime e
sangue, visibili allo sguardo che ne attraversi lo schermo protettivo di
acrobatica modernità, o anche postmodernità. Nei giochi verbali di
questo entertainer contemporaneo si incastra la sofferenza, si insinua
lo smarrimento, e sgorga la malinconia, ineliminabile figlia della
perdita.
L’ibridismo è visibile nella cultura e viene esaltato nel
contesto della performance, dove, come scrive Nestor Garcia Canclini, si
ha una convergenza di vari e diversi flussi di produzione culturale
(Canclini, 1998). Secondo Canclini, il modo ottimale per osservare il
processo di ibridazione consiste nel lavoro sul campo e nelle ricerche
sul consumo culturale, dove i prodotti ibridi vengono messi in vendita e
incontrano il mercato. Cosi si incontra la realtà del globalismo, in cui
si ha una spettacolarizzazione totale della cultura e una conseguente
necessità dell'ibridismo: ma più dietro la spinta del consumo che per
una modalità spontanea della produzione che nascerebbe ibrida.
Se l'ibridità era un tempo non soltanto negativa, ma addiríttura
mostruosa; se l'intervento del desiderio ha attivato una politica
culturale della differenza che ha condotto al multiculturalismo, tanto
che attualmente si è pronti ad ammettere che l'íbrido è bello e che è
anche eticamente valido, dato che fa parte della moralità
dell'antirazzismo, quale valenza estetica si riconosce a tutto ciò nel
quadro contemporaneo? La cultura sembra andare alla ricerca di un nuovo
quadro, e palcoscenico, in cui collocare la richiesta di estetica che
proviene dalla cultura e dalla società del nostro tempo. L'ibridismo ha
con l'estetica un rapporto probabilmente più forte di quanto non ne
abbia con altri versanti della cultura umana, perché il sincretismo
culturale si verifica in un contesto di esteticizzazione della vita
quotidiana, di spettacolarizzazione della differenza, di fruizione
estetica della pluralità.
Nel mondo globale, l'artista e lo scrittore sono diventati dei nomadi
cosmopoliti e senza radici dispersi in una inevitabile diaspora. Ci si
potrebbe chiedere, con Pnina Webner, "quale tipo di influenza abbiano i
prodotti elaborati con intenzionalità estetica dagli artisti e
intellettuali della diaspora nera e del terzo mondo sulle realtà
dell'etnicità, del razzismo e del nazionalismo" (Webner, 1997:7).
Le risposte a questo quesito variano, come variano le interpretazioni
individuali del quesito stesso.
Per l'indiano caraibico V.S. Naipaul, esemplare tipico della diaspora
postcoloniale, l'attività dello scrittore è un modo di conservare
l'identità remota rendendola ambigua (L'enigma dell'arrivo). Stando alle
dichiarazioni del romanziere cinese Acheng, esponente della diaspora,
l'esilio (o il distanziamento) costituisce un modo di creare un nuovo
luogo e di ricollocarvi il proprio sé. In un'intervista rilasciata in
Italia, a chi gli chiedeva "Che cos'è per te l'America?" rispondeva:
"l’America è la mia scrivania".
Per il caraibico Édouard Glissant, "i Caraibi sono una sorta di
prefazione al continente [americano], un collegamento fra ciò che
bisogna lasciarsi alle spalle e ciò che bisogna ímparare a conoscere"
(Glissant, 1996: 12). Così si realizzerebbe il Toutmonde, il Tuttomondo,
in cui la creolizzazione ben diversa dal meticciato costituisce
l'elemento di imprevedibilità creativa, grazie al "pensiero
dell'arcipelago, che è anche il pensiero dell'ambiguità" (Glissant,
1996: 89).
Altre volte, lo scrittore postcoloniale vuole attirare il pubblico dei
lettori con un linguaggio polisemico ricco di strati plurími di
significato e, nello stesso tempo, rimanere sulla soglia, al limitare
dello spazio, nella posizione del trickster che usufruisce di un ruolo
ambiguo e appartiene a un universo liminale. Tale sembra essere il ruolo
di Ben Okrí, nigeriano della diaspora che vive e scrive in Gran
Bretagna, e i cui personaggi recedono dalla realtà storica muovendosi
all'indietro, verso il non luogo crepuscolare dell'ambiguità
identitaria.
L’ibridismo si configura nella postcolonialità come risultato di
reazioni sia consce che inconsce contro l'egemonia del colonialismo.
Esso costituisce un'affermazione di differenza in cui l'Altro si
posiziona come soggetto: ma l'Altro non può vedere se stesso come altro,
e perciò marca la differenza 'diventando' soggetto.
V'è uno scarto significativo fra il discorso sull'alterità Ia corsa
postmoderna all'alterità", come la definisce la scrittrice Zoé Wicomb,
che vede in essa un prevedibile "risultato del processo di
mercificazione scatenato dal colonialismo" (Wicomb, 1997:4078) e il
rifiuto che a tale discorso oppongono critici e artisti postcoloniali.
Molti ritengono che una discussione esteticizzata del mínoritario
risulti in un pretesto, un gradevole mascheramento di fatto mirante ad
attirare il consumo e a creare consumismo. Tale è l'accusa rivolta
all'estetizzazione contemporanea da parte di Deleuze e Guattari, che
posizionano il minoritario entro una metafora di territorio e lo
collegano con un processo di divenire. Secondo Wicomb, la manovra "va
abilmente a fondere il coloniale con l'altro psicanalitico. L’alterità
è concepita come un processo di crescita che non è collegata al
territorio, anzi, è deterritorializzata" Ubidem).
La costruzione dell'alterizzazione che è un processo dovrebbe venire
analizzata, come suggerisce Toni Morrison, sottolineando l'impatto del
razzismo su coloro che tale razzismo perpetuano. " [ ... 1 Quello che io
propongo", scrive Morrison, "è che si analizzi l'impatto dei concetti di
gerarchia razziale, di esclusione razziale e vulnerabilità e
disponibilità razziale sui non neri che hanno sostenuto tali concetti,
li hanno combattuti, li hanno esplorati o alterati" (Morrison, 1993:
11). Toni Morrison ha messo in pratica tali teorie nel tessuto vivo
della sua narrativa. Il suo atteggiamento nei confronti della storia e
il suo recupero/reínvenzione della storia orale, considerata testo
primario, rappresentano un passo importante, anzi, decisivo nella
direzione di un rinnovamento del canone, dove l'estetica non si può
separare dall'etica, e il concetto di estetica varia. A seconda delle
culture. Nei romanzi Jazz e Amatissima la cosmologia africana affiora in
personaggi assolutamente ibridi, in cui il concetto della continuità
esistente fra il mondo dei viventi e quello dei non viventi prende forma
in movenze tragicamente inevitabili, che trovano senso e spiegazione
solo all'interno della loro condizione di creature interstiziali.
In questo contesto va citata l'opera narrativa del sudafricano Sol
Plaatje, e specialmente il romanzo Mbudi (1930) in cui oralità e
spettacolarizzazione sebbene originariamente castrate dal controllo
coloniale missionario manifestano ibridismo e ambiguità a livelli
altamenti positivi: non imitazione, ma contraddizione, uno sguardo
ironico, una duplicità ricca di molteplice senso, una performance
'significante' ad opera di un abile tríckster. Un simile prodotto
letterario costituisce un esempio eccellente di ibrido intenzionale nel
senso indicato da Bachtin, in quanto dotato di un elemento dialogico
interno.
L’opera di Sol Plaatje si potrebbe utilmente confrontare con il romanzo
God's Stepchildren (1924) della scrittrice sudafricana bianca Gertrude
Sarah Millin, allo scopo di effettuare una istruttiva analisi del ruolo
della coscienza razziale all’interno della situazione coloniale e
avviare uno studio della whíteness, della 'bianchezza', nella direzione
suggerita da Toni Morrison. C'è ancora fitto silenzio in questa
direzione, che potrebbe condurre ad analizzare questioni teoriche di
identità, potere e responsabilità. Millin manifesta disprezzo per
l'ibridità razziale - il meticciato - facendone simbolo di corruzione e
rovina della 'purezza bianca': e attraverso tale processo di
stigmatizzazione giunge.a negare, a escludere la realtà effettiva del
mondo in cui vive. Lo strumento di cui si serve la narratrice attinge
alla sfera dell'estetica, poiché il fatto che il protagonista, un
bianco, scelga di accoppiarsi e convivere con una donna dalla pelle nera
viene rappresentato come una 'caduta', una stortura, una disarmonia che
non può che generare repulsione e alla fine obbligherà il figlio di tale
unione a una vita di rinuncia e di astensione sessuale allo scopo di
spegnere una stirpe degenere. E' quindi anche un principio estetico
quello che spinge a rifiutare l'ibrídismo che pure irrompe nella.realtà
coloniale, marchiandolo con disgusto e denotandolo negativamente sino a
renderlo 'brutto' come un contagio da estirpare.
L`Europa, che non ha mai voluto vedere l'ibridismo costitutivo della sua
struttura culturale, sarà comunque costretta ad accettare la
consapevolezza dell’ibridismo ora che l'invasiva diaspora
dell'immigrazione ne cambia visibilmente e rapidamente i connotati
culturali: una diaspora che è iniziata con l'irruzione degli ex
colonizzati che si sono diretti verso quelli che un tempo erano i centri
degli imperi occidentali. Ma ormai siamo andati ben oltre: attualmente
si tratta di una ininterrotta sequenza di ondate di popolazioni spinte
dalla povertà e dal bisogno, o magari anche soltanto dal desiderio, che
urgono per entrare in un'area ove sembrano sussistere migliori
opportunità di lavoro e di sopravvivenza. Il vecchio continente sta
affrontando nuovi problemi, che solo in parte sono simili a quelli che
hanno già affrontato altri continenti, come le Americhe, o l'Australia:
la differenza consiste nel fatto che l'Europa si è sempre vista come
centro del mondo, e tale concetto di sé è profondamente radicato nella
sua cultura e ha sottilmente informato i suoi atteggiamenti. Il processo
di inevitabile ibridazione in atto, che si sta già manifestando in modo
inequivocabile proprio là dove più forte era la consapevolezza della
propria centralità come in Inghilterra e in Francia e che verrà senza
dubbio accelerato dai processi di uniformazione messi in essere
dall'Unione Europea, erode gradatamente la coscienza di sé del soggetto
imperiale europeo, sgretolandola per riplasmarla in una diversa
entità.
Qualcuno potrebbe osservare che negli ultimi tempi la globalizzazione si
sarebbe sostituita al postcolonialismo (During, 1998), o almeno sarebbe
sul punto di farlo. Personalmente, ritengo che la globalizzazione sia
una risposta al postcolonialismo, e anche una risposta assai dura. I
principi della globalizzazione sono nati in ambienti economici e si
fondano sull'economia, mentre il concetto, e la definizione, di
postcolonialismo sono nati in circoli politici (Ahmad, 1992)
trasformandosi poi in un'ampia etichetta usata per indicare il dibattito
contemporaneo su temi culturali: valori, principi, problemi. La
globalizzazione costituisce un ennesimo modo per affermare la priorità
del profitto, del mercato e del capitale su ogni altro fattore delle
civiltà umane, mentre i suoi aspetti culturali vengono rivolti al
consumo e al marketing delle risorse, e creano così nuove dinamiche di
desiderio. Gli usi dell'ibridismo posti in essere dalla civiltà della
globalizzazione sono quindi funzionali a una commercializzazione della
cultura e, a mio avviso, non fanno che mascherare l'effettiva
radicalizzazione di forze e poteri mirante a neutralizzare gli sforzi e
le spinte rivoluzionari del pensiero postcoloniale. In breve, la
globalizzazione risulta essere uno stadio di 'reazione' (Starobinski,
1999) all'interno della guerra culturale attualmente in corso: uno
stadio in cui l'economia si schiera a sostenere uno dei due
contendenti.
La fase che stiamo vivendo all'ínterno della nostra storia culturale, in
movimento verso una globalizzazione totale in ogni angolo del pianeta,
offre aspetti che di fatto appaiono attraenti anche esteticamente e
culturalmente: e tra di essi spicca l'ibridismo.
Nel teatro delle guerre culturali, gli scrittori costituiscono delle
pedine più che dei generali in grado di comandare movimenti di truppa.
Una liminalità ineliminabile consente agli scrittori di usare il mondo
come un palcoscenico su cui inscenare un testo di ibridazione: Rushdie
con la sua riproposta del dramma della migrazione ne I versi satanki,
Naípaul con la sua malinconica, ammaliante sublimazione dell'Enigma
dell'arrívo, dove celebra l'impossibilità del ritorno in patria, sebbene
sia stato proprio lo scrittore postcoloniale a inaugurare il modello del
continuo ritorno. E' interessante osservare come il tema di Naipaul sia
analogo al nocciolo centrale del testo di Tzvetan Todorov sulla
postmodernità, L!uomo spaesato (Todorov, 1997).
Sembra che lo scrittore sia diventato un globetrotter cosmopolita che
non potrà mai più ritornare in patria, poiché il suo movimento
ininterrotto, il suo girovagare gli impediscono di mettere radici in un
territorio. Il problema della deterritorializzazione, unito a quello
della dislocazione, sono al cuore della situazione postcoloniale.
Scrittori come Derek Walcott o V S. Naipaul divengono globalmente
visibili grazie a un cosmopolitismo che li rende anche testimoni ambigui
del loro tempo. Un ulteriore esempio di tale ambiguità è costituito da
Ben Okri, man mano che egli si posizionava al centro dell'ex impero,
nella metropoli di Londra.
Esistono anche molti scrittori che
continuano a scrivere della propria patria originaria, come Maryse Condè
che scrive la sua Guadalupa, sebbene talvolta ibridandola con l'Africa
nella saga di Ségou. 0 Nuruddin Farah, esule perenne da una Somalia che
ritorna costantemente nei suoi romanzi. E scrittori che disseppelliscono
la loro Africa sottraendola al peso dell'afroamericanità, come Paula
Marshall e Toni Morrison.
Altri, come Caryl Phillips, divengono cosmopoliti per scelta e necessità
culturale e cercano una via d'uscita organizzando un ibridismo
transistorico basato sulla confluenza di storie diverse, come avviene
nel suo recente romanzo The Nature of Blood ove lavora con una
molteplicità di intrecci legati dal comune denominatore di un discorso
sulla discriminazione e sulla sofferenza che ne consegue (Phillips,
1997). La vicenda italiana reinscenata nel romanzo, e costruita su
documenti originali tratti dagli archivi veneziani, tratta di un gruppo
di ebrei di Portobuffolè processati e condannati a morire sul rogo nella
Venezia del Cinquecento, e si fonde con sorprendente drammatícità con la
storia del nero Otello, solo e sperduto a Venezia, e ancor più con un
estraniante, difficile episodio della Shoah. L'uso dell'ibridismo in
Phillips è metastorico ma anche metaculturale, e si riferisce a un
fantasma di persecuzione che da secoli abita l'Europa. Lo stesso
Phillips aveva già usato una struttura nata dalla convergenza di più
storie nel precedente romanzo Cambridge, dove ogni possibilità di una
master narrative veniva vanificata dalle storie di due individui diversi
eppure allo stesso tempo collegati fra loro: e però in quel romanzo i
due personaggi erano collocati in un unico spazio cronologico e non
avevano ancora decostruito la storia (Phillips, 1986).
L’onnipresenza dell'ibridismo nella cultura contemporanea le sue
numerose impersonazioni e i suoi ruoli plurimi sul palcoscenico della
postmodernità, insieme alla sua funzione inevitabile all'interno della
postcolonialità, suggeriscono degli interrogativi fondamentali.
Ci si chiede infatti se l'íbridismo sia in se stesso un valore estetico
(o politico) nella cultura contemporanea, o se la sua celebrazione sul
mercato globale sia una maschera attraente che nasconde la reazione di
contraccolpo, il backlash del conservatorismo culturale in cui la
frammentazione detta legge e annienta la differenza. E a che punto si
trovano oggi le nostre società per quanto riguarda la politica
antirazzista, o addirittura la decostruzione del concetto di razza?
L’ibridismo che appare centrale nelle letterature postcoloniali è esso
stesso una via aperta verso il futuro, o non è piuttosto, nelle sue
versioni più accettabili, una tattica difensiva volta a proteggere
egemoníe da lungo tempo consolidate e così sostenerle nella guerra
economica?
In quanto aspetto della produzione culturale, l'íbridismo non può avere
in se stesso un valore estetico, sebbene sia evidente che quel medesimo
ibridismo ha esercitato ed esercita tuttora un forte potere di
attrazione e/o repulsione. E però può assumere un valore politico, ossia
può diventare un fattore politico positivo, cioè di political
correctness, quando esprima una posizione di affermazione culturale
identitaria oppure crei o semplicemente riconosca una nuova identità,
una reazione al mimetismo prodotto dalla colonialità: come avviene
nell'orgoglioso manifesto postcoloniale della creolità scritto da tre
scrittori caraibici della giovane generazione, Jean Bernabé_ Patrick
Chamoiseau e Raphaél Confiant:
Ni Européens, ni Africains, ni Asiatiques, nous nous proclamons Créoles. Cela sera pour nous une attitude intérieure[] La francisation nous a forcé à lautodénigrement: lot commun des colonisés. Il nous est souvent difficile de distinguer ce qui, en nous, pourrait faire lobjet dune démarche esthétique. Ce que nous acceptons beau en nous-mêmes cest le peu que lautre a déclaré beau. [] En littérature, mais aussi dans les autres formes de lexpression artistique, nos manières de rire, de chanter, de marcher, de vivre la mort, de juger la vie, de penser la déviene, daimer et de parler damour, ne furent que mal examinées. Notre imaginaire fut oublié, laissant ce grand désert où la fée Carabosse assécha Manman Dlo. Notre richesse bilinque refusée se maintint en douleur diglossique. [] le refus du fondament même de notre être, fundament quaujourdhui, avec toute la solemnité possible, nous déclarons être le vecteur ésthetique majeur de la connaissance de nous-mêmes et du monde: la Créolité. LAntillanité ne nous est pas accessible sans vision intérieure. Et la vision intérieure ne nous est pas accessible sans la totale acceptation de notre créolité. [] La Créolité est lagrégat interactionnel ou transactionnel des élements culturels caraïbes, européens, africains, asiatiques, et levantines, que la joug de lHistoire a réunis sur le même sol. [] La Créolité est une annihilation de la fausse universalité, du monolinguisme et de la pureté (Bernabé, Chamoiseau, Confiant, 1993: 13-28).
In quanto modalità culturale l'ibridismo si posiziona a un crocevia
di significati e può venire usato come arma nella guerra culturale. La
realtà è che l'ibridismo è insieme fatto e finzione, o, piuttosto, una
narrazione dell'Occidente. Nel nostro mondo globalizzato, l'inevitabile
ibridismo può divenire un orgoglioso strumento di espressione di sé, ma
d'altro canto può anche risultare in una astuta operazione di mercato,
un ambiguo espediente, un'invenzione mirante a piacere e lusingare:
insomma, può essere una trappola, e, ancora peggio, un'esca pronta a
esplodere. L'ibridismo non costituisce quindi in se stesso un valore
positivo di natura estetica e/o politica.
Il passo rapidissimo della modernità, l'irruzione della postmodernità
nelle culture umane e il potere crescente delle tecnologie hanno creato
la cultura di massa e l'hanno fatta diventare una entità supernazionale.
Questa è la logica culturale del tardo capitalismo come la descrive
Fredric Jameson (1991). Una condizione che potrebbe rivelarsi
culturalmente ma anche politicamente catastrofica, qualora l'autonomia
operativa della vita culturale dovesse abdicare cadendo nelle mani del
capitale privato e dei suoi interessi di profitto. Il pericolo vero è la
possibilità di una nuova forma di tirannia mascherata con i lustrini
d'una seducente utopia: una tirannia che non potrebbe venir fermata né
ritardata dall'ideologia della differenza, che è un concetto
pseudodialettico (Ibidem:341).
L'importanza dell'aspetto estetico diviene apprezzabile allorché si
misurano l'imminenza e le dimensioni del pericolo che ci minaccia nel
tempo e nello spazio che ci ospitano. L’estetica è infatti in grado
di sovvertire i dettati di una cultura addomesticata dal capitalismo e
di smascherarla, quando venga nutrita da un bisogno di conoscenza che
sia assoluto, totalizzante e disperato. O è anche in grado, talora, di
impedire che il nostro mondo venga del tutto ingoiato dal tardo
capitalismo.
Il bisogno di una nuova, corretta rappresentazione è la ragione per cui
lo scrittore postcoloniale decide di mettersi a scrivere: per riscrivere
il mondo. C'è una differenza cruciale fra la versione metropolitana
dell'íbridismo e la sua versione postcoloniale: se la prima esibisce una
sorta di godimento e trasforma la scrittura in gioco, la seconda
tradisce sofferenza, e una inenarrabile angoscia di dislocazione.
L’ibridismo postcoloniale è alla ricerca di identità politica e di
legittimazione.
Appare utile, a questo proposito, ricordare la conclusione dell'analisi
di Jameson in Postmodernísm, or, Tbe Cultural Logic of Late
Capitalis:
La strategia retorica delle pagine precedenti si è concretata in un esperimento, ossia nel cercare di vedere se sistematizzando una cosa che è assolutamente asistematica, e storicizzando una cosa che è risolutamente astorica, si poteva aggirare l'ostacolo e imporre un approccio storico almeno per pensare a tutto quanto ciò. "Dobbiamo dare un nome al sistema": questa idea chiave degli anni Sessanta trova una rinascita inaspettata nel dibattito postmodernista (Jameson, 1991:418).
Dare un nome a una cosa è un
altro modo per conoscerla. L’idea di creare una rete di razionalità
intorno al corpo della cultura contemporanea può venir giustamente
paragonato a un'impresa artistica, e quindi estetica: una
rappresentazione della realtà, e, nel caso dello scrittore, una realtà
inventata ma significante. Il filosofo e la narratrice appaiono come
fratello e sorella in una ricerca che costituisce un tentativo di
ragionare con la prossima e ventura egemonia globale del pensiero
economico, del tardo capitalismo, della globalizzazione e di tutte le
conseguenze culturali di ciò.
Lo studio delle culture ibride condotto dal messicano Nestor Garcia
Canclini (1998) poggia su due ipotesi. Secondo la prima ipotesi, la
modernità culturale non equivale a modernizzazíone ed è composta di
mescolanze, incroci, intersezioni fra il tradizionale e il nuovo;
l'ibridismo è quindi un fatto inerente alla modernità e da essa
inseparabile. La seconda ipotesi dice che l'ibridismo culturale è il
risultato della confluenza di tre correnti di produzione culturale: la
cultura elitaria, quella popolare e quella di massa. Si può osservare e
studiare l'ibridismo soltanto nel suo farsi, in quanto esso è un
fenomeno 'processuale'.
A confronto con la posizione di Jameson, le sue idee e l'umore di cui
esse sono permeate mostrano una società lontana dall'essere egemonizzata
e globalizzata dal tardo capitalismo, ma che potrebbe desiderare di
muoversi in quella direzione e che considera con piacevole anticipazione
la prospettiva di entrarvi. Tale visione positiva viene favorita anche
dalla consapevolezza dell'importanza economica dei processi culturali e
dal fatto che essi ibridizzano le tradizioni e le rendono adatte a
venire immesse sul mercato, pur sempre conservandole e sottraendole al
rischio di una probabile scomparsa.
In questo quadro antropologico, l'ibridismo diviene una strategia
positiva di sopravvivenza e un segno di rinnovamento della società
attraverso l'eliminazione delle distinzioni di classe nella produzione
culturale: scompaiono infatti le differenze fra cultura di élíte,
popolare e di massa in una prospettiva di massificazione generale.
Filosofi, antropologi e sociologi sembrano d’accordo nel vedere
nell’ibridismo un aspetto importante della cultura contemporanea. Il
loro atteggiamento cambia per quanto riguarda il modo in cui si dovrebbe
rapportare l’ibridismo: se cioè occorra accettarlo e accoglierlo, o se
si debba lottare contro di esso anche quando lo si ritenga inevitabile.
Le ragioni che suggeriscono l’una o l’altra soluzione sono ovviamente
politiche, così che rimane demandato alla scelta politica del cittadino
o della società se l’adottare l’ibridismo come una meravigliosa novità
anche nelle sue versioni commerciali, oppure se rifiutarlo e denunciarlo
smascherandolo come la pericolosa quinta colonna di un progetto
disastroso. Oppure, infine, se prenderlo come un inevitabile dato di
fatto e cercare di trarne il meglio per una società futura i cui valori
dobbiamo essere in grado di prevedere e pianificare.
L’aspetto estetico può costituire un alleato potente e contribuire
positivamente alla scelta e anche alla costruzione di quest’ultimo
progetto, come può anche ingannare e sedurre il desiderio per far
accettare una spettacolarizzazione dell’ibridismo senza che allo stesso
tempo se ne sia valutato il significato: l’artista sarà un attore di
primaria importanza in questo processo di significazione ma anche di
decostruzione dei concetti.