El Ghibli - rivista online di letteratura della migrazione
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la solitudine
joseph-marie kamsu tchuente
Non è solo l'ostracismo a uccidere l'anima. E' anche l'isolamento che
provoca la riflessione sui fallimenti e i successi dell'esistenza. Con
la solitudine, la noia è nell'organismo. Paralizza quell'entusiasmo
che l'isolamento radica nella monotonia e non concede pace.
Rientrato
dal lavoro alle sette e trenta, non lascio più la mia stanza. Anche
durante il fine settimana esco raramente, giusto fino al supermercato
sotto casa a comprare qualcosa per cucinare, per le pulizie e la mia
toeletta.
Vivo in un paese straniero, lontano dalle mie origini,
risiedo in una città dove girano soldi e le persone non desiderano che
guadagnarne sempre di più.
Durante i primi cinque anni trascorsi
all'Università di Stato, quasi tutti i giorni facevo visita a qualche
compagno di studi. Alcuni abitavano nella mia stessa residenza
universitaria: studenti non molto socievoli, nemmeno molto amichevoli,
un po' individualisti. Forse il liberalismo ne è in gran parte
responsabile.
Due anni fa, dopo la laurea, sono entrato in una
multinazionale. Ho tentato, quel giorno, di far conversazione con il
mio collega d'ufficio, perché sapevo che una buona conoscenza permette
una collaborazione solida e un'armonia di squadra. Mi sono sforzato di
essere ben educato perché il contatto fosse il più amichevole
possibile.
- Buon giorno. Io sono completamente nuovo nel mondo del lavoro, lei ...
euh ... tu, tu puoi parlarmi del funzionamento del nostro ufficio?
Dato che aveva due anni più di me, il mio capo, e gli stessi di
anzianità, mi aspettavo che mi esponesse le sue esigenze e il modo in
cui intendeva fare squadra con me. Con un bel sorriso, molto cortese,
ha risposto:
- Tanto per cominciare, non mi dia del tu. Lei è stato assunto per le
sue capacità e dunque me le dimostri. Io non sono qui per insegnarle
nulla. Francamente, non me lo sarei aspettato: sono restato un breve
istante in piedi davanti alla sua scrivania. Gli avevo parlato
facendo bene attenzione di essere nella pausa pranzo, avendo cura di
risultare molto cordiale e non credevo che mi avrebbe risposto così
duramente. Ho smesso di sorridere.
- Volevo solo che tu e io diventassimo amici.
- Spiacente.
Senza il benché minimo imbarazzo, si era alzato e aveva lasciato la
stanza. Da allora in ufficio evito discorsi personali . Il mio collega
è uno stronzo che non sorride mai, mentre io ho sempre voglia di fargli
uno scherzo. Tutti i giorni, pianta il muso, evita di guardarmi, e io so
che non ho interesse a lavorare male. Il peggio è che, uscendo
dall'ufficio, la sera, mi sento sempre triste, a disagio per le mie
giornate
trascorse in solitudine, incapace di invitare qualcuno
a casa mia; peraltro nessuno invita me.
Tutte le sere ritorno nel mio appartamento, come un leone in gabbia, e
parlo da solo. La disperazione si è installata nella mia vita. Leggere
un libro o guardare la televisione mi stanca. È come se avessi
perduto il succo dell'esistenza, come se il pessimismo mi aspirasse:
l'amarezza ha occupato tutto, cancellando ogni volontà di felicità.
Come ridare un senso alla mia vita mentre, progressivamente, sprofondo
nella depressione?
Quel sabato sono sceso in strada, per rompere la
monotonia. La gente, intorno a me, ben vestita, si accalcava nei locali.
L'insegna luminosa di un'enoteca mi ha attirato stranamente
sul marciapiede di fronte. Ho deciso di trascorrervi un quarto d'ora,
prima di rimettermi in cammino. Il locale è affollato e scuro. Prendo
posto lungo l'interminabile bancone dove si è accalcata una folla
composita di habitués. Luci artificiali e brusio di conversazioni si
accavallano. Mi rendo conto di aver ingurgitato due grandi bicchieri di
birra che mi ingagliardiscono, e di non poter parlare con nessuno: le
persone scivolano le une verso le altre, si associano per un
bicchiere, aiutandosi ad ammazzare il tempo fino a essere abbastanza
offuscati per sopportare di rientrare dalle proprie mogli. Dal lato
opposto del bancone, in un allargamento della sala, qualche cliente
appollaiato su uno sgabello gioca con i videogiochi. Com'è
terribilmente impossibile farsi delle amicizie in questa città!
Pago
le mie birre e me la squaglio dicendo arrivederci. Quei coglioni di
baristi non rispondono neppure.
Cammino lungo un canale costeggiato da alberi maestosi. Ho voglia di
sparire. Andarmene. Non vivere più qui. Da quanti anni provo, in questa
città puttana, a fare amicizia? E ogni volta non ci riesco. Mi
intristisco sempre più e mi fa paura crepare tutto solo. Perché non c'è
soluzione alcuna alla mia solitudine.
Metto la testa nel corso,
gironzolando senza riuscire ad arrestare la mia libidine. All'altezza
del viale periferico, allineate sul marciapiede, ci sono sempre le
stesse prostitute. Cammino lentamente e ne sorpasso qualcuna: non la
vedo. Mi fermo, mi volto, cercandola con lo sguardo.
- Beatrice ha cambiato posto, è là, in fondo ...
La ragazza che ha parlato è l' amica di Beatrice. Appoggiata a un
cartello stradale, un ginocchio piegato, il piede sullo scalino, aspira
una sigaretta soffiando il fumo verso il cielo. E' stata interrotta dal
rumore di un motore che si è fermato vicino a noi. Mi volto. Un uomo,
con la testa fuori dalla portiera, la chiama. Volto gli occhi nella
direzione che lei mi ha indicato e vedo Beatrice che scende da un'auto,
mettendosi a posto la gonna. Il guidatore si avvia. Beatrice ha un corpo
sottile con qualche parte gonfiata, difforme: è carina, ma irregolare.
Quel che ha di sessuale disturba e attira con una certa bestialità.
È una ragazza piuttosto simpatica. Ma non riesco mai a farne
un'amica. La vengo a trovare abbastanza regolarmente, tre o quattro volte
al mese, per il sesso. La raggiungo. La mia bocca si posa sulle sue
labbra.
- Romuald, smettila ... Non bacio mai i clienti sulla bocca, lo sai
...
Mi respinge e il suo viso fissa duramente il mio. I suoi occhi brillano
tristemente, malgrado i numerosi clienti. Avevo già notato che era sola
quanto me.
Arrivavo, erano sempre i soliti gesti. Quella ragazza non era mai
veramente vestita, era una ragazza di strada. Portava abiti strani con
gonne molto corte e di cuoio, neri e rossi, che scoprivano i cuscinetti
e attiravano molti clienti. Il suo culo era stupendo: morbido ed
accogliente. Odorava di buono, profumo di donna mescolato al suo odore,
un odore animale, qualcosa di eccitante. Dava sempre l'impressione di
distribuire felicità. Sorrideva, contrattava il prezzo, scivolava dentro
l'automobile o si infrattava con il cliente nel boschetto giusto a
fianco. Il sentiero è costeggiato da una doppia fila di alberi giganti
che somigliano a eucalipti. È talmente stretto che due persone
non possono camminarvici affiancate: io le sto dietro. Generalmente,
qui, dove lei poteva addossarsi al tronco di un grosso albero, mi
chiedeva se volevo prima una fellatio, se avevo un preservativo con me. Io
mi abbandonavo alla sua bocca esperta. Ogni suo gesto era tenero, il
modo con il quale la sua lingua leccava il mio pene. Grandioso. Poi,
levava lo slip e mi offriva il culo. Io venivo penetrandola in piedi,
piegata verso l'albero. Ma questa notte non ho voglia di scoparla.
- Vieni da me a chiacchierare un po'?
- No, non vado mai a casa dei clienti.
Mi ha scosso cercarla e domandarle gentilmente di venire da me, perché a
nessuno piace conoscere le prostitute. Essendo venuto più di mille
volte, pagando, credevo che una certa relazione amicale ormai ci
legasse. Allora insisto esponendomi:
- Ti amo Beatrice. Voglio che tu diventi mia moglie.
Lei si mette a ridere, una risata smisurata che mi urta i nervi. Si tira
su lo slip che si era tolto.
- Che significa?
- Che tu smetti di fare questo lavoro e vieni a vivere con me.
- No. Non mi innamoro mai di un cliente. Il matrimonio è la tomba
dell'amore. No, fermiamoci a quello che avevamo pattuito insieme: il
piacere.
Ha inspirato e poi espirato, prima di parlare cercando queste parole, come
se da un momento all'altro le lacrime potessero rigarle le guance.
- Sono un uomo solo e mi piaci veramente tanto.
- Dici delle stupidaggini spaventose. Non so se posso amarti veramente,
io sono la donna di tutti. È veramente troppo duro. La vita è
ingiusta. Non ho avuto fortuna.
- Non significa niente per me. Io ti amo e ti voglio come mia compagna
per tutta la vita. Pensa alla tua solitudine e capirai che hai bisogno
di qualcuno per cambiare quest'esistenza ... Il matrimonio ci aiuta in
questo: nient'altro.
Usciamo dal boschetto, lei riprende il suo lavoro. Io me ne vado senza
voltarmi. So che la mia solitudine continuerà. Ma almeno ho avuto la
volontà di combatterla. Ora è tardi e sono molto stanco. Mi avvio verso
casa, a dormire, domani è un altro giorno. Una giornata abbastanza
schifosa, come tutte le altre. Quando me ne libererò?
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