Nota biografica | Versione lettura |
Eravamo a tavola e parlavamo di quando si era piccoli. Di posti conosciuti, di gente dimenticata.
"... e la signora della pasticceria all'angolo?"
"La pasticceria... aspetta... aspetta..."
"Non ti ricordi? La vecchia che vestiva sempre di nero e quando parlava
non si capiva niente ..."
"Oh mio Dio, me l'ero completamente dimenticata".
C'è un piacere orgasmico nel tirare fuori dal passato un evento, un personaggio, un episodio completamente archiviato. L'immagine affiora all'improvviso dopo un momento di grande perplessità e il suo passaggio, fino alla consapevolezza, crea una sorta di ebrezza. Condividere poi questa riscoperta con altri non ha prezzo.
"È proprio vero, mia madre diceva sempre: - Non comprare il pane da
quella lì, mi raccomando -", aggiunse luminoso come un bambino davanti
al fuoco.
"... E la pubblicità del tonno?: - Mare, mare, mare ... -"
Ridevano, cantavano, facevano facce buffe, il vino scendeva allegramente, avevamo tutti guance rosse, capelli spettinati, alle donne era rimasto soltanto il tracciato della matita sul contorno delle labbra e un po' di rimmel sotto gli occhi. A tavola c'era ancora chi si tagliava quell'ultima fettina di gorgonzola. Mio marito aveva rinnovato il piatto col pane e tutti avevano protestavano con forza:
"Ma no, no! Sono pieno, sono piena, grazie, niente, niente per
me..."
Ridevano ed agitavano le mani tirando l'elastico della cintura dei pantaloni. Adesso però, il pane era di nuovo quasi finito. Mica si può assaporare quel pezzetto di provolone "piccanto" senza!
"Quando abitavo in Marocco da piccola c'era una pubblicità ...".
Troppo complicato, anche perché, a pensarci bene, la pubblicità comprendeva un gioco di parole in francese che tradotto non si capiva, e poi faceva riferimento al re del Marocco, una realtà che andava spiegata. Non c'era spazio per i miei ricordi, non potevo partecipare, allusi a una pubblicità di adesso, mi guardarono con tolleranza e ripresero sfrontatamente a ricordare come si vestivano i Balilla di Mussolini e che la mamma di uno aveva conservato la sua uniforme di "Giovane Italiana".
A sorpresa intonarono "Tre civette sul comò" che tutti cantilenarono in coro. Io sorrisi a bocca chiusa perché non ne conoscevo le parole sospette. Manifestai interesse, e a quel punto me le dovetti proprio imparare con tanto di ripetizioni. Si fece una prova conclusiva, ero finalmente integrata.
"Un giorno me la devi proprio far vedere" riprese un tale tornando
all'uniforme.
L'argomento slittò sulla guerra.
"Li mandarono al fronte e per poco non morirono tutti sotto le bombe".
"E dove?".
"A Montecassino".
"Proprio a Monte Cassino? Non mi dire! Sai che mio nonno ...".
"In Polonia una parte dei miei furono trucidati durante l'eliminazione
di tutto un paese!".
Mi guardarono imbarazzati. Non volevano parlare della Polonia. La guerra là era stata indecente, troppo lontana, troppo cruenta. Volevano parlare di posti che conoscevano, di gente come loro, volevano sentirsi uniti nello stesso dolore per la propria patria. Non c'era spazio per i miei ricordi, per i miei racconti, neanche sulla seconda guerra mondiale. Avrei dovuto essere abbastanza educata da tenere il mio posto e limitarmi al confine Italiano. Volevano ricordare la loro guerra! Si parlò della fame, si parlò del freddo, si parlò dell'indifferenza, della paura, dei morti, dei feriti, della xenofobia, ma tutto all'italiana. Provai ad entrare varie volte nei loro discorsi, insinuando che anche da noi ci fu fame, freddo e morti. Avevamo un punto in comune, potevamo completarci, confrontarci. Insomma, non conoscevo forse il quartiere Nomentana, la pubblicità del tonno o le parole delle civette ma la mia guerra mondiale sì.
"Mio padre un giorno vide un SS sparare ad un vecchio che non si era
spostato abbastanza in fretta".
"Mmm ...".
"Mio nonno era partigiano ... è morto ...".
"Sapete - rivolgendosi al gruppo - nella mia famiglia c'era gente che
ammirava Mussolini segretamente anche dopo, e le donne, le donne ne
andavano matte ...".
La conversazione era fluida, recitavano tutti come se avessero un copione, sapevano perfettamente come scansare ogni allusione all'esistenza della seconda guerra mondiale fuori dalla barriera alpina. C'erano anche i campi di concentramento.
"Oswiencim" azzardai.
"Come?".
"Auschwitz".
"Sì, sì, ma anche qui ne avevamo, basta solo pensare a Fossoli" si
affrettò a rispondere uno girando nuovamente la testa dalla parte
della conversazione.
"Da lì portavano la gente ad Auschwitz".
Le mie parole si persero nel nulla. Non era una lezione di storia. La precisione dell'informazione non aveva nessun peso o importanza. Sentivo un lieve sconforto, una sorta di sfrontatezza nei loro propositi.
"Una parte della mia famiglia si è rifugiata in Italia durante la
guerra" lanciai un po' stridula dopo ore di ascolto sull'evoluzione
della prima e della seconda repubblica italiana fino ai giorni d'oggi,
con risvolti su Aldo Moro, Tangentopoli e la magistratura
politicizzata, misteriosamente legati al fascismo e alle amanti segrete
di Mussolini.
Tutte le teste erano mie adesso. Il trionfo fu eclatante. Cominciai il mio racconto.
" Fu verso la metà del mese di ottobre del 1943, quasi due anni prima
della fine della guerra. Uno zio paterno aveva per caso trovato un
dizionario italiano in una casa abbandonata al confine di un centro
abitato che era stato bombardato ed evacuato. Con la famiglia
erano sfollati dal loro paese, scampando per miracolo a
controlli e rastrellamenti. Vivevano in dodici in una sola stanza
perché faceva freddo e gli altri ambienti della casa avevano perso il
tetto. Le giornate erano lunghe e il dizionario l'unica
distrazione a disposizione. Le due famiglie amiche trascorsero sei mesi
rinchiuse in quella casa, uscendo soltanto per i bisogni e per
cacciare miracolosamente qualche coniglio che si riusciva a scovare
nel boschetto retrostante. In cantina avevano rinvenuto
numerosi sacchi di patate e per fortuna non pativano la fame.
Col tempo avevano anche riscattato una mucca da una fattoria bruciata
nelle vicinanze e quindi avevano pace, casa, patate, conigli e latte
quando il resto del paese veniva sterminato nel più barbaro dei modi.
Il dizionario era molto bello e completo. Lo zio, che era stato
insegnante in un liceo di Zakopane prese ad insegnare
l'italiano a tutta la famiglia. Dopo sei mesi tutti lo parlavano
abbastanza bene, perfino i bambini che lo usavano per giocare tra di
loro.
Un giorno l'amico di mio zio si avventurò in città e per farla breve
in qualche modo conobbe una persona altolocata a cui fece credere
di essere un italiano bloccato in Polonia. Senza entrare nei dettagli,
grazie a questa persona e alla lingua italiana, riuscirono
a fuggire dalla Polonia e ad arrivare nelle Marche già dopo la guerra,
dove si sono stabiliti e vivono tuttora.
Li guardai tutti molto compiaciuta. Erano a bocca aperta, in religioso silenzio con gli occhi ammirati puntati su di me.
"Dove nelle Marche?", la domanda arrivò automaticamente.
"Purtroppo non lo so" risposi con naturalezza e un pizzico di
rimpianto nella voce.
"Peccato. E non hai mai provato a rintracciarli?" chiese un'altra
voce.
"Non saprei da dove cominciare". Facevo tenerezza.
"Non dovrebbe essere difficile ritrovali però", provò a rassicurami
qualcuno.
"Credo che abbiano cambiato cognome. Sai la guerra ...".
Evitavo accuratamente gli occhi di mio marito che non partecipava più al chiacchiericcio del gruppo e mi fissava con un espressione enigmatica.
La conversazione riprese animata, si fecero addirittura ipotesi sul dizionario, sul paese delle Marche e poi pian piano la comitiva di disgregò. Mi salutarono con molta effusione consigliandomi fortemente di vedere di ritrovare i miei parenti marchigiani. "Che bella storia!" dissero tutti e andarono in pace, felici e contenti.
"Non ho un passato collettivo" mi giustificai.
"Te la cavi benissimo" fece lui, forse un po' sarcastico.
"Avevo voglia di parlare".
"L'ho visto".
"Dai non è molto grave".
"Ti ho forse detto qualcosa?"
"I miei ricordi non interessavano a nessuno!" mi lamentai.
"Era una bella storia, si sono divertiti".
Ci abbracciammo.
"Hai voglia di raccontare, lo sento sai" mi sussurrò.
"Mancano tutti i punti di riferimento, è troppo complicato. Quando ho
finito di spiegare i particolari niente ha più senso".
"Forse hai ragione. Ti senti sola?".
Mi feci piccola piccola: "Non sempre".
"Oggi?".
"Sì".
"Posso fare qualcosa?".
"No".
Mi rinchiuse tra le braccia col mento sulla mia testa.