El Ghibli - rivista online di letteratura della migrazione

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roberto michilli

Il ritorno del reduce

Lo zio Umberto tornò dall'Africa il 7 gennaio del '47. In paese c'era un metro di neve, in quei giorni. Andarono a prenderlo alla stazione di Teramo con un furgone, portandosi dietro le pale per aprirsi la strada. Novarro, mio cugino, aveva allora otto anni, e non conosceva il padre. Capì che stava accadendo qualcosa di straordinario dall'agitazione che c'era per casa. Quando arrivò questo negro avvolto in un grande sciarpone rosso, lui se ne rimase in un angolo, intimidito. Continuò a lungo a chiamare "zio" il padre.

Tra guerra e prigionia, lo zio Umberto era rimasto in Africa Orientale per dodici anni. Partito nel '35, era tornato una prima volta nel '38, per i 15 giorni di licenza matrimoniale, e poi ancora una volta nel gennaio del '40 quando morì la nonna Felicita. Vide così il figlio, che aveva allora nove mesi. Poco dopo il suo ritorno in Africa fu fatto prigioniero.

Era un bravo meccanico. Quando lo chiamarono alle armi, fu assegnato all'Autoparco di Trieste. Al ritorno della prigionia, riprese il suo antico mestiere e "ripassava", rinnovandoli, i motori dei vecchi macinini che c'erano in paese. Gli attrezzi glieli prestavano gli amici, tra cui un certo La Barbera di Teramo, che era stato suo commilitone e s'era salvato dalla prigionia perché rimpatriato per malattia. Era uno straordinario cacciatore, questo La Barbera, con una mira eccezionale. Mangiava spesso carne di gazzella, e si beccò così la tenia, grazie alla quale poté tornare in Italia.

Avventure di viaggio 2

Papà faceva scarpe per un commerciante che abitava alla “Piotti”, un gruppo di case all’inizio del paese. Quando fui abbastanza grande, affidò a me il compito di consegnare il lavoro finito. Con due o tre paia di scarpe nuove in una vecchia borsa nera coi manici, grande una buona metà di me, partivo da via Diana per la delicata missione. Avevo sette, otto anni, e quello al quale mi accingevo era un viaggio lungo e avventuroso. Il mio territorio finiva al “Ponte”, la piazzetta con la fontana dalla quale iniziava anche il ripido sentiero che scendeva al fiume. Era quello il confine tra le terre amiche e quelle ostili. Appena entrato in queste, costeggiavo il muro di cinta del giardino di casa Rozzi, ricco di mandorli, susini e laurocerasi, passavo poi davanti alla bottega da falegname di Caravelli e, arrivato all’angolo, mi affacciavo con circospezione sulla piazzetta dietro il Duomo. Lì spadroneggiava la banda di Berardo, con la quale già più volte m’ero scontrato. Ma in quelle occasioni avevo con me i miei compagni, mentre adesso ero solo, e il pericolo era grande. Se non c’erano nemici in vista, sollevavo la borsa con tutte e due le mani e attraversavo di corsa la piazza. Sul lato opposto, si aprivano le finestre che davano luce alla cripta del Duomo. Le mura erano così spesse, che il davanzale era profondo più di un metro. Sedevo lì per qualche momento, a riprendere fiato, poi mi rimettevo in marcia. Poco più avanti mi fermavo di nuovo. C’era la bottega di Sergio, l’arrotino, grande amico di papà. Ci andavo spesso per arrotare gli stretti coltelli d’acciaio che lui usava per rifilare le suole e le tomaie. Quando erano nuovi, non sembravano coltelli. Erano delle stecche piatte, nere, lunghe sui 25 centimetri e larghe circa tre. Sergio ne passava un’estremità alla mola, e rivelavano allora la loro anima lucente. Il taglio era diagonale; il resto della stecca faceva da manico. Diventava via via sempre più corto, man mano che le successive arrotature lo mangiavano, finché non poteva essere più tenuto in mano. Un piccolo rubinetto tutto incrostato di polvere grigia solidificata lasciava colare gocce d’acqua sulla grossa mola ruotante; dalla lama sprizzavano fasci di scintille; ogni tanto Sergio saggiava il filo sull’unghia del pollice. Alla fine mi restituiva i coltelli con gli affilatissimi tagli protetti da robusta carta da pacchi. Si alzava gli occhiali sulla fronte, si toglieva di bocca l’eterna sigaretta e mi raccomandava di fare attenzione e di salutare papà. Se non avevo coltelli da arrotare, passavo lo stesso a salutare Sergio e mi fermavo per un po’ a guardare le scintille. Poco più avanti, la strada del Ponte si immetteva nella Via Nuova, quella che portava in città. Dovevo stare attento alle macchine, adesso. Non ce n’erano molte, ma qualcuna passava. Ai tavoli davanti alla cantina di Marietta, c’era sempre qualcuno a giocare a carte o alla Passatella. Nella bottega accanto vendevano mangimi e pulcini. Ce n’erano decine in una gabbia a più piani sovrapposti. Sembravano limoni col becco e le zampine. Pigolavano a tutto spiano. Intorno alla gabbia ronzavano un paio di gatti randagi con la coda al vento. Li scacciavano, ma tornavano dopo poco. Ed eccomi ora sotto il tunnel verde formato dalle folte chiome degli ippocastani, che da quel punto cominciavano a fiancheggiare la strada. In primavera, gli alberi mettevano fiori simili a tanti alberelli di Natale bianchi e rossi; in autunno i ricci cadevano giù e sparpagliavano sul terreno i tesori che racchiudevano. Sapevo che non erano buone da mangiare, ma mi riempivo lo stesso le tasche con le castagne dalla bruna pelle lucente. Erano così belle e lisce, che mi sembrava un peccato lasciarle lì per terra. Pietro, uno dei campioni della nostra squadra di pallacanestro, era capace di farne roteare per aria tre o quattro, come facevano i giocolieri del circo Takimiri che veniva ogni tanto in paese. Io ci provavo, ma mi cadevano sempre. Oltrepassavo l’imbocco della strada in discesa che portava all’Arena dei Pini, il nuovo campo di pallacanestro, quindi, poco oltre, l’attacco del sentiero che risaliva a Capocampli. Al di là di un ponte, c’era il bivio per Paduli e, poco oltre, il mattatoio, un luogo che mi attirava e insieme mi faceva paura. Andavo ogni volta ad affacciarmi alla grande porta, e guardavo nell’enorme sala buia, temendo e insieme sperando che stessero uccidendo qualche animale. Ai buoi e ai vitelli sparavano in fronte; gli agnelli invece li sgozzavano. Antonio e Armando, i macellai, avevano stivali di gomma verde e un grembiule blu. Dall’altro lato della piazzetta c’era il mulino del mio amico Claudio. Il padre era un uomo smilzo e di statura appena normale, eppure sollevava quei grossi sacchi con grande facilità. Aveva sempre i capelli e le sopracciglia bianche di farina. Le macine erano due e rombavano forte. La farina scendeva ad accumularsi in una specie di madia; le mura e il pavimento erano ricoperti di polvere bianca. Ero ormai arrivato, il commerciante abitava poco più avanti. Aveva un grosso gatto bianco e nero che mi piaceva molto. Lo trovavo sempre su una panchina in pietra di fianco alla porta d’ingresso, e mi sedevo per un attimo accanto a lui, che veniva a strusciarmisi sulla spalla. Consegnavo le scarpe e ritiravo le tomaie tagliate. Mamma le avrebbe poi cucite e papà messe in forma. Lungo la via del ritorno la borsa era molto più leggera.

La bicicletta

Arrivò in una sera d’estate. Quella bicicletta era il regalo di mamma e papà per essere stato promosso all’esame d’ammissione alle medie. Era costata ventiquattromila lire, una enormità. Non ero stato io a chiederla, non l’avrei mai fatto: sapevo quanto fossero duri da guadagnare i soldi per i miei. Ma da tempo mia madre metteva da parte il necessario per comprarmela. Faceva sempre così, lei. Risparmiava per mesi, per anni, anche, e un bel giorno diceva che si poteva comprare la cucina nuova, oppure il frigorifero o la televisione.

Il camion si fermò nella piazzetta di San Francesco. Ad aspettarlo c’eravamo noi tre, insieme al negoziante e al suo meccanico. L’autista la scaricò. Era protetta da un involucro di cartone. Quando lo tolsero, la mia Vicini Sport apparve in tutto il suo splendore. Il telaio era color dell’oro, le cromature splendevano. Aveva le gomme bianche, il cambio a quattro rapporti e la borraccia. Nel borsellino di cuoio marrone appeso dietro al sedile c’erano i ferri per togliere il copertone, il mastice e le pezze per riparare le forature. Avrei voluto provarla subito, ma il meccanico mi spiegò che oltre ad avvitare i pedali, doveva prima controllare i freni, stringere i vari bulloni, registrare la catena, regolare il manubrio e il sellino. Quando finì, era ormai troppo tardi per provarla su strada, così mi limitai ad arrivarci fino a casa mia, che era lì vicino. La portai su per le scale e fin dentro la cucina. Non mi fidavo a lasciarla sul terrazzo. La notte, non riuscivo a prendere sonno. Ogni tanto lasciavo il letto e andavo a rimirarla. Era la prima bicicletta che possedevo. Avevo imparato tardi, ad andarci, non era facile trovarne una per provare. Un’estate, il mio amico Franco, che veniva ogni anno in paese da Chieti per passare le vacanze dalla nonna, m’aveva prestato la sua. M’ero buttato allora giù per la discesa del Fosso di Manzo, con i piedi lontani dai pedali che giravano vorticosamente. La velocità favoriva l’equilibrio e in breve avevo anche imparato a pedalare.

Mi svegliai che non erano nemmeno le sei. Mamma, però, s’era già alzata e m’accompagnò fin giù al portone. – Sta’ attento, - mi disse sorridendo alla mia gioia, mentre partivo. Il cielo era sereno, l’aria fresca, e io volavo leggero giù per la discesa di San Michele.

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Anno 0, Numero 2
December 2003

 

 

 

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