Nota biografica | Versione lettura |
Per tornare a casa da scuola, c'erano una via breve e una lunga. Jolil prese quella lunga, perché, quando uscì da scuola, gli altri ragazzi che abitavano nel suo palazzo erano già rincasati. Il signor Morrisson lo aveva trattenuto nel suo ufficio per mostrargli alcuni libri.
"Dobbiamo fare qualcosa per il tuo inglese", gli aveva detto il signor Morrisson. "Vieni da me alle quattro meno dieci e rivedremo insieme alcune cose".
Jolil non aveva voluto rifiutare. Non aveva voluto dire al signor Morrisson perché fosse impaziente di tornare a casa. Di solito, lui partiva dal cancello della scuola con altri cinque o sei ragazzi asiatici. Non era programmato, ma era necessario. Se andavano a casa insieme, potevano passare senza paura tra le bande di ragazzi bianchi più grandi che si radunavano fuori dai cancelli. Prendevano la via breve, e se riuscivano a superare il gruppo di facce ostili davanti al casermone bianco in fondo alla strada, potevano accelerare il passo e sentire il calore rassicurante di essere in branco. Se dovevi passare di lì da solo, proseguivi per la Whitechapel Road e arrivavi a casa attraverso il percorso più lungo.
"Ho preso qualcosa dalla biblioteca pubblica apposta per te, Jolil", gli aveva detto il signor Morrisson, allungandogli un libro sulle arti marziali. Qualche giorno prima Jolil gli aveva confessato che erano la sua passione.
"Non guardare solo le figure, prova a leggere un po'", gli aveva raccomandato il signor Morrisson.
Quando arrivò a casa, suo padre vide che teneva stretto quel librone. "Va' a lavarti la faccia e di' le preghiere", gli ordinò il signor Miah.
"Ma andremo alla moschea soltanto più tardi", protestò Jolil. Poi si diresse verso la stanza interna dove dormivano lui e le sue sorelle. Il padre indossava già il suo copricapo bianco di mussola per la preghiera. Un brutto segno, pensò Jolil. Significava che era in vena di paternali. E senz'altro tutte per lui.
"Dedicati al namaaz", gli disse con tono severo. "Il venerdì i devoti devono pregare quante più volte è possibile. Non c'è altro aiuto per noi se non quello di Allah. Con chi sei tornato a casa?"
Jolil non rispose. Sedette sul suo letto e aprì il libro che gli aveva dato il signor Morrisson. Normalmente, quando arrivava a casa, suo padre stava lavorando a macchina in salotto, intento a cucire metri e metri di stoffa, per rispettare il "contratto". Ma il venerdì era giorno festivo. Le macchine si fermavano. Le donne, la madre e la cognata, se ne stavano in cucina. Lui invece si aggirava per la stanza e impartiva direttive che la maggior parte di loro ignorava.
Jolil aveva confidato il suo segreto al signor Morrisson. Gli aveva rivelato perché gli piacevano il kung fu e Bruce Lee.
"Leggi qualsiasi cosa, leggi dei fumetti se proprio vuoi", gli aveva detto il signor Morrisson. In realtà, il signor Morrisson non aveva afferrato, pensò Jolil, per lui era solo un esercizio di lettura come un altro. Il suo amico Errol sì che sapeva del kung fu: l'indomani sarebbe andato a casa sua e gli avrebbe portato il libro.
Jolil sfogliò le pagine. I muscoli di Bruce Lee quasi sporgevano dalle fotografie. Le sue mani, con le dita distese, sembravano afferrare dall'aria una forza magica. Le cicatrici rosse sul suo corpo dovevano essere vecchie ferite sanguinanti, ma sembravano volutamente tagliate alla perfezione. E il suo volto, pensò Jolil, il suo volto aveva la forza autorevole di un uomo umile. Jolil provò a leggere ciò che c'era scritto nella pagina accanto. Sapeva leggere ogni singola parola, ma le frasi non sembravano avere un senso. Le figure non riuscivano a indicare realmente come mettere in pratica le cose, ma raccontavano per bene una storia. Bruce Lee era un uomo semplice, forse anche povero agli inizi della sua carriera. Indossava persino vestiti da ragazzino, di due taglie più piccoli rispetto a quelli di un uomo adulto. In una figura, lui era per aria, come un animale feroce che stava per abbattersi con i suoi pugni da puma su quattro avversari sopraffatti.
Jolil si alzò dal letto e andò alla mensola del camino per guardarsi allo specchio. La madre entrò nella stanza e prese la scatola di ottone che conteneva noci di betel e la stoffa in cui erano avvolte le loro foglie.
"Va' a lavarti la faccia, tuo padre sarà furibondo", gli disse. Jolil strinse gli occhi e si slacciò tre bottoni della camicia con gli occhi fissi allo specchio. Si toccò gli zigomi. Sì, erano quasi come quelli di Bruce Lee.
"Così tu porti in casa questo libro di idoli?" gli domandò suo padre all'improvviso. Jolil abbassò le braccia e si voltò. Il signor Miah aveva preso il libro dal letto e lo stava sfogliando con un'espressione di severa disapprovazione. Quindi fece una specie di gargarismo con un colpo di tosse secca, come se volesse produrre uno sputo per mostrare il suo disprezzo.
"È della scuola", disse Jolil
"Chi è che porta fuori strada i giovani con tutte queste immagini di attori mezzi nudi?" gli domandò il padre. "Chi è che insegna ai giovani una simile mancanza di rispetto?"
"Dammelo. Lo metterò via", disse Jolil, cercando di strappargli il libro dalle mani.
"Dovresti leggere il Corano. Continuerò a essere grato ad Allah, anche se mi ha dato un figlio miscredente. Faresti meglio a leggere i libri che contano, figliolo, prima di dedicarti a tutti questi imbrogli da cinese. Non rispondi più quando tuo padre ti fa delle domande, eh?"
"Quali domande?" chiese Jolil, tentando di distogliere l'attenzione di suo padre mentre agguantava il libro e si guardava intorno in cerca di un posto in cui nasconderlo.
"Con chi sei tornato a casa da scuola?"
"Errol".
"Errol, eh? Bene, è ora che tu smetta di andare in giro con i negri. Dovresti essere giù nel seminterrato a imparare a leggere l'arabo con Kazi-sahab".
"Sono i bambini piccoli che vanno a lezione da Kazi", replicò Jolil.
"Non si è mai troppo grandi per essere umili e imparare le parole di Allah".
"Comunque, io conosco l'arabo. Conosco l'urdu... aleph, be, pe, the, zaal, zin e così via".
"L'unico urdu che conosci tu è quello dei film spazzatura che vai a vedere. Non hai nessun rispetto a portare in casa libri spazzatura, con immagini oscene di attori e di cinesi".
"Questo non è un attore", disse Jolil. "È una tigre".
"Un comune lottatore. E comunque le tigri sono creature stupide. Vivono fuori dalla grazia di Dio, cadono in buche costruite con ramoscelli e foglie per prenderle in trappola".
Jolil capiva quando suo padre era in procinto di raccontare una storia sul Bangladesh. L'aveva sentita venti volte quella della tigre che pensava che ogni sentiero tracciato fosse stato spianato dalle sue stesse zampe e fu sorpresa di scoprire una scimmia che procedeva a lunghi balzi lungo un cammino aperto da lei per raggiungere la sua pozza d'acqua. Jolil non voleva sentirne la fine. Si girò, andò in cucina e domandò alla cognata quando sarebbe rientrato suo fratello.
"È andato alla riunione".
"Sempre queste inutili riunioni! Stanno diventando dei senza Dio in questo miserabile Paese; pensano di poter combattere i bianchi. Sapete quanti bianchi ci sono?" chiese il padre, entrando in cucina. Le donne non gli diedero risposta.
"Volevo andarci anch'io alla riunione", disse Jolil.
"Non faranno che parlare. Ai bengalesi piace fare grandi discorsi", concluse il padre.
La settimana prima c'era stato un incidente. Un bengalese era stato accoltellato a un orecchio mentre rincasava dal lavoro e la banda di bianchi che lo aveva aggredito era fuggita. Alcuni dello stabile dove viveva Jolil con i suoi avevano convocato una riunione di tutte le famiglie. Il fratello maggiore, Khalil, c'era andato ed era ritornato con la notizia che stavano progettando un sistema per difendere le loro abitazioni. La notte dell'accoltellamento, gruppi di giovani bengalesi si erano mossi dai caffè di Brick Lane, determinati a sfidare qualsiasi banda di bianchi provocasse con insulti o modi violenti. Poi il giorno dopo qualcuno aveva gettato un mattone contro la finestra di un appartamento al pianterreno ed era stata convocata un'altra riunione, questa volta estesa a tutto il caseggiato.
"Se vogliono la guerra, allora sarà la guerra", disse Khalil al suo ritorno.
"Ma cosa potete fare se la volontà di Dio non è con voi?"
"Lascia perdere Dio", ribatté Khalil. "Ammasseremo mattoni e pietre sulla terrazza, e se una banda viene ad attaccarci, saliremo tutti lassù e li sistemeremo per le feste".
"Se un serpente ti morde, non voltarti a scacciarlo in modo che possa morderti ancora. Lascialo stare", disse il signor Miah al figlio maggiore.
"Che cosa fai se poi si gira per morderti ancora?"
"Gli metti del sale sulla coda", disse il signor Miah.
Tirava sempre fuori quel detto come se fosse una verità sacrosanta. A volte Jolil avrebbe voluto discutere con lui. Non riusciva a capire il senso dei proverbi di suo padre. Per esempio, quando diceva: "Ogni chicco di riso porta il nome della persona che è destinata a mangiarlo". Oppure: "Metti del sale sulla coda di un serpente e non ti darà mai più fastidio". Un'altra volta, invece, sbraitava contro Jolil perché aveva rovesciato grani di sale sul pavimento della cucina mentre li spargeva sulle sue patatine fritte e gli diceva che quando si fosse trovato al cospetto di Dio, sarebbe stato costretto a raccogliere con le palpebre ogni granello di sale che aveva sprecato nella sua vita, prima che gli fosse permesso di varcare le porte del paradiso. Tutte sciocchezze.
Ma dal tono del signor Miah sembravano tutt'altro che sciocchezze. Erano verità di vita, proprio come andare alla moschea il venerdì, e lavorare a macchina quando un padre ti ordinava di farlo.
Jolil si limitava a dare una mano con il lavoro di cucito quando un contratto doveva essere portato a termine con urgenza. Marinava la scuola e aiutava il padre e la cognata che stavano seduti tutto il giorno alle due macchine del salotto. Quando un contratto era "urgente", le macchine prolungavano il loro ticchettio fino a notte fonda. A Jolil non piaceva lavorare a macchina, ma non voleva confessarlo al padre. Il signor Miah diceva che c'erano due tipi di denaro, il denaro sudato e il denaro bagnato, e con quest'ultimo non riuscivi a mantenere una famiglia, potevi soltanto perderlo al gioco o comprarci dell'acqua (1). Dovevi sudare se volevi mangiare. Jolil metteva il filo sulle macchine, avvolgeva il nylon sui rocchetti e ogni ora separava i pezzi cuciti dai mucchi di stoffa tagliata, e inoltre, quando gli veniva richiesto, andava a prendere il tè o faceva un salto al negozio per comprare latte condensato e sigarette.
"Lunedì dovrai perdere la scuola e lavorare a queste fodere", gli comunicò il padre.
"Perché non possiamo fare tutto entro il fine settimana?"
"Noi non lavoriamo il giorno festivo", disse il signor Miah, "e domenica andremo al mercato di Brick Lane a comprare delle sedie. Dobbiamo prendere delle sedie a tua madre".
"Lunedì io devo andare a scuola".
"A fare cosa? Da quando sei diventato così smanioso d'imparare?"
"Faranno vedere un film di kung fu per tutti quelli del terzo anno".
"Vi fanno perdere tempo a scuola", disse il padre. "A cosa ti serve tutto questo se diventerai un sarto?"
"Ma non è uno dei soliti film", replicò Jolil. "È sui segreti del kung fu. Il signor Morrisson porterà un film che spiega tutto".
"Non si può mai spiegare tutto", obiettò il padre. "Se continuerai per questa strada inutile, ti rispedirò in Bangladesh, così potrai imparare a essere un lottatore che va in giro di villaggio in villaggio a chiedere l'elemosina e a sfidare tutti gli idioti a combattere".
"Lavorerò domani. Posso fare cento fodere in un giorno", disse Jolil.
Lo avrebbe fatto, pensò. Quando abitavano nella vecchia casa, c'era ancora un po' di gioia in questo lavoro, mentre l'ago ronzava fra le dita. Fare il sarto rendeva le dita agili ma anche stanche. Le trasformava in strumenti. Il kung fu le tramutava in armi.
Questi erano pensieri che il padre non avrebbe capito. In un film di Bruce Lee intitolato La vendetta del Dragone Nero, il protagonista strappava gli occhi a parecchi cattivi e con altrettanta crudeltà spaccava la faccia agli altri. C'era una tecnica per fare tutto questo. Dovevi ruotare il palmo in faccia al nemico. Le tue mani, simili a un uragano, dovevano essere addestrate ad atterrare un esercito di demoni. Una volta diventato abbastanza bravo, diceva fra sé Jolil, avrebbe permesso alla gente di fotografarlo. Era quello il tipo di eroe che voleva diventare. Una volta diventato abbastanza bravo, avrebbe trovato la sua fotografia su Martial Arts, e su Filmfare, la rivista che leggeva sua cognata. Sarebbe stato il primo campione di arti marziali del Bangladesh, e i suoi film avrebbero avuto più successo di quelli con Rajesh Khanna, che sua cognata adorava, e poi avrebbe potuto comprarsi una grossa macchina americana bianca. Ma se mai fosse diventato famoso, non sarebbe andato ad abitare nella zona di Malabar Hill a Bombay come facevano le altre stelle del cinema. Avrebbe usato i suoi poteri per fare altre cose, per riparare un sacco di torti, per essere un santo del mondo in lotta.
Una volta il padre gli aveva raccontato la storia di un uomo saggio che era rinato in un villaggio remoto nel distretto di Sylhet. Gli aveva detto che le anime di vecchi banditi s'impiantavano nei corpi di bambini appena nati e si reincarnavano in famiglie di persone pie. "La saggezza passa da uomo a uomo", andava dicendo il padre. "La forza ci è data da Dio e non si può estinguere; è come una fiamma che lascia dietro di sé non solo cenere ma anche calore". E Jolil si domandava se l'anima di Bruce Lee sarebbe passata nel corpo di un promettente giovane eroe. Era una delle storie di suo padre cui voleva credere.
Negli ultimi mesi, il signor Miah se n'era uscito con un sacco di queste storie. Jolil aveva notato che più guai c'erano, più filosofico diventava suo padre. Si metteva la calottina per la preghiera e borbottava con il resto della famiglia. Khalil aveva smesso di prestargli attenzione.
Lui diceva che ci sarebbero stati altri guai. Con il sopraggiungere dell'estate, i bianchi si sarebbero scatenati, sarebbero forse arrivati con i fucili. I compagni di Khalil volevano tutti farsi trovare pronti, ma Jolil capiva che non sapevano in che modo. Il primo compito era proteggere le loro abitazioni. C'erano lì cinquanta famiglie bengalesi, tutte abusive. Vi si erano trasferite in un clima di grande eccitazione. Alcuni giovani bengalesi erano venuti a starci con la famiglia, e la notizia si era sparsa per Brick Lane e dintorni. Come le altre, la famiglia di Jolil aveva lasciato la piccola stanza sul retro nella casa dei parenti e aveva portato materassi e utensili nel nuovo alloggio. Non era affatto nuovo, naturalmente. Era una vecchia costruzione che nessun altro voleva. Il primo giorno c'era stato un continuo andirivieni. Era venuta la polizia, poi dal comune erano venuti alcuni bianchi in furgone e avevano parlato con i due o tre giovani che stavano conducendo l'intera operazione. Si erano tutti sistemati e un mese dopo iniziavano i guai. Alcuni bengalesi erano molto violenti. Facevano discorsi molto duri sulla necessità di combattere e proteggere le loro famiglie e la loro gente. Il padre di Jolil non interveniva mai, almeno non in pubblico. Discuteva a casa con Khalil.
Khalil diceva: "Questa è una jehad, una guerra santa. Se vogliamo restare in questo Paese, dobbiamo lottare".
E tuttavia si spazzolava i capelli per assomigliare a una stella del cinema, indossava i vestiti più belli e usciva con gli amici a gironzolare su e giù per Whitechapel Road e Brick Lane, e a volte fino al West End. Persino lui non capiva che cosa dovevano fare. Gironzolare per Brick Lane non li avrebbe resi più forti, non li avrebbe fatti diventare tali da incutere terrore nelle viscere dei bianchi "schifosi". Jolil era determinato nel volere praticare le arti della disciplina e della meditazione, perché il signor Morrisson gli aveva detto che essere esperti in qualcosa era molto difficile. Alla radice di tutta la forza di un uomo c'erano la disciplina e la meditazione. Ma come si doveva fare? Lui colpiva la parete con il palmo della mano un centinaio di volte contando ad alta voce per distogliere la mente dal dolore.
Quando era in casa, o fuori nel cortile con i bambini più piccoli del caseggiato, si esercitava a tirare calci in aria. Provava ad alzare il ginocchio ogni volta più in alto, buttando di scatto il piede in fuori, simulando un fulmine. Faceva ancora grandi sforzi per mantenere l'equilibrio. Un giorno sarebbe stato perfetto. Sarebbe andato a lezione di kung fu e si sarebbe guadagnato una cintura nera.
Jolil sapeva che anche Errol si stava allenando. E aveva imparato la modestia. Non si metteva mai in mostra durante la ricreazione nel cortile della scuola. Non alzava un pugno né una gamba. Ma Jolil sapeva che Errol aveva irrobustito i palmi delle mani con accuratezza e tenacia e, se voleva, era in grado di spaccare tavole di legno con un colpo solo. Gli aveva fatto vedere come roteare il pugno quando lo spingeva in fuori con il braccio disteso. Era uno dei segreti, un movimento controllato, aggraziato e bisognava imparare a farlo nel modo giusto. E rapidamente. La velocità era un altro segreto. Il silenzio un altro ancora. La forza bruta terrorizzava di più se non te l'aspettavi. Dovevi sembrare un sacerdote e combattere come una tigre. Poi c'era la sicurezza di sé. Una delle ragioni per cui Jolil non esibiva le sue mosse davanti a Errol o a qualsiasi altro suo compagno di scuola era perché avrebbero potuto ridere di lui. E se ridevano, il suo spirito era umiliato, e allora non importava più quanto erano rapidi e forti i suoi pugni, sarebbe stato sconfitto dai loro sguardi e dai loro sogghigni. La tua sicurezza doveva sconfiggere quegli sguardi e quei sogghigni.
"Mettiti il copricapo, è ora di andare a pregare", disse il signor Miah. Jolil s'infilò la giacca e si mise in tasca la calottina per la preghiera. Non aveva intenzione di farsi vedere in strada con quella in testa. Il padre camminava a grandi passi davanti a lui. C'era ancora luce quando uscirono dal caseggiato e passarono sotto il vecchio voltone. Il padre girò a sinistra. Avrebbero preso la via che passava accanto al casermone bianco. I bambini più piccoli stavano ancora giocando in cortile. Scorrazzavano tra i cumuli di rottami e s'intrufolavano nei seminterrati deserti, arrampicandosi su e giù dai davanzali delle finestre con gli infissi sgangherati. Le loro voci, un misto di esclamazioni in bengali e di parolacce in inglese, echeggiavano per il cortile. Il rumore delle macchine da cucire e l'odore di fritto e di spezie si diffondevano nell'aria attraverso le porte aperte.
"Li senti?" disse il padre di Jolil. "Non fermeranno le loro macchine neanche per il giorno del giudizio. Non dovrebbero chiamarsi musulmani. Vedi che cosa fa alla nostra gente la promessa di pochi spiccioli?"
Raschiò un po' di saliva e la sputò sul marciapiede. Attraversarono lo stretto acciottolato, superarono i magazzini con i tetti di assi dirigendosi verso la moschea. Jolil sapeva che i ragazzi del casermone bianco in fondo alla strada chiamavano questa zona "Pakilandia". Avrebbero dovuto oltrepassare quegli squallidi caseggiati grigi e poi sarebbero stati di nuovo al sicuro. Le nuove costruzioni in cemento avrebbero ancora lasciato spazio al complesso mezzo sventrato di vecchie fabbriche e case, l'odore di "lardo di maiale", come il padre lo chiamava in bengali, avrebbe ancora lasciato spazio agli aromi più intensi di aglio e coriandolo provenienti dagli alveari di abitazioni asiatiche che circondavano il territorio della moschea.
Jolil li vide, e vide che anche il padre li aveva individuati: c'era un gruppo di bianchi, ragazzi e ragazze, circa una dozzina, appoggiati o seduti sui muretti di cemento che circondavano il loro edificio. Lui e il padre avrebbero dovuto scegliere l'altro percorso, pensò Jolil. Affrettò un po' il passo per affiancarsi al padre. I passi del signor Miah erano diventati più brevi e più veloci. Aveva lo sguardo fisso nel vuoto, come se non si fosse accorto di tutti quegli occhi che li stavano scrutando a mano a mano che si avvicinavano. A Jolil venne un piccolo nodo alla gola. Non era troppo tardi per tornare indietro e prendere l'altra strada, anche se questo avrebbe comportato una deviazione di mezzo miglio. Ma purtroppo fu proprio ciò che non fecero. Suo padre andò avanti come se quel pensiero non gli fosse nemmeno passato per la testa.
Quando furono ormai vicini, il gruppo smise di chiacchierare. Se ne stava lì silenziosa e piena di animosità. Passando, Jolil abbassò gli occhi, non voleva guardare in faccia quei ragazzi per timore che la prendessero come una provocazione. Sembravano muscolosi, quei giovani bianchi, nei loro vestiti attillati e con i capelli rasati.
"Allah ci guiderà", mormorò il padre di Jolil, come fra sé e sé.
Superarono la banda e alle loro spalle una voce gridò: "Ehi, paki-pacchiani!"
"Continua a camminare", disse il padre a Jolil, facendo finta che la sua unica preoccupazione fosse dare l'andatura, che ora era diventata più spedita per lo spavento. Jolil si rese conto che il padre era impaurito. Forse anche quel branco di zoticoni riusciva a fiutare il puzzo di fifa che sprigionava.
"Ora non puoi aspettare, eh?" disse uno dei ragazzi. "Devi scappare via per fare lo straordinario?" Stava cercando d'imitare un accento asiatico.
"Smettila, Baz", disse una delle ragazze sul muretto. "Uno di questi giorni questi tipi ti daranno tante bastonate che dovrai nasconderti".
"Non farmi ridere", replicò il ragazzo. "Sono quelli come loro a nascondersi sotto il letto appena tira aria di guai. Però presto neanche quello li aiuterà".
L'andatura del signor Miah si era ormai trasformata quasi in una corsa.
"Dovrai farne di strada di corsa per tornare nella giungla", gridò dietro di loro una voce che si levò dal branco.
"Capisci adesso perché il Corano ci proibisce di bere?" chiese il padre a Jolil. Lui non rispose.
Alla moschea Jolil cercò di concentrarsi sulle sue preghiere. Il cuore gli batteva ancora forte. Si stava domandando che cosa avrebbero potuto fare. Guardò intorno a sé gli altri uomini inginocchiati, che si prostravano secondo l'intonazione delle preghiere. Jolil provò un senso di calma. Tutta questa gente, pensò, tutta questa gente. Non possono cacciarci da nessuna parte. Khalil aveva detto che i bianchi volevano ricacciarli nella loro terra con la paura, rendendoli, cioè, talmente terrorizzati di camminare per strada da obbligarli a levare le tende e tornarsene in Bangladesh.
Alzò lo sguardo verso il padre. Il panico sembrava essere svanito e, mentre apriva e chiudeva gli occhi, appariva sereno e assorto nelle sue preghiere. Una lieve minaccia, un piccolo fastidio, ecco cosa ti offriva la vita, sembrava pensare. Jolil conosceva suo padre. Per lui tutto questo non era importante. Forse non era importante nemmeno per tutta questa folla inginocchiata. Come la neve e il buio precoce d'inverno, così le minacce e l'odio che cingevano d'assedio le loro vite erano soltanto parte della realtà inglese. Come gli aquiloni sopra i cieli dei villaggi del Bangladesh, o le locuste che distruggevano i raccolti, arrivando come il monsone in nubi funeste, così questi "bianchi schifosi", come loro li chiamavano, erano creature con cui dividere il paesaggio. Per Jolil erano diversi. Da sei anni era a scuola con ragazzi bianchi. Conosceva tutte le sfumature della lingua che parlavano. Capiva le battute che facevano. Comprendeva le loro ragioni ma anche la loro irragionevolezza. Per suo padre erano individui da ignorare, i loro commenti erano come il gracchiare dei corvi sugli alberi verso il tramonto, non significavano niente.
Usciti dalla moschea, Jolil notò che il padre temporeggiò finché non furono raggiunti in strada da altri uomini del loro caseggiato.
"Non avere mai paura degli sciacalli", disse a Jolil. "Se qualcuno di quei bianchi avesse provato ad attaccarci o qualcosa del genere, gli avrei dato una bella lezione".
"Avremmo dovuto prendere l'altra strada", fece Jolil.
"Oh no", replicò il padre. "Le strade sono state fatte per camminarci sopra". E sputò con foga.
"Avresti dovuto sputare a loro quando ci hanno offeso", disse Jolil.
"Avevo la bocca asciutta, figliolo".
Il pomeriggio seguente Jolil era a casa di Errol. La sua camera era tappezzata di poster di kung fu. Jolil raccontò all'amico del libro che gli aveva dato il signor Morrisson.
"Libri importanti quelli sul kung fu, accidenti, solo delle cinture nere riuscirebbero a capirli. Non è come il calcio dove tutti possono vedere i trucchi. Il kung fu è una scienza seria, accidenti; se non conosci la meditazione, allora non puoi fare niente", disse Errol.
Discussero del film che sarebbero andati a vedere. Morrisson aveva detto che si intitolava I segreti del kung fu. Errol disse che forse il film avrebbe potuto insegnargli qualcosina, c'erano ancora un paio di cose che aveva bisogno di sapere.
Quando Jolil arrivò a casa, il padre e la cognata erano alle macchine. Il signor Miah di solito cedeva il suo posto a lui e se ne andava alla moschea per conto proprio, lasciandolo a lavorare per un paio di ore. Quel giorno non si mosse. Si rivolse alla nuora e le concesse una pausa ora che Jolil era ritornato. Lavorarono in silenzio. Il padre non aveva fatto parola con i famigliari dell'incidente successo la sera prima.
La domenica Jolil andò con il padre al mercato di Brick Lane. Era affollato. La gente camminava tra file di botteghe di cianfrusaglie disposte su entrambi i lati della strada. Le bancarelle vendevano di tutto, dalla verdura ai grammofoni antichi. Il signor Miah infilò la testa in qualche bottega di rigattiere e si guardò intorno per trovare una coppia di sedie.
"Voglio delle sedie, sedie buone", disse all'uomo con la pancia enorme seduto davanti a una bottega.
"Che tipo di sedie?"
"Per sedersi".
"Guarda dentro, laggiù, capo, ho un mucchio di sedie".
"Che prezzo?"
Il padre andò in fondo alla bottega, piena zeppa di materassi, tavoli vecchi, lenzuola di tela e mobilia rotta. Da in cima a una pila prese una sedia ben lucidata.
"Quelle non sono per te, capo", disse l'uomo. "Sono pezzi di antiquariato".
"Quant'è?" insistette il padre.
"A che serve dirtelo se non le prendi?"
"Le prendo", disse il signor Miah. Jolil se ne rese conto immediatamente: il padre aveva capito che il venditore stava cercando d'insultarlo.
"D'accordo, diciamo dodici sterline l'una, va bene? Soddisfatto?"
Il signor Miah rimise la sedia in cima alla pila.
"Vieni a dare un'occhiata a queste, capo, fanno più al caso tuo. Sedie buone e robuste, queste, ti dureranno finché tuo figlio non vedrà i suoi nipoti correre per tutta Spitalfields. Sono due sterline l'una", aggiunse l'uomo, allungando al signor Miah due sedie con l'intelaiatura di acciaio e ricoperte di plastica. Le spolverò.
Il signor Miah gli diede i soldi.
"Conosco la vostra gente, capo. So cosa vi piace", disse l'uomo. Jolil e il padre presero una sedia per ciascuno. Poi si fecero largo tra la folla.
"Devi imparare come si fa a ottenere le cose al prezzo giusto, questi commercianti sono molto scaltri", disse il padre a Jolil quando vennero fuori dal trambusto del mercato. Jolil sapeva che erano stati insultati, che l'uomo li aveva derisi. Camminò con gli occhi fissi sul marciapiede. Non si poteva proprio ingoiare un insulto e continuare a camminare a testa alta. Un giorno, pensò, un giorno sarebbe stato pronto. Non avrebbe accettato di stare in mezzo alla gente con la paura addosso.
Quando svoltarono per Chicksand Street, l'ultimo tratto di strada verso casa, dopo essersi fermati ogni pochi metri per trasferire il peso ingombrante delle sedie da un braccio all'altro, Jolil vide due ragazzi della banda in cui si erano imbattuti il venerdì sera. Erano in piedi sul marciapiede, appoggiati al muro come la volta precedente.
"Questo schifo di gente è ancora qui", disse il padre. "Quando sono in uno o due non sono così spavaldi, eh? Gli spacco questa sedia sulla testa se mi dicono qualcosa". Ora procedeva baldanzoso.
"Gli uomini dovrebbero avere paura di uccidere come di morire", disse, e raschiando un po' di saliva, sputò sul marciapiede.
"Che hai da sputare davanti a casa nostra?" disse uno dei ragazzi bianchi mentre si avvicinavano.
"Smettila, smettila, smettila", ribatté il signor Miah in inglese.
"Ti farò smettere io", lo rimbeccò il ragazzo, avanzando di un passo mentre gli stavano passando davanti.
"Tu continua pure a camminare, e se ti si avvicina tieni pronta la sedia", disse il signor Miah a Jolil in bengali.
Il giovane fu su di loro. Da dietro afferrò il signor Miah per il bavero della giacca. Lui cercò di liberarsi con uno strattone, lasciando cadere la sedia. Il ragazzo indossava una maglia rossa, così aderente da far sembrare i suoi muscoli grossi e minacciosi. Sul suo volto apparve un lampo di livore.
"Ehi, vuoi andare là a pulire quello scaracchio?"
"No, grazie", rispose il padre di Jolil. "Tu va' avanti, sbrigati", aggiunse, in bengali, rivolgendosi al figlio.
"Ah, no-speak-English, eh? Sai benissimo che cosa ho detto, adesso torna qui e pulisci".
L'altro giovane si avvicinò lentamente e si piazzò davanti al signor Miah.
"Voi non scapperete da nessuna parte, berrettini di lana riccioluta!" urlò. "Tu farai come ha detto il mio amico e pulirai il tuo scaracchio".
Sollevò la sedia che il signor Miah aveva lasciato cadere e la sbatté in modo teatrale sul marciapiede. Poi vi si sedette sopra.
"Perché tormentate un povero vecchio?" disse il padre di Jolil. Adesso stava passando alle suppliche. All'improvviso Jolil si rese conto di non riuscire a sopportare oltre. "Tirati su, è la nostra sedia", protestò, precipitandosi verso il giovane seduto e cercando di togliergli via la sedia da sotto.
"Vuoi che ti faccia mangiare i denti, Paki junior?" disse il giovane.
"Lui è molto piccolo, un ragazzino", lo implorò il padre, alzando la mano come in segno di resa. Ritornò nel punto in cui aveva sputato e cominciò a strisciare le scarpe sul marciapiede.
"Ho detto con la lingua, non con le tue scarpacce da quattro soldi", gridò il ragazzo.
Jolil prese la sua sedia, la sollevò e si avventò contro il giovane. Lui prontamente si scansò, gli strappò la sedia dalle mani e la scaraventò a pochi metri di distanza. Poi gli balzò addosso e lo prese a schiaffi su entrambe le guance, spingendolo via mentre Jolil gli si scagliava contro sotto una gragnola di ceffoni secchi e sonori.
"Non fare il furbo con me", sibilò il giovane fra i denti. Jolil si gettò di nuovo su di lui. Il ragazzo lo afferrò per la camicia, lo tenne stretto con le braccia tese e lo buttò a terra. Poi piombò su di lui, prendendolo a calci, mentre Jolil cercava di coprirsi il volto.
Fu allora che sentì la voce del padre da dietro le spalle del giovane.
"Mi dispiace tanto, mi dispiace tanto", stava dicendo, e poi in urdu, "in nome dell'onniveggente Allah".
Il giovane che stava prendendo a calci Jolil emise un piccolo guaito.
"Aaaaahi, bastardo", lo sentì urlare Jolil e poi lo vide piegarsi in due come se gli fosse caduto qualcosa sul marciapiede. Il padre gridò a Jolil di correre, di abbandonare le sedie. Lui scattò in piedi e lo seguì di volata. Per alcuni secondi l'altro giovane li rincorse ma poi si voltò e ritornò dall'amico, che era ancora inginocchiato sul marciapiede e gridava come se avesse visto in faccia la morte. Jolil non si voltò. Né lui né il padre si fermarono finché non ebbero raggiunto il voltone cadente del loro caseggiato.
Quando entrarono, Khalil era in casa.
"E le sedie?" chiese la madre e poi, vedendo i segni rossi sul viso di Jolil: "Oh, Dio mio, cosa ti è successo?"
"Non siamo riusciti a trovare nessuna sedia", rispose il marito. "Mentre stavamo tornando, Jolil è inciampato ed è caduto".
"Non è vero!" gridò Jolil. "Siamo corsi..." cominciò a spiegare.
"Non dare del bugiardo a tuo padre", lo interruppe il signor Miah. "Vai di là e lavati la faccia".
"Perché siete scappati?" domandò Khalil. "Chi vi ha inseguito? Li ucciderò".
"Io non sono un violento", replicò il padre, "e il giorno che i miei figli potranno dire al loro padre cosa fare, sarà il giorno in cui vorrò smettere di vivere".
"Se vivi come un topo hai già smesso di vivere", disse Khalil.
"Non essere impertinente, giovanotto. Non si è fatto male nessuno. Stiamo bene tutti e due. Allah ci ha portato a casa sani e salvi".
Khalil non aveva intenzione di parlare contro Allah. Girò sui talloni e uscì.
A Jolil ora bruciava il viso, e per gli schiaffi e per la vergogna. Non osò raccontare alla madre cosa era successo. Si rendeva conto che avevano perso molto più di due sedie, avevano perso il diritto di camminare per la strada. Avevano perso la faccia. Quei piedi, che avrebbero dovuto sferrare calci nel momento del pericolo, avevano infilato precipitosamente la via di casa.
Quella notte, sveglio, giaceva supino sul suo letto, la mente piena di rabbia per la loro debolezza. La casa era buia, il resto della famiglia dormiva. Jolil sentì alcuni rumori provenire dalla cucina. Sentì scorrere l'acqua del rubinetto, lo scalpiccio di qualcuno che cercava di camminare in punta di piedi e poi lo scricchiolio del legno. Si alzò dal letto, attraversò silenziosamente il salotto e sbirciò in cucina. Il padre, al buio, era inginocchiato sul pavimento. All'avvicinarsi di Jolil, trasalì e girò la testa.
"Tornatene a dormire", gli disse con tono severo.
Ma Jolil non ubbidì e rimase sulla soglia. Il linoleum sporco sul pavimento della cucina era stato sollevato, e il padre, con il martello, stava armeggiando con una delle assi. "Ascolta, figliolo", disse, alzandosi in piedi e voltandosi, quasi bisbigliando. "Non parlare mai a nessuno, neanche a tua madre o a Khalil, delle sedie che abbiamo comprato o di quegli uomini".
"Non lo farò", disse Jolil. Erano fuggiti e non voleva dire a nessuno che suo padre era un codardo. "Non preoccuparti. Non lo farò".
Il mattino seguente, la madre portò a Jolil una pasta di color bianco che lei stessa aveva preparato e gliela mise sulle guance. Lui la lavò via poco dopo, poi si spazzolò i capelli, e, prendendo la via lunga, andò a scuola.
Nel buio della palestra, i ragazzi fischiarono e applaudirono quando sullo schermo apparve Bruce Lee: saltava i muri, schivava i proiettili, affrontava e stendeva contemporaneamente sei nemici. Poi il film passò dal colore al bianco e nero. Un tale in giacca e pantaloni si rivolgeva agli spettatori. "... diamo dunque un'occhiata al mondo in cui vivono le stelle di questo culto internazionale. Osserviamo il modo in cui si conduce questo gioco, assistiamo alla magia e all'illusione del kung fu..." Ci furono altre inquadrature di uomini che mozzavano la testa ad altri uomini con il colpo secco di un palmo rinforzato. Il sangue usciva a fiotti e gli studenti del terzo anno applaudivano. Poi riapparve sullo schermo il bianco di prima. Stava per dare spiegazioni, pensò Jolil, stava per svelare il segreto. Mentre lui parlava, si vide sullo sfondo lo staff di uno studio cinematografico che montava degli oggetti. Poi un cinese, con cui il bianco stava parlando, saltò giù da un muro sul quale era appollaiato. I cameraman ripresero il salto. Mentre si buttava, l'uomo gettò le braccia in fuori. Il commentatore bianco bloccò il film per gli spettatori.
"Così lo facciamo tornare indietro", disse. Il film dentro al film fu fatto tornare indietro e mostrò lo stesso salto al contrario, così sembrò che il cinese fosse saltato sul muro.
Jolil guardava in silenzio. Le immagini si spostarono ad altri ambienti dello studio. Un attore era in posa accanto a un manichino che lo raffigurava.
"Non è bello", disse uno dei ragazzi vicini a lui.
La testa del manichino fu troncata, zampilli di sangue cominciarono a sgorgare, poi il collo fu alzato verso la macchina da presa per mostrare come il sangue fosse stato fatto schizzare da una capsula grande come una penna. "Tutto questo, in un film normale, avviene a ventiquattro fotogrammi al secondo, la velocità della vita reale. Che cosa succede se mandiamo le immagini al rallentatore?" Ci fu un'altra inquadratura del cinese che indirizzava calci alle mascelle di altri attori. Lo faceva lentamente, di proposito, e il regista fece mettere in posa le comparse con espressioni di sorpresa. Seguì un'altra inquadratura della stessa scena a una velocità che sembrava incredibile.
"La celluloide ha creato il superuomo del kung fu, che corre, salta e assesta pugni con una furia a velocità accelerata".
Tutto il film fu così. Quando si accesero le luci e il signor Morrisson si presentò davanti alla platea dicendo che avrebbero avuto dieci minuti più del solito per il pranzo, Jolil si rivolse a Errol. La maggioranza degli altri ragazzi era indifferente a quello che aveva visto.
"Nel libro che mi ha dato Morrisson, c'era scritto che Bruce Lee riusciva davvero a saltare su un muro alto tre metri".
"Bruce Lee è morto", replicò Errol.
"Credo siano stupidate", disse un altro ragazzo nella loro fila. "Il kung fu è per i mongoli".
"I bianchi rovinano tutto", disse Errol.
Jolil non rimase a scuola il pomeriggio. Tornò a casa. Non riusciva a rendersi conto di cosa provava ora che il segreto era stato distrutto. Forse il film mentiva, il kung fu non era tutto così, non erano tutti trucchi.
Quando arrivò davanti al suo palazzo, Jolil vide parcheggiate tre auto della polizia. Nel cortile c'erano dei poliziotti e parecchi vicini stavano parlando con loro. Le donne e i bambini si sporgevano dalle finestre.
Jolil si precipitò in casa. Il padre era seduto alla macchina da cucire, con gli occhiali che gli scivolavano sul naso.
"Che cosa sta succedendo qui? Che cosa ci fa la polizia qui da noi?"
"Vuoi farti gli affari di tutti? Dovresti avere un milione di vite".
"Ieri sera un ragazzo bianco è stato accoltellato in fondo alla strada", disse Khalil, mentre guardava fuori dalla finestra. "La polizia vuole sapere se qualcuno dei bambini ha trovato un coltello o qualcosa del genere mentre giocava per strada".
"Perché mai dovremmo immischiarci nei litigi dei bianchi?" disse il padre, infilando l'ago della macchina dopo avere leccato il filo.
"Ma non è stato un bianco ad accoltellarlo", disse Khalil. "Sono stati dei bengalesi che hanno lasciato delle sedie sul marciapiede".
"Non parlare a vanvera, lasciando che la tua lingua si muova senza usare il cervello. Noi abbiamo tutte le sedie che ci servono in questa casa", lo zittì il padre, continuando a lavorare.
Poi si rivolse a Jolil. "Va' a prendere due sterline dal mio borsellino e va' in Brick Lane a comprarmi un paio di forbici da sarto. Prendi la via lunga".
1. "Denaro bagnato" (water money) è un'espressione che si rifà a un simile modo di dire tradotto dal bengali ed equivalente a "denaro guadagnato con facilità". "Comprare acqua" (buy water) significa invece pagare qualcosa che dovrebbe essere gratuito.