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ibridismi postcoloniali e valenze estetiche

itala vivan

Le arti figurative e la letteratura, la linguistica e l'antropologia, la sociologia e la religione, come pure le scienze naturali, denunciano la presenza emergente e l'influenza sempre maggiore dell'ibridismo nel discorso culturale del nostro tempo. Il fenomeno in quanto tale è tutt'altro che nuovo, poiché l'ibridazione è un processo comune a tutte le culture umane, anche se è stato inizialmente osservato nel contesto della vita organica, animale e vegetale.
Il termine indica una deviazione dalla norma della genealogia, una mescolanza, un incrocio, e quindi il risultato di un processo di ibridazione: insomma, una combinazione di elementi appartenenti a sistemi diversi, che, estrapolati dal contesto e mescolati, hanno generato un organismo o un prodotto, nuovi e creolizzati. Dalla biologia e dalla genetica il termine è stato esteso a concetti quali la razza e il linguaggio. Oggi esso copre un'ampia gamma di combinazioni che sono frutto dell'invenzione umana, e ha perciò finito per identificarsi con il mondo fatto dall'uomo.
Nel contesto culturale il processo di ibridazione attraversa e perciò mette in discussione opposizioni binarie fra elementi sinora considerati compatti e distinti, come uomo/donna, maschile/femminile, bianco/nero, indigeno/straniero, centro/periferia, est/ovest, mondo occidentale/terzo mondo, arte/produzione commerciale, e così via. Esso comporta inoltre un implicito elemento di ambiguità che un tempo veniva stigmatizzato come negativo e costituiva quasi una degradazione, una colpa segreta.
Si profila un primo interrogativo. Forse l'ibridismo è effettivamente, concretamente, più presente oggi di quanto non fosse in passato; o non è forse soltanto ora che il nostro occhio lo vede, un occhio che si rifiutava di vederlo sino a questa soglia di nuovo millennio? 0 forse ciò che oggi viene visto come ibridismo non è altro che una fabbricazione, una narrazione: la narrazione estrema dell'Occidente?
Il dibattito contemporaneo sulla natura della cultura e della letteratura del postcolonialismo trova nell'ibridismo uno dei suoi temi e dei suoi passaggi obbligati. Il primo a introdurlo nel discorso culturale è stato Michail Bachtin, seguito poi, a distanza, dal suo esegeta Tzvetan Todorov; ne hanno trattato, fra gli altri, Ahmad Aijaz, Homi Bhabha, Nestor Maria Canclini, Gilberto Freire, Paul Gilroy, Edouard Glissant, Stuart Hall, Benita Parry, Edward Said, Gayatri Spivak. E però esiste una sorta di trionfante. suprema trinità di teorici postcoloniali dell'ibridismo, costituita da Said, Spivak e Bhabha; quest'ultimo anzi ha addirittura edificato l'intera sua costruzione teorica sulla base di una rilettura del concetto di ibridismo.
Senza soffermarsi in questa sede sulle teorizzazioni specifiche di ciascun autore compito che è già stato variamente affrontato da Robert Young (1995), Pnina Webner (1997) e Nikos Papastergiadis (1997) sembra piú utile porre l’accento su alcuni aspetti specifici del dibattito contemporaneo.
I teorici che si sono occupati dell'ibridismo riconoscono che "non si può analizzare la storia della cultura occidentale, a partire almeno dal Cinquecento, senza far riferimento al colonialismo" (During, 1998:31). E in effetti la componente rappresentata dall'incontro coloniale e postcoloniale costituisce un fattore fondamentale e imprescindibile nel costituirsi dell'ibridismo e delle sue valenze culturali. L’íbridismo veniva presentato come pericolo nella situazione coloniale e però allo stesso tempo assumeva anche un carattere positivo, esoticamente attraente e esteticamente pregevole, che esaltava il potere del bianco e ne rilanciava il desiderio, creando un oggetto feticcio. L’economia politica della miscegenation creava un mondo di ibridismo da cui promanava ambiguità.
Il critico postcoloniale ha sovvertíto il senso di questo rapporto. Stuart Hall ha scoperto la molteplicità degli altri all'interno del sé, seguendo in ciò il cammino tracciato da Julia Kristeva (1988): o, per essere più esatti, ha capito che la storia del sé si costruisce sempre attraverso il silenzio dell'altro" (Hall 1991:49). Homi Bhabha costituisce un esempio tipico di tale capovolgimento; la sua è una voce che ha trovato vasta eco nell'ambito del dibattito contemporaneo. Per Bhabha, l'ibridismo è una sfida alla 'purezza' della 'tradizione', e quindi diviene una "poetica di re~iscrizione". Come osserva Werbner,

innestando l'idea bachtiniana della forza sovversiva e dialogica dell'ibridità sull'ambivalenza dell'incontro coloniale, Bhabha conferisce una nuova valenza al significato dell'ibridità stessa. L’ibridismo è il processo attraverso il quale il discorso dell'autorità coloniale mira a tradurre l'identità dell'Altro entro una categoria singola, e però poi fallisce, producendo qualcosa d'altro [...] emerge uno spazio terzo che è in grado di porre in essere delle forme di cambiamento politico che vanno oltre le antagonistiche opposizioni binarie fra dominatori e dominati (Werbner, 1997:279).

‘Postcoloniale', 'postcolonialità' sono vocaboli recenti, eppure già ampiamente criticati e pertanto controversi. Ciò che importa è il fatto che il termine 'postcolonialismo', riferito non solo alla letteratura ma anche al discorso critico' teorico o agli studi culturali, indica sostanzialmente una rappresentazione della destabilizzazione di strutture fisse e delimitate di quell'era imperiale e coloniale che aveva visto l'affermarsi e il consolidarsi dell'egemonia europea sul mondo intero. Scrittori e critici postcoloniali sono i protagonisti di un movimento di trasformazione in campo culturale, portatori e agenti di una rivoluzione del pensiero e della rappresentazione, e però anche vittime coatte, inevitabili, di un processo che li ha sradicati e ibridati sino a farli diventare stranieri assoluti, stranieri a se stessi, come Juha Kristeva definisce la loro categoria (1988). La politica della rappresentazione è la preoccupazione centrale, il perno insomma sia della narrativa sia della riflessione critica e filosofica della postcolonialità.
Ma è forse una economia di sopravvivenza, oppure una ansiosa ricerca di senso, la forza che spinge gli scrittori verso l'invenzione di una nuova estetica in cui un'intera gamma di nuovi, rinnovati concetti quale quello di straniero, di ibridismo, di interstizio e di íntersezione giocano un ruolo nuovo e decisamente positivo?
Nel mondo dell'egemonia coloniale, ciascun territorio delimitato e rinchiuso entro confini costituiva una sfera d'influenza esclusiva d'una potenza coloniale, ossia di una metropoli, all'interno d'un regime di capitalismi amministrati su base nazionale. Si aveva l'identità cristallizzata dell’ 'indigeno' (native) e la formazione di soggetti da esso derivati, quali l'indigeno istruito e quello assimilato, all'interno dell'identità indigena generalizzata; e si aveva l'emergere di una sfida anticoloniale e nazionalista alla dominazione straniera e all'usurpazione esterna della sovranità.
Se tutto ciò caratterizzava il mondo della colonialità, la postcolonialità si ha all'epoca in cui l'egemonía del capitalismo ,tardo', multinazionale, americano (e magari giapponese, e ancora europeo) si sostituisce all'imperialismo europeo di vecchio stile. E' l'era cosiddetta dell'imperialismo senza colonie. Ed è in riferimento a questo processo di smantellamento delle enclaves e delle soggettività delimitate che l'essere postcoloniale significa molto di più che l'essere un semplice, e avventizio, "ex coloniale", in quanto si carica di un preciso significato politico.
Gli scrittori postcoloniali cosmopoliti, ibridi, esuli, diasporici, interstiziali, godono di molto maggior visibilità e successo nel mondo accademico, nei media e sulla stampa delle aree metropolitane occidentali, a confronto della postcolonialità contro-egemonica, più nazionalista e regionalizzata. Lo scrittore-straniero è comunque un personaggio isolato nella solitudine ed insieme tipico quanto a condizione umana e culturale. La figura dello straniero è nel mondo contemporaneo un emblema su cui si concentra l'attenzione, una presenza che interroga lo stesso presente. La nostra contemporaneità ha nello straniero, nel migrante senza patria né confini, che varca i limiti e si sposta vivendo un'esistenza negli interstizi, nell'intersecarsi di storie e di memorie, l'unico eroe degno di ereditare l'aura dell'antico eroe epico, pur essendo cosi diverso da esso. L’individuo migrante non ha fissa dimora né fine al proprio cammino, perché il suo non è un viaggio bensì un perpetuo movimento, il senso della vita contemporanea, un modo di abitare il tempo e lo spazio non come strutture fisse, aree recintate e chiuse, ma come flusso mobile, linguaggio di traduzione in cui non si ha ancora più nessuna appartenenza. "Perché noi [scrittori indiani trapiantati], dice Salman Rushdie, siamo persone portate al di là del mondo, siamo individui tradotti" (1991:22).
Tale migrante ha nella cultura metropolitana il proprio orizzonte, dove formula una nuova estetica ibrida e nuovi stili di vita, dove reinventa la lingua che lo ospita e popola le strade facendosene nuovo padrone, scompaginando l'ordine in cui si incunea e reiscrivendo il palinsesto urbano. Stili ed eventi vengono rielaborati in un ciclo di continuo ritorno e revisione. La migrazione e il suo personaggio centrale lo straniero sono al centro anche del pensiero contemporaneo, delle sue metafore di spostamento, traslazione e contaminazione. Nell'estendersi dei contatti attraverso una globalizzazione generale, si aprono nuove dimensioni di civiltà e di riflessione ove non tutto si uniforma, ma anzi, le differenze sembrano farsi più rilevanti e quasi opache, impermeabili.
Questo è l'universo in cui si colloca lo scrittore/teorico della postcolonialità, talvolta come giocoliere, più spesso come dolente pellegrino che sotto la maschera ludica lascia scorrere lacrime e sangue, visibili allo sguardo che ne attraversi lo schermo protettivo di acrobatica modernità, o anche postmodernità. Nei giochi verbali di questo entertainer contemporaneo si incastra la sofferenza, si insinua lo smarrimento, e sgorga la malinconia, ineliminabile figlia della perdita.
L’ibridismo è visibile nella cultura e viene esaltato nel contesto della performance, dove, come scrive Nestor Garcia Canclini, si ha una convergenza di vari e diversi flussi di produzione culturale (Canclini, 1998). Secondo Canclini, il modo ottimale per osservare il processo di ibridazione consiste nel lavoro sul campo e nelle ricerche sul consumo culturale, dove i prodotti ibridi vengono messi in vendita e incontrano il mercato. Cosi si incontra la realtà del globalismo, in cui si ha una spettacolarizzazione totale della cultura e una conseguente necessità dell'ibridismo: ma più dietro la spinta del consumo che per una modalità spontanea della produzione che nascerebbe ibrida.
Se l'ibridità era un tempo non soltanto negativa, ma addiríttura mostruosa; se l'intervento del desiderio ha attivato una politica culturale della differenza che ha condotto al multiculturalismo, tanto che attualmente si è pronti ad ammettere che l'íbrido è bello e che è anche eticamente valido, dato che fa parte della moralità dell'antirazzismo, quale valenza estetica si riconosce a tutto ciò nel quadro contemporaneo? La cultura sembra andare alla ricerca di un nuovo quadro, e palcoscenico, in cui collocare la richiesta di estetica che proviene dalla cultura e dalla società del nostro tempo. L'ibridismo ha con l'estetica un rapporto probabilmente più forte di quanto non ne abbia con altri versanti della cultura umana, perché il sincretismo culturale si verifica in un contesto di esteticizzazione della vita quotidiana, di spettacolarizzazione della differenza, di fruizione estetica della pluralità.
Nel mondo globale, l'artista e lo scrittore sono diventati dei nomadi cosmopoliti e senza radici dispersi in una inevitabile diaspora. Ci si potrebbe chiedere, con Pnina Webner, "quale tipo di influenza abbiano i prodotti elaborati con intenzionalità estetica dagli artisti e intellettuali della diaspora nera e del terzo mondo sulle realtà dell'etnicità, del razzismo e del nazionalismo" (Webner, 1997:7).
Le risposte a questo quesito variano, come variano le interpretazioni individuali del quesito stesso.
Per l'indiano caraibico V.S. Naipaul, esemplare tipico della diaspora postcoloniale, l'attività dello scrittore è un modo di conservare l'identità remota rendendola ambigua (L'enigma dell'arrivo). Stando alle dichiarazioni del romanziere cinese Acheng, esponente della diaspora, l'esilio (o il distanziamento) costituisce un modo di creare un nuovo luogo e di ricollocarvi il proprio sé. In un'intervista rilasciata in Italia, a chi gli chiedeva "Che cos'è per te l'America?" rispondeva: "l’America è la mia scrivania".
Per il caraibico Édouard Glissant, "i Caraibi sono una sorta di prefazione al continente [americano], un collegamento fra ciò che bisogna lasciarsi alle spalle e ciò che bisogna ímparare a conoscere" (Glissant, 1996: 12). Così si realizzerebbe il Toutmonde, il Tuttomondo, in cui la creolizzazione ben diversa dal meticciato costituisce l'elemento di imprevedibilità creativa, grazie al "pensiero dell'arcipelago, che è anche il pensiero dell'ambiguità" (Glissant, 1996: 89).
Altre volte, lo scrittore postcoloniale vuole attirare il pubblico dei lettori con un linguaggio polisemico ricco di strati plurími di significato e, nello stesso tempo, rimanere sulla soglia, al limitare dello spazio, nella posizione del trickster che usufruisce di un ruolo ambiguo e appartiene a un universo liminale. Tale sembra essere il ruolo di Ben Okrí, nigeriano della diaspora che vive e scrive in Gran Bretagna, e i cui personaggi recedono dalla realtà storica muovendosi all'indietro, verso il non luogo crepuscolare dell'ambiguità identitaria.
L’ibridismo si configura nella postcolonialità come risultato di reazioni sia consce che inconsce contro l'egemonia del colonialismo. Esso costituisce un'affermazione di differenza in cui l'Altro si posiziona come soggetto: ma l'Altro non può vedere se stesso come altro, e perciò marca la differenza 'diventando' soggetto.
V'è uno scarto significativo fra il discorso sull'alterità Ia corsa postmoderna all'alterità", come la definisce la scrittrice Zoé Wicomb, che vede in essa un prevedibile "risultato del processo di mercificazione scatenato dal colonialismo" (Wicomb, 1997:4078) e il rifiuto che a tale discorso oppongono critici e artisti postcoloniali. Molti ritengono che una discussione esteticizzata del mínoritario risulti in un pretesto, un gradevole mascheramento di fatto mirante ad attirare il consumo e a creare consumismo. Tale è l'accusa rivolta all'estetizzazione contemporanea da parte di Deleuze e Guattari, che posizionano il minoritario entro una metafora di territorio e lo collegano con un processo di divenire. Secondo Wicomb, la manovra "va abilmente a fondere il coloniale con l'altro psicanalitico. L’alterità è concepita come un processo di crescita che non è collegata al territorio, anzi, è deterritorializzata" Ubidem).
La costruzione dell'alterizzazione che è un processo dovrebbe venire analizzata, come suggerisce Toni Morrison, sottolineando l'impatto del razzismo su coloro che tale razzismo perpetuano. " [ ... 1 Quello che io propongo", scrive Morrison, "è che si analizzi l'impatto dei concetti di gerarchia razziale, di esclusione razziale e vulnerabilità e disponibilità razziale sui non neri che hanno sostenuto tali concetti, li hanno combattuti, li hanno esplorati o alterati" (Morrison, 1993: 11). Toni Morrison ha messo in pratica tali teorie nel tessuto vivo della sua narrativa. Il suo atteggiamento nei confronti della storia e il suo recupero/reínvenzione della storia orale, considerata testo primario, rappresentano un passo importante, anzi, decisivo nella direzione di un rinnovamento del canone, dove l'estetica non si può separare dall'etica, e il concetto di estetica varia. A seconda delle culture. Nei romanzi Jazz e Amatissima la cosmologia africana affiora in personaggi assolutamente ibridi, in cui il concetto della continuità esistente fra il mondo dei viventi e quello dei non viventi prende forma in movenze tragicamente inevitabili, che trovano senso e spiegazione solo all'interno della loro condizione di creature interstiziali.
In questo contesto va citata l'opera narrativa del sudafricano Sol Plaatje, e specialmente il romanzo Mbudi (1930) in cui oralità e spettacolarizzazione sebbene originariamente castrate dal controllo coloniale missionario manifestano ibridismo e ambiguità a livelli altamenti positivi: non imitazione, ma contraddizione, uno sguardo ironico, una duplicità ricca di molteplice senso, una performance 'significante' ad opera di un abile tríckster. Un simile prodotto letterario costituisce un esempio eccellente di ibrido intenzionale nel senso indicato da Bachtin, in quanto dotato di un elemento dialogico interno.
L’opera di Sol Plaatje si potrebbe utilmente confrontare con il romanzo God's Stepchildren (1924) della scrittrice sudafricana bianca Gertrude Sarah Millin, allo scopo di effettuare una istruttiva analisi del ruolo della coscienza razziale all’interno della situazione coloniale e avviare uno studio della whíteness, della 'bianchezza', nella direzione suggerita da Toni Morrison. C'è ancora fitto silenzio in questa direzione, che potrebbe condurre ad analizzare questioni teoriche di identità, potere e responsabilità. Millin manifesta disprezzo per l'ibridità razziale - il meticciato - facendone simbolo di corruzione e rovina della 'purezza bianca': e attraverso tale processo di stigmatizzazione giunge.a negare, a escludere la realtà effettiva del mondo in cui vive. Lo strumento di cui si serve la narratrice attinge alla sfera dell'estetica, poiché il fatto che il protagonista, un bianco, scelga di accoppiarsi e convivere con una donna dalla pelle nera viene rappresentato come una 'caduta', una stortura, una disarmonia che non può che generare repulsione e alla fine obbligherà il figlio di tale unione a una vita di rinuncia e di astensione sessuale allo scopo di spegnere una stirpe degenere. E' quindi anche un principio estetico quello che spinge a rifiutare l'ibrídismo che pure irrompe nella.realtà coloniale, marchiandolo con disgusto e denotandolo negativamente sino a renderlo 'brutto' come un contagio da estirpare.
L`Europa, che non ha mai voluto vedere l'ibridismo costitutivo della sua struttura culturale, sarà comunque costretta ad accettare la consapevolezza dell’ibridismo ora che l'invasiva diaspora dell'immigrazione ne cambia visibilmente e rapidamente i connotati culturali: una diaspora che è iniziata con l'irruzione degli ex colonizzati che si sono diretti verso quelli che un tempo erano i centri degli imperi occidentali. Ma ormai siamo andati ben oltre: attualmente si tratta di una ininterrotta sequenza di ondate di popolazioni spinte dalla povertà e dal bisogno, o magari anche soltanto dal desiderio, che urgono per entrare in un'area ove sembrano sussistere migliori opportunità di lavoro e di sopravvivenza. Il vecchio continente sta affrontando nuovi problemi, che solo in parte sono simili a quelli che hanno già affrontato altri continenti, come le Americhe, o l'Australia: la differenza consiste nel fatto che l'Europa si è sempre vista come centro del mondo, e tale concetto di sé è profondamente radicato nella sua cultura e ha sottilmente informato i suoi atteggiamenti. Il processo di inevitabile ibridazione in atto, che si sta già manifestando in modo inequivocabile proprio là dove più forte era la consapevolezza della propria centralità come in Inghilterra e in Francia e che verrà senza dubbio accelerato dai processi di uniformazione messi in essere dall'Unione Europea, erode gradatamente la coscienza di sé del soggetto imperiale europeo, sgretolandola per riplasmarla in una diversa entità.
Qualcuno potrebbe osservare che negli ultimi tempi la globalizzazione si sarebbe sostituita al postcolonialismo (During, 1998), o almeno sarebbe sul punto di farlo. Personalmente, ritengo che la globalizzazione sia una risposta al postcolonialismo, e anche una risposta assai dura. I principi della globalizzazione sono nati in ambienti economici e si fondano sull'economia, mentre il concetto, e la definizione, di postcolonialismo sono nati in circoli politici (Ahmad, 1992) trasformandosi poi in un'ampia etichetta usata per indicare il dibattito contemporaneo su temi culturali: valori, principi, problemi. La globalizzazione costituisce un ennesimo modo per affermare la priorità del profitto, del mercato e del capitale su ogni altro fattore delle civiltà umane, mentre i suoi aspetti culturali vengono rivolti al consumo e al marketing delle risorse, e creano così nuove dinamiche di desiderio. Gli usi dell'ibridismo posti in essere dalla civiltà della globalizzazione sono quindi funzionali a una commercializzazione della cultura e, a mio avviso, non fanno che mascherare l'effettiva radicalizzazione di forze e poteri mirante a neutralizzare gli sforzi e le spinte rivoluzionari del pensiero postcoloniale. In breve, la globalizzazione risulta essere uno stadio di 'reazione' (Starobinski, 1999) all'interno della guerra culturale attualmente in corso: uno stadio in cui l'economia si schiera a sostenere uno dei due contendenti.
La fase che stiamo vivendo all'ínterno della nostra storia culturale, in movimento verso una globalizzazione totale in ogni angolo del pianeta, offre aspetti che di fatto appaiono attraenti anche esteticamente e culturalmente: e tra di essi spicca l'ibridismo.
Nel teatro delle guerre culturali, gli scrittori costituiscono delle pedine più che dei generali in grado di comandare movimenti di truppa. Una liminalità ineliminabile consente agli scrittori di usare il mondo come un palcoscenico su cui inscenare un testo di ibridazione: Rushdie con la sua riproposta del dramma della migrazione ne I versi satanki, Naípaul con la sua malinconica, ammaliante sublimazione dell'Enigma dell'arrívo, dove celebra l'impossibilità del ritorno in patria, sebbene sia stato proprio lo scrittore postcoloniale a inaugurare il modello del continuo ritorno. E' interessante osservare come il tema di Naipaul sia analogo al nocciolo centrale del testo di Tzvetan Todorov sulla postmodernità, L!uomo spaesato (Todorov, 1997).
Sembra che lo scrittore sia diventato un globetrotter cosmopolita che non potrà mai più ritornare in patria, poiché il suo movimento ininterrotto, il suo girovagare gli impediscono di mettere radici in un territorio. Il problema della deterritorializzazione, unito a quello della dislocazione, sono al cuore della situazione postcoloniale. Scrittori come Derek Walcott o V S. Naipaul divengono globalmente visibili grazie a un cosmopolitismo che li rende anche testimoni ambigui del loro tempo. Un ulteriore esempio di tale ambiguità è costituito da Ben Okri, man mano che egli si posizionava al centro dell'ex impero, nella metropoli di Londra.
Esistono anche molti scrittori che continuano a scrivere della propria patria originaria, come Maryse Condè che scrive la sua Guadalupa, sebbene talvolta ibridandola con l'Africa nella saga di Ségou. 0 Nuruddin Farah, esule perenne da una Somalia che ritorna costantemente nei suoi romanzi. E scrittori che disseppelliscono la loro Africa sottraendola al peso dell'afroamericanità, come Paula Marshall e Toni Morrison.
Altri, come Caryl Phillips, divengono cosmopoliti per scelta e necessità culturale e cercano una via d'uscita organizzando un ibridismo transistorico basato sulla confluenza di storie diverse, come avviene nel suo recente romanzo The Nature of Blood ove lavora con una molteplicità di intrecci legati dal comune denominatore di un discorso sulla discriminazione e sulla sofferenza che ne consegue (Phillips, 1997). La vicenda italiana reinscenata nel romanzo, e costruita su documenti originali tratti dagli archivi veneziani, tratta di un gruppo di ebrei di Portobuffolè processati e condannati a morire sul rogo nella Venezia del Cinquecento, e si fonde con sorprendente drammatícità con la storia del nero Otello, solo e sperduto a Venezia, e ancor più con un estraniante, difficile episodio della Shoah. L'uso dell'ibridismo in Phillips è metastorico ma anche metaculturale, e si riferisce a un fantasma di persecuzione che da secoli abita l'Europa. Lo stesso Phillips aveva già usato una struttura nata dalla convergenza di più storie nel precedente romanzo Cambridge, dove ogni possibilità di una master narrative veniva vanificata dalle storie di due individui diversi eppure allo stesso tempo collegati fra loro: e però in quel romanzo i due personaggi erano collocati in un unico spazio cronologico e non avevano ancora decostruito la storia (Phillips, 1986).
L’onnipresenza dell'ibridismo nella cultura contemporanea le sue numerose impersonazioni e i suoi ruoli plurimi sul palcoscenico della postmodernità, insieme alla sua funzione inevitabile all'interno della postcolonialità, suggeriscono degli interrogativi fondamentali.
Ci si chiede infatti se l'íbridismo sia in se stesso un valore estetico (o politico) nella cultura contemporanea, o se la sua celebrazione sul mercato globale sia una maschera attraente che nasconde la reazione di contraccolpo, il backlash del conservatorismo culturale in cui la frammentazione detta legge e annienta la differenza. E a che punto si trovano oggi le nostre società per quanto riguarda la politica antirazzista, o addirittura la decostruzione del concetto di razza?
L’ibridismo che appare centrale nelle letterature postcoloniali è esso stesso una via aperta verso il futuro, o non è piuttosto, nelle sue versioni più accettabili, una tattica difensiva volta a proteggere egemoníe da lungo tempo consolidate e così sostenerle nella guerra economica?
In quanto aspetto della produzione culturale, l'íbridismo non può avere in se stesso un valore estetico, sebbene sia evidente che quel medesimo ibridismo ha esercitato ed esercita tuttora un forte potere di attrazione e/o repulsione. E però può assumere un valore politico, ossia può diventare un fattore politico positivo, cioè di political correctness, quando esprima una posizione di affermazione culturale identitaria oppure crei o semplicemente riconosca una nuova identità, una reazione al mimetismo prodotto dalla colonialità: come avviene nell'orgoglioso manifesto postcoloniale della creolità scritto da tre scrittori caraibici della giovane generazione, Jean Bernabé_ Patrick Chamoiseau e Raphaél Confiant:

Ni Européens, ni Africains, ni Asiatiques, nous nous proclamons Créoles. Cela sera pour nous une attitude intérieure[] La francisation nous a forcé à lautodénigrement: lot commun des colonisés. Il nous est souvent difficile de distinguer ce qui, en nous, pourrait faire lobjet dune démarche esthétique. Ce que nous acceptons beau en nous-mêmes cest le peu que lautre a déclaré beau. [] En littérature, mais aussi dans les autres formes de lexpression artistique, nos manières de rire, de chanter, de marcher, de vivre la mort, de juger la vie, de penser la déviene, daimer et de parler damour, ne furent que mal examinées. Notre imaginaire fut oublié, laissant ce grand désert où la fée Carabosse assécha Manman Dlo. Notre richesse bilinque refusée se maintint en douleur diglossique. [] le refus du fondament même de notre être, fundament quaujourdhui, avec toute la solemnité possible, nous déclarons être le vecteur ésthetique majeur de la connaissance de nous-mêmes et du monde: la Créolité. LAntillanité ne nous est pas accessible sans vision intérieure. Et la vision intérieure ne nous est pas accessible sans la totale acceptation de notre créolité. [] La Créolité est lagrégat interactionnel ou transactionnel des élements culturels caraïbes, européens, africains, asiatiques, et levantines, que la joug de lHistoire a réunis sur le même sol. [] La Créolité est une annihilation de la fausse universalité, du monolinguisme et de la pureté (Bernabé, Chamoiseau, Confiant, 1993: 13-28).

In quanto modalità culturale l'ibridismo si posiziona a un crocevia di significati e può venire usato come arma nella guerra culturale. La realtà è che l'ibridismo è insieme fatto e finzione, o, piuttosto, una narrazione dell'Occidente. Nel nostro mondo globalizzato, l'inevitabile ibridismo può divenire un orgoglioso strumento di espressione di sé, ma d'altro canto può anche risultare in una astuta operazione di mercato, un ambiguo espediente, un'invenzione mirante a piacere e lusingare: insomma, può essere una trappola, e, ancora peggio, un'esca pronta a esplodere. L'ibridismo non costituisce quindi in se stesso un valore positivo di natura estetica e/o politica.
Il passo rapidissimo della modernità, l'irruzione della postmodernità nelle culture umane e il potere crescente delle tecnologie hanno creato la cultura di massa e l'hanno fatta diventare una entità supernazionale. Questa è la logica culturale del tardo capitalismo come la descrive Fredric Jameson (1991). Una condizione che potrebbe rivelarsi culturalmente ma anche politicamente catastrofica, qualora l'autonomia operativa della vita culturale dovesse abdicare cadendo nelle mani del capitale privato e dei suoi interessi di profitto. Il pericolo vero è la possibilità di una nuova forma di tirannia mascherata con i lustrini d'una seducente utopia: una tirannia che non potrebbe venir fermata né ritardata dall'ideologia della differenza, che è un concetto pseudodialettico (Ibidem:341).
L'importanza dell'aspetto estetico diviene apprezzabile allorché si misurano l'imminenza e le dimensioni del pericolo che ci minaccia nel tempo e nello spazio che ci ospitano. L’estetica è infatti in grado di sovvertire i dettati di una cultura addomesticata dal capitalismo e di smascherarla, quando venga nutrita da un bisogno di conoscenza che sia assoluto, totalizzante e disperato. O è anche in grado, talora, di impedire che il nostro mondo venga del tutto ingoiato dal tardo capitalismo.
Il bisogno di una nuova, corretta rappresentazione è la ragione per cui lo scrittore postcoloniale decide di mettersi a scrivere: per riscrivere il mondo. C'è una differenza cruciale fra la versione metropolitana dell'íbridismo e la sua versione postcoloniale: se la prima esibisce una sorta di godimento e trasforma la scrittura in gioco, la seconda tradisce sofferenza, e una inenarrabile angoscia di dislocazione. L’ibridismo postcoloniale è alla ricerca di identità politica e di legittimazione.
Appare utile, a questo proposito, ricordare la conclusione dell'analisi di Jameson in Postmodernísm, or, Tbe Cultural Logic of Late Capitalis:

La strategia retorica delle pagine precedenti si è concretata in un esperimento, ossia nel cercare di vedere se sistematizzando una cosa che è assolutamente asistematica, e storicizzando una cosa che è risolutamente astorica, si poteva aggirare l'ostacolo e imporre un approccio storico almeno per pensare a tutto quanto ciò. "Dobbiamo dare un nome al sistema": questa idea chiave degli anni Sessanta trova una rinascita inaspettata nel dibattito postmodernista (Jameson, 1991:418).

Dare un nome a una cosa è un altro modo per conoscerla. L’idea di creare una rete di razionalità intorno al corpo della cultura contemporanea può venir giustamente paragonato a un'impresa artistica, e quindi estetica: una rappresentazione della realtà, e, nel caso dello scrittore, una realtà inventata ma significante. Il filosofo e la narratrice appaiono come fratello e sorella in una ricerca che costituisce un tentativo di ragionare con la prossima e ventura egemonia globale del pensiero economico, del tardo capitalismo, della globalizzazione e di tutte le conseguenze culturali di ciò.
Lo studio delle culture ibride condotto dal messicano Nestor Garcia Canclini (1998) poggia su due ipotesi. Secondo la prima ipotesi, la modernità culturale non equivale a modernizzazíone ed è composta di mescolanze, incroci, intersezioni fra il tradizionale e il nuovo; l'ibridismo è quindi un fatto inerente alla modernità e da essa inseparabile. La seconda ipotesi dice che l'ibridismo culturale è il risultato della confluenza di tre correnti di produzione culturale: la cultura elitaria, quella popolare e quella di massa. Si può osservare e studiare l'ibridismo soltanto nel suo farsi, in quanto esso è un fenomeno 'processuale'.
A confronto con la posizione di Jameson, le sue idee e l'umore di cui esse sono permeate mostrano una società lontana dall'essere egemonizzata e globalizzata dal tardo capitalismo, ma che potrebbe desiderare di muoversi in quella direzione e che considera con piacevole anticipazione la prospettiva di entrarvi. Tale visione positiva viene favorita anche dalla consapevolezza dell'importanza economica dei processi culturali e dal fatto che essi ibridizzano le tradizioni e le rendono adatte a venire immesse sul mercato, pur sempre conservandole e sottraendole al rischio di una probabile scomparsa.
In questo quadro antropologico, l'ibridismo diviene una strategia positiva di sopravvivenza e un segno di rinnovamento della società attraverso l'eliminazione delle distinzioni di classe nella produzione culturale: scompaiono infatti le differenze fra cultura di élíte, popolare e di massa in una prospettiva di massificazione generale.

Filosofi, antropologi e sociologi sembrano d’accordo nel vedere nell’ibridismo un aspetto importante della cultura contemporanea. Il loro atteggiamento cambia per quanto riguarda il modo in cui si dovrebbe rapportare l’ibridismo: se cioè occorra accettarlo e accoglierlo, o se si debba lottare contro di esso anche quando lo si ritenga inevitabile. Le ragioni che suggeriscono l’una o l’altra soluzione sono ovviamente politiche, così che rimane demandato alla scelta politica del cittadino o della società se l’adottare l’ibridismo come una meravigliosa novità anche nelle sue versioni commerciali, oppure se rifiutarlo e denunciarlo smascherandolo come la pericolosa quinta colonna di un progetto disastroso. Oppure, infine, se prenderlo come un inevitabile dato di fatto e cercare di trarne il meglio per una società futura i cui valori dobbiamo essere in grado di prevedere e pianificare.
L’aspetto estetico può costituire un alleato potente e contribuire positivamente alla scelta e anche alla costruzione di quest’ultimo progetto, come può anche ingannare e sedurre il desiderio per far accettare una spettacolarizzazione dell’ibridismo senza che allo stesso tempo se ne sia valutato il significato: l’artista sarà un attore di primaria importanza in questo processo di significazione ma anche di decostruzione dei concetti.

Da Estetica e differenza (a. c. di Paola Zaccaria, Palomar, 2002). Per gentile concessione della prof.ssa Itala Vivan

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Anno 0, Numero 2
December 2003

 

 

 

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